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mercoledì 29 aprile 2009

Usa, la crisi restringe le città. Ovunque aumentano le tendopoli

Nonostante le continue rassicurazioni da parte delle autorità politiche ed economiche di diversi paesi e delle istituzioni internazionali, la crisi economica che ha colpito l'economia capitalista non solo non accenna a rientrare, ma anzi alcuni segnali avvertono che le conseguenze andranno ben al di là dei problemi economici momentanei che stiamo vivendo.
Le fabbriche licenziano in massa o chiudono, le case perdono valore e vengono abbandonate, i quartieri perdono rapidamente abitanti. Già vittima di dinamiche economiche in atto da anni, ulteriormente colpite dalla recessione attuale, alcune città degli States hanno intenzione di combattere la loro crisi accettando il fatto compiuto; e per rinascere, o almeno non morire, intendono restringersi. Tra queste c'è anche Flint, nel Michigan, dove è nato Michael Moore.
Già venti anni fa il regista, nel film "Roger and me", aveva documentato il declino anche demografico della sua città, vittima della crisi dell'industria automobilistica. Da quel periodo, però, la situazione è peggiorata. Flint, che negli anni Sessanta aveva raggiunto i 200mila abitanti, oggi conta poco più di 110mila persone: gli stabilimenti della General Motors hanno licenziato oltre il 90% della forza lavoro, facendo diventare la città uno dei simboli della "Rust Belt", la fascia industriale del nord-est che non ha saputo reinventarsi dopo la chiusura delle sue grandi fabbriche. Il problema è che la superficie di Flint non è cambiata. Così ora il sindaco Michael Brown sta mettendo a punto i progetti di restringimento, che dovrebbero trovare spazio nel nuovo piano regolatore. L'idea è quella di concentrare gli abitanti in aree popolate al cento per cento. Gli 88 km quadrati di Flint sono ormai troppi per una popolazione che si è dimezzata in pochi anni: ci sono quartieri dove i mezzi per la raccolta settimanale della spazzatura, per esempio, raccolgono un solo sacchetto, con evidente spreco di denaro pubblico. Lo stesso discorso vale per l'illuminazione stradale, per i servizi di posta, per il trasporto pubblico.
A Youngstown, una città nell'Ohio che per decenni è stato il terzo polo dell'acciaio negli USA, sono più avanti: tra gli anni ‘30 e ‘70, la popolazione di Youngstown si aggirava sui 170mila abitanti, oggi non arriva a 70mila. L’amministrazione comunale offre fino a 50mila dollari in incentivi per convincere i residenti nelle aree semi-abbandonate a lasciare le proprie case.
Funzionerà? Non tutti ne sono convinti, specialmente per le possibili complicazioni pratiche. "Cosa succede quando una struttura di potere prevalentemente bianca sceglie sezioni della città a prevalenza afro-americana, per diventare pascoli verdeggianti?", si legge su FlintExpats.com, il sito dei giovani fuggiti da una città senza più prospettive. Inoltre, nel crollo del mercato immobiliare c'è chi ha comprato casa in quartieri apparentemente senza speranza, in molti casi speculatori che non abitano tra le mura appena acquistate: saranno anche loro invogliati alla vendita con incentivi pubblici?

L'esperimento di Flint e Youngstown è guardato con attenzione, perché è visto come un possibile esempio del futuro che attende molte periferie statunitensi. Decenni di carburante a prezzi economici hanno alimentato un modello di sviluppo che ha portato al boom dei suburbs, i quartieri di villette e giardini privati così comuni anche nell'immaginario fornito dai film hollywoodiani. La crisi economica, e lo shock dell'impennata del prezzo del petrolio l'anno scorso, hanno fatto proliferare studi e articoli sulle possibili trasformazioni dei centri abitati verso una maggiore concentrazione territoriale.
Intanto, anche se non se ne parla, come durante la Grande depressione degli anni Trenta, negli Stati Uniti tornano le tendopoli: da New York a Los Angeles e da Seattle a St. Petersburgh in Florida, decine di migliaia di disoccupati senza tetto vivono nelle bidonville o Hooverville come furono chiamate dal nome di Hoover, il presidente del crollo di Wall Street del ‘29. Il fenomeno è così esteso che in molti casi le autorità cittadine non sanno neanche esattamente il numero di persone che vivono sotto una tenda invece che sotto un tetto. Il New York times ha visitato Fresno in California, e vi ha scoperto tre tendopoli, ciascuna con oltre 100 abitanti. La prima, sotto una sopraelevata, si chiama New Jack city dal titolo di un film del ’91 sui senzatetto, la seconