martedì 12 maggio 2009

Tensioni e cariche davanti il liceo Michelangelo di Firenze. In una giornata indetta dalla Rete dei collettivi per protestare contro la soppressione degli spazi autogestiti da parte del preside. Dopo il corteo per vie della città era previsto un pranzo autogestito a cui doveva quindi seguire un'assemblea degli studenti e delle studentesse sulla questione degli spazi.
Arrivati dinnanzi il liceo i manifestanti hanno trovato chiuso, il che, insieme alla militarizzazione dell'area da parte della polizia, ha fatto inevitabilente salire la tensione. Il presidio studentesco che si è formato davanti il liceo è stato più volte caricato dalle forze dell'ordine, per disperderlo. Il reparto mobile durante le diverse cariche in via della Colonna ha fermato una decina di studenti, 2 sono rimasti feriti.

venerdì 8 maggio 2009

Fabbrica Incerta

«Siamo vasi di coccio»
di Loris Campetti
Radiofabbrica trasmette programmi in tedesco che annunciano disastri: a Mirafiori le tute blu temono che il conto della globalizzazione Fiat venga presentato a loro. I sindacati chiedono un incontro immediato ad azienda e governo

Radio officina fa rimbalzare da un reparto all'altro di Mirafiori avvertimenti preoccupanti provenienti dagli stabilimenti Opel dell'Assia: achtung, achtung, stanno per saltare un po' di stabilimenti in Europa, un paio in Italia. Uno a sud, precisa la stampa tedesca, uno a nord. A nord? Ma come: Marchionne non aveva detto che Mirafiori sarebbe stato l'ultimo stabilimento a chiudere, in caso di difficoltà? E poi, dove stanno le difficoltà, visto che la Fiat sta facendo shopping di multinazionali in mezzo mondo? Ce l'avrà mica con noi, il salvatore della patria? Questo dicevano ieri le tute blu torinesi al cambio turno, leggendo il volantino distribuito dai sindacalisti e dai delegati della Fiom che si interroga sul futuro degli stabilimenti italiani della Fiat, compreso il cuore antico di Mirafiori.
C'è chi pensa che non si debba prestare troppa attenzione ai messaggi provenienti in questi giorni dalla Germania, «fanno parte del gioco». Ma anche chi minimizza fa sogni che sembrano incubi. «C'è grande preoccupazione in fabbrica», dice il segretario della V lega Fiom di Mirafiori, Vittorio De Martino: «Marchionne non è più circondato dall'aureola e non è più percepito come il santo salvatore: «Qui rischiamo di fare la fine dei vasi di coccio in mezzo a quelli di ferro, dicono ai cancelli e in assemblea gli operai». I numeri sono tiranni: tra la crisi del 2002 e l'inizio della ripresa del 2005, i lavoratori occupati nel perimetro di Mirafiori sono crollati da 27 mila a 15 mila. Nel 2008, da uno stabilimento con una capacità produttiva di 500 mila vetture ne sono uscite solo 140 mila, rispetto a una produzione italiana di 630 mila automobili, un terzo del totale prodotto dal Lingotto nel mondo. Dai piani alti della Fiat si lascia intendere che non sarà necessario chiudere stabilimenti in Italia, basterà «asciugarli» un po'. Si asciuga il sudore, normalmente, e in effetti sono gli operai quelli che sudano, dunque la metafora fastidiosa ha una sua ragion d'essere. «Che vuoi asciugare ancora? Tutti quelli che potevano uscire, tra pensionamenti e mobilità, sono già stati messi fuori», consedera con amarezza il segretario torinese della Fiom, Giorgio Airaudo che teme per l'auto, ma anche per la Iveco che è messa ancora peggio e le solite voci d'officina ventilano persino una cessione dell'intero comparto dei camion. E teme per la Cnh e i suoi stabilimenti a Torino e in Italia (Emilia, Marche, Puglia). Ieri i lavoratori della Cnh di San Mauro, in perenne cassa integrazione, hanno manifestato davanti alla sede Rai di Torino.
Si preoccupano lavoratori, sindacati, istituzioni. Il sindaco del capoluogo piemontese Sergio Chiamparino chiede una verifica alla Fiat, un piano industriale che garantisca una difesa dell'occupazione dentro il processo di riorganizzazione che la globalizzazione del Lingotto pretende. Anche il presidente della Campania Antonio Bassolino, che ospita nel suo territorio la fabbrica sotto tiro di Pomigliano, chiede un incontro immediato con la Fiat. Incredibile a dirsi, si è fatto vivo il governo italiano dopo settimane di silenzio e dopo che Marchionne aveva incontrato i governi di mezzo mondo promettendo a tutti la difesa degli stabilimenti e dell'occupazione. Più che battere un colpo, il ministro dello sviluppo economico Claudio Scajola ha mandato una letterina a Marchionne e Montezemolo per «preannunciare» un incontro, presenti i sindacati, per discutere le prospettive dell'azienda. Un governo serio - tipo quello tedesco o quello americano, per intenderci - si limiterebbe a convocare azienda e sindacati, come questi ultimi chiedono inutilmente da mesi. Altro che letterina, dice il coordinatore Fiom del settore auto, Enzo Masini. Il quale crede poco praticabile una linea di rottura di Marchionne basata sulla chiusura di stabilimenti e operai licenziati: «Solo un anno fa abbiamo fatto un accordo per Termini Imerese e l'Unione europea ha concesso finanziamenti per gli investimenti e per la produzione di un nuovo modello». Le notizie - e i rumors, «normali» in una trattativa difficile - provenienti dalla Germania, ma anche dai mercati e dagli ordinativi stagnanti di automobili, sono comunque inquietanti, aggiunge Masini, che almeno una buona notizia può darcela: «Il 13 ci vedremo a Francoforte con la Ig-Metal e incontri sono in programma con i sindacati del Belgio, della Gran Bretagna, della Svezia...». Cioè dei paesi in cui la Opel ha i suoi stabilimenti. E' impensabile, e sarebbe perdente, una risposta fabbrica per fabbrica alla strategia globale della Fiat e delle altre multinazionali. Se non altro questa crisi costringe i sindacati dei vari paesi a confrontarsi, alla ricerca di una strategia comune
Il 16 a Torino arriverà da tutt'Italia la protesta dei lavoratori Fiat per una manifestazione promossa da tutti i sindacati dei metalmeccanici. Non è accettabile che l'unico modo per portare l'industria dell'auto fuori dalla crisi sia quello che prevede il massacro sociale. Dietro parole come sinergia si nascondono licenziamenti e chiusure di fabbriche. Se Marchionne dovesse decidere di penalizzare gli stabilimenti italiani, dice il segretario generale della Fiom, Gianni Rinaldini, si aprirebbe un pesante scontro sociale. Giorgio Cremaschi arriva a dire che se la Fiat dovesse chiudere Pomigliono, sarebbe necessario l'intervento dell'esercito.

«Il peggio deve ancora venire: Cai è un modello contro i diritti del lavoro»

di Francesco Piccioni
Disservizi, ritardi, organici largamente insufficienti. Ma «conti migliori del previsto». Intervista a Paolo Maras (segretario SdL)
Ritardi, manutenzione incerta, disservizi, carenza di organico. Alitalia torna in prima pagina, ma con i conti - spiega il socio di riferimento, Jean-Cyril Spinetta, presidente di air France - «al di sopra delle attese». Ne parliamo con Paolo Maras, segretario nazionale dell'SdL-trasporto aereo, steward ora in cassa integrazione.
Quanti problemi ha la «nuova» Alitalia?
Che si faccia il bilancio dei primi 100 giorni è doveroso, ma era già noto che i problemi principali - ritardi, inefficienze, organici e condizioni del lavoro - fossero irrisolti. Non a caso avevamo sempre detto che attraverso questa operazione non passa solo la trasformazione da Alitalia a Cai, ma un treno micidiale addosso a diritti, conquiste, condizioni di lavoro. E anche una visione diversa da quella di una compagnia di bandiera, che presuppone comunque un interesse dello Stato nel garantire servizi ai cittadini. Oggi vediamo anche Formigoni e Castelli strapparsi i capelli per Malpensa, dove non funzione più nulla e i passeggeri rimangono a terra. Certo, se gli organici sono insufficienti, sia a bordo che a terra, succede questo.
Eppure si era detto che si voleva creare una compagnia grande, forte e «italiana».
Fin dall'inizio l'obiettivo era di tenere bassissimi i costi e il personale ridotto all'osso, confezionando un pacchetto appetibile per il migliore offerente. Che in Cai sappiamo essere «mister 25%», ovvero Air France. Che ora dice - traduco - «come fate a ottenere risultati superiori alle aspettative»? In Francia sequestrano i manager, qui avete distrutto sindacato e lavoratori e nessuno dice niente...
Previsioni fosche per i vostri colleghi francesi...
Appunto. In secondo luogo, Spinetta ha sollevato la politica italiana e il governo (quello che diceva «ai francesi, mai») da ogni responsabilità per la cattiva gestione precedente alla vendita. L'unico «colpevole» è stato trovato nel sindacato. Tutti, senza eccezione. Noi siamo convinti che il peggio debba ancora arrivare. Il «problema Alitalia» non c'è più, come la monnezza napoletana. Ma se si pensa che deve ancora la fusione effettiva tra le cinque aziende che compongono oggi la nuova Alitalia, è facile prevedere nuovi «esuberi» causati da queste sinergie.
Ma se già ora nell'«operativo» gli addetti sono pochi...
Se una macchina che ha bisogno di quattro assistenti di volo la fai partire con soltanto due, la legge della «sinergia» funziona anche in quel caso. I numeri delle assunzioni fatte sono fortemente squilibrati rispetto agli stessi impegni iniziali. Gli assistenti di volo - a quattro mesi dalla partenza - sono sotto organico di oltre 400 unità. Si parla ora di 190 assunzioni, che non coprono le necessità.
Le politiche del trasporto dipendono sempre più dalle scelte europee. Come si fa a tenere il punto del conflitto senza una qualche sponda politica?
La vicenda Alitalia è andata come è andata proprio perché c'è una desertificazione della politica. C'è necessità di riportare competenze vere, non ideologiche - insomma esperienze vissute, «sapere di che si parla» - dentro certe istituzioni. Per esempio, credo che la scelta di Andrea Cavola, mio compagno di lotte per oltre 20 anni - di candidarsi come indipendente con Rifondazione, sia assolutamente giusta. La sensazione di questi anni è che non importa quanto tu abbia ragione, quanti lavoratori hai dietro; tutto il sistema - anche l'informazione, con poche eccezioni - si muove a tutela degli interessi del «grande capitale». Basta vedere il ruolo politico-mediatico del ministro Matteoli: di scioperi nel trasporto non si parla più, nemmeno a livello di annuncio, perché ogni giornalista sa che tanto lui li vieta sempre, con la precettazione.

lunedì 4 maggio 2009

Roma contesta il razzista Lieberman

Oggi lunedi 4 maggio, la Roma antirazzista e no-war protesta in Largo di Torre Argentina, contro la visita in Italia del ministro degli esteri del nuovo governo israeliano Lieberman.
Leader della destra radicale, è arrivato ieri sera a Roma, prima tappa di un tour che proseguirà a Berlino, Parigi e Praga. Lieberman sarà ricevuto da Berlusconi, dal presidente della Camera Fini, e dal collega Frattini. La visita, ufficialmente incentrata sulle sorti del processo di pace mediorientale sara' l'occasione per mettere a punto la cooperazione militare tra Italia e Israele e giunge alla vigilia del vertice italo-egiziano a Sharm el Sheikh e precede i colloqui negli Usa del presidente Obama col premier Netanyahu e con Abu Mazen.
Uno striscione recante la scritta «Lieberman go home, Palestina libera» è comparso ieri sera sull'autostrada Roma-Fiumicino. Con questa iniziativa - si legge in una nota di Forumpalestina - comincia «la mobilitazione contro la presenza di chi propugna la pulizia etnica per la popolazione palestinese e contro la complicità italiana con la politica di apartheid e di occupazione israeliana della Palestina». Nel ribadire che «Lieberman non è un ospite gradito in Italia», Forumpalestina ricorda la manifestazione di protesta organizzata per le 18 di oggi nel centro di Roma, in largo Torre Argentina.
Le seguenti associazioni e forze politiche, Forum Palestina, Donne in Nero, Comitato Palestina nel cuore, Sport sotto l’assedio, UDAP, Associazione Punto Critico, Associazione La Villetta, Associazione Altrimondi, Partito dei Comunisti Italiani, Sinistra Critica, Rete dei Comunisti, Partito della Rifondazione Comunista, Partito Comunista dei lavoratori, Collettivo Antagonista Primavalle , CIP, Coordinamento Giovani in Lotta, Rete Semprecontrolaguerra…., in solidarietà con il popolo palestinese considerano la visita del ministro israeliano una vergogna e contestano la permanenza a Roma di Lieberman.

www.forumpalestina.org

Afghanistan: soldati italiani sparano contro auto. Muore una bambina di 13 anni

Una bambina afghana di 13 anni è stata uccisa da una pattuglia italiana a Herat che ha aperto il fuoco contro un’automobile che non si sarebbe fermata come richiesto: una pattuglia di militari italiani composta da tre mezzi che stava procedendo lungo la strada ha incrociato un'autovettura civile che procedeva in senso opposto a ‘forte velocità’.
Il comando delle truppe occupanti italiane nella regione ha reso noto che alle 11 locali, (le 8,30 in Italia), una Toyota Corolla sw bianca "si lanciava a forte velocità verso una pattuglia dell'Omlt (operation mentoring laison team) che opera nella zona di Herat". La morte della bambina è stata confermata dal ministro degli Esteri, Franco Frattini, che ha espresso le ‘lacrime di coccodrillo’ di rito mentre nel pomeriggio si è appreso che la procura di Roma ha aperto un fascicolo per chiarire la dinamica di quanto accaduto a Herat.
Tempestiva la giustificazione dei propri militari da parte del comando: "i militari hanno prontamente e correttamente attuato tutte le procedure di segnalazione previste dalle procedure di impiego" e i colpi sparati contro l'auto hanno ucciso uno degli occupanti e ferito altri tre. "Dato che la vettura continuava la propria corsa, nonostante i segnali luminosi ed i colpi di avvertimento, i militari hanno fatto fuoco sul vano motore" si legge in una nota, "nello scontro è deceduto un cittadino afghano ed altri tre risultano essere feriti".
Media e comandi militari hanno prontamente parlato prima dei sospetti suscitati da un modello di automobile che sarebbe ritenuta la preferita per attentati e azioni kamikaze, mentre le agenzie di stampa nel presentare la notizia parlano addirittura di uno ‘scontro a fuoco’ mai avvenuto.
Un altro effetto collaterale della presenza nel paese di truppe straniere.

Governo in continuità con il ventennio fascista

"Dell'Utri, affermazioni vergognose di vero ideologo PDL"
Dichiarazione di Paolo Ferrero, segretario nazionale del Partito della Rifondazione Comunista - SE
Mussolini "brava persona" e i repubblichini "partigiani". Passate le convenienze del 25 aprile, la continuità fascistoide della destra nostra con il Ventennio fascista torna fuori chiaramente nelle parole di Marcello Dell'Utri, ideologo della Pdl e intimo del premier. Il problema è che quelle che Dell'Utri definisce le "idealità" dei repubblichini sono state condannate in modo netto e senza possibilità di appello dalla Storia, da tutte le persone democratiche e dal Tribunale di Norimberga, che li ha definiti crimini contro l'umanità.
Queste dichiarazioni dell'ideologo della Pdl mostrano ancora una volta come questo governo e questa maggioranza si pongano in continuità con il Ventennio fascista e non sappia né voglia cogliere il punto fondamentale che ha dato vita alla Resistenza e alla nostra Costituzione democratica, resa possibile unicamente dall'alleanza di tutti gli stati antifascisti e dalla lotta partigiana, lotta di cui i comunisti sono stati una parte centrale e fondamentale. Dell'Utri è un fascista che dovrebbe vergognarsi delle sue parole e non inquinare il dibattito democratico.

Afghanistan: dalla 'riduzione del danno' al tiro a segno contro i civili

Comunicato della "Rete Nazionale Disarmiamoli!"
L’incremento esponenziale della presenza militare italiana in Afghanistan, iniziato con il governo Prodi e continuato con l’attuale esecutivo di estrema destra produce i suoi frutti avvelenati. Ad Herat i militi italiani hanno ucciso una bambina e ferito tre civili.Le giustificazioni per il quotidiano massacro di civili si sprecano, così come le agghiaccianti teorie a sostegno dell’occupazione militare di quello sfortunato paese. Nel nostro paese siamo passati dalle dissertazioni ciniche sulla “riduzione del danno” – costate l’estromissione totale di un intero ceto politico dagli scranni del Parlamento – allo “sgomento” del ministro degli Esteri Frattini per l’omicidio di ieri. Non vediamo come queste macabre differenze possano confortare i genitori della povera bimba uccisa con i soldi dei contribuenti italiani, un fiume di danaro investito dal governo Berlusconi - la Legge finanziaria 2008 ha raddoppiato la spesa - per una occupazione che si rivela ogni giorno di più come una catastrofe militare per l’Alleanza Atlantica, ma soprattutto come un martirio quotidiano per il popolo afgano ed oggi, grazie al “democratico” Barak Obama, anche per quello pachistano.
La notizia dell’omicidio della piccola afgana ha trovato una immediata giustificazione bipartisan. Ettore Rosato, parlamentare del Pd, atterrato in queste ore nella provincia insieme ad una delegazione della Camera in visita in Afghanistan per incontrare le truppe e verificare gli investimenti nelle strutture civili finanziati dall'Italia, dichiara alla stampa che: “….non possiamo dimenticare che qui in Afghanistan siamo in guerra".
Così la guerra continua ad essere il cemento unificante della politica estera italiana. La lotta si è ridotta alla sola occupazione dei posti di comando dai quali gestire il neocolonialismo tricolore. Gli esempi si sprecano. Che dire del silenzio di tutti i partiti politici sul finanziamento miliardario per l’acquisto di 131 bombardieri USA F35? Una recente polemica ha riguardato 450 milioni spesi per il referendum del 21 giugno, ma nessuna forza politica ha parlato dei 14 miliardi di euro investiti dal governo a favore della nuova aviazione d’attacco per l’aeronautica italiana.Silenzio sugli F35, così come sul massacro quotidiano in Iraq, dove i carabinieri italiani addestrano le locali forze settarie, sull’agonia nella striscia di Gaza, di cui il governi italiano è complice e corresponsabile, sulle tensioni esplosive nei Balcani ed in Kosovo. Solo con un ritiro immediato ed incondizionato delle truppe di occupazione si potranno evitare tragedie che non hanno niente di fatale. Le vittime civili sono il prodotto diretto delle strategie militari contemporanee degli eserciti occupanti, cercate per dissuadere popolazioni e combattenti dal continuare la legittima resistenza all’occupazione.
Nell’esprimere solidarietà e condoglianze per la famiglia di afgani che hanno perso una figlia per mano dei militari italiani, ribadiamo la nostra ferma richiesta di RITIRO IMMEDIATO DELLE TRUPPE ITALIANE DA TUTTI I FRONTI DI GUERRA.

Nepal: crisi di governo, i maoisti invitano alla mobilitazione

Una grave crisi politica e istituzionale è in corso in Nepal, dove il governo, guidato dal partito degli ex-guerriglieri maoisti, è in aperta polemica con il presidente Ram Baran Yadaw, esponente dell’opposizione di destra. La crisi, che secondo gli esperti era nell’aria da settimane, è esplosa definitivamente ieri dopo che il governo ha licenziato il capo di Stato di maggiore delle Forze Armate nepalesi, il generale Rookmangud Katawal, accusato di “insubordinazione e disobbedienza” per il suo ostracismo e per quello dei vertici dell’esercito (che sono gli stessi del periodo monarchico precedente alla proclamazione della Repubblica e all’insediamento dei maoisti al potere dopo la vittoria alle elezioni) nei confronti dell’arruolamento di migliaia di ex combattenti maoisti nelle file delle forze armate regolari, come invece previsto dall’accordo di pace nel 2006.
Poche ore dopo l’annuncio della caccia del generale Katawal, il presidente ha inviato al capo di Stato maggiore e al primo ministro una lettera nella quale chiedeva all’alto ufficiale di restare al suo posto, giudicando “incostituzionale” la decisione di rimuoverlo da parte del governo. Secca la risposta del governo che oggi ha denunciato un “colpo di Stato costituzionale” da parte del presidente (che formalmente è anche il capo supremo dell’esercito) e ha precisato che “la decisione presa mette in pericolo il processo di pace”. In attesa del discorso alla nazione che il Primo ministro nepalese terrà in mattinata (il primo pomeriggio in Nepal), i vertici del Partito comunista maoista (Cpn-M, lo schieramento di maggioranza) hanno deciso di indire una serie di proteste nelle piazze e in parlamento per denunciare il comportamento del presidente. Intanto il principale partito alleato dei maoisti in Parlamento, di centrosinistra, si è ritirato dalla coalizione di governo, minacciando la fragile maggioranza del Cpn alla Camera.

Dietro l'accordo Fiat - Chrysler

di Emiliano Brancaccio
La grande stampa, il governo e i vertici del partito democratico hanno salutato con euforia le recenti operazioni espansioniste della Fiat su scala globale. Oggi l’approdo nel mercato statunitense tramite l’intesa con Chrysler, e forse domani la conquista di Opel in Germania, sono stati interpretati come sintomi di quella italica capacità di “aggredire i mercati esteri” che è stata in questi giorni rimarcata dal presidente del Consiglio e da molti altri. I lavoratori tuttavia non dovrebbero lasciarsi ingannare da questa pioggia improvvisa di lustrini tricolore. La realtà infatti è che la Fiat ha acquisito il controllo strategico di Chrysler sotto la condizione che i sindacati americani accettassero un accordo capestro: congelamento dei salari, scatto degli straordinari solo oltre le 40 ore settimanali, cancellazione delle vacanze di Pasqua e di altre festività per due anni, pericoloso acquisto di una gran massa di azioni Chrysler da parte del fondo pensione dei dipendenti, e completa rinuncia agli scioperi fino al 2015. Massimo Giannini su Repubblica ha parlato di una soluzione responsabile e non ideologica da parte delle rappresentanze sindacali statunitensi. Ma sarebbe più onesta definirla una resa senza condizioni, che peserà non poco sulla localizzazione dei licenziamenti da un lato e dall’altro dell’Atlantico e che dunque costituirà un enorme problema per i sindacati italiani. Siamo insomma di fronte all’ennesimo episodio di quel generale processo di inasprimento della guerra tra lavoratori che sta sempre più caratterizzando l’evoluzione della crisi economica in corso.

Alla intensificazione del conflitto internazionale tra lavoratori la nuova strategia economica degli Stati Uniti contribuisce in misura significativa. Infatti, il ruolo dell’economia americana risulta oggi totalmente ribaltato rispetto agli anni passati. All’epoca del boom speculativo gli Stati Uniti agivano da spugna assorbente delle eccedenze produttive mondiali. Quel che gli altri producevano gli americani lo compravano, e in questo modo contribuivano a mitigare gli effetti della sfrenata competizione salariale nella quale si cimentava il resto del mondo. Adesso però l’America si ripresenta sulla scena internazionale in una veste opposta e feroce. Con i sindacati in ginocchio, il cambio del dollaro sempre più favorevole e un governo pronto a erogare montagne di denaro pur di rimettere in carreggiata le aziende nazionali, gli Stati Uniti non attenuano ma al contrario rendono ancor più violenta la concorrenza mondiale sulle retribuzioni e sulle condizioni di lavoro. Con questa storica mutazione di ruolo da parte degli americani, il capitalismo globale in crisi si tramuta dunque in un gigantesco “beggar my neighbour”, lo spietato gioco delle carte in cui lo scopo di ognuno è di vincere saltando al collo del vicino. Degli effetti di questo gioco ci accorgeremo presto anche in Italia. Infatti, dopo avere incassato la resa dei lavoratori americani, Marchionne non esiterà a imporre pesanti ristrutturazioni nel nostro paese. La grande stampa parlerà anche in quel caso della necessità di un atto responsabile da parte dei sindacati? C’è da temerlo.
Per i lavoratori italiani non vi è dunque alcun motivo per partecipare all’allegro revival nazionalista che è montato in questi giorni attorno ai colpi messi a segno dalla Fiat. Piuttosto, essi dovrebbero augurarsi che emerga presto un’alternativa di classe alla guerra mondiale tra lavoratori che la crisi capitalistica e la connessa fine dell’egemonia americana stanno alimentando. Questa alternativa si costruisce recuperando consapevolezza di un fatto evidente ma troppo a lungo dimenticato: il libero scambio dei capitali e delle merci può andare contro gli interessi della classe lavoratrice e dello stesso internazionalismo operaio. La questione allora non è se si debba o meno discutere di protezionismo. Il problema è di dare una declinazione di classe al tipo di barriere ai movimenti di merci e di capitali che si dovranno per forza introdurre se si vorrà evitare l’abisso di una competizione salariale planetaria e senza freni. In questo senso, sono maturi i tempi per esigere un blocco dei trasferimenti di capitale verso quei paesi che pretendono di affrontare la crisi puntando sull’abbattimento dei salari e sul peggioramento delle condizioni di lavoro. Nel silenzio assordante dei partiti del socialismo europeo, la sinistra europea farà bene a battere un colpo.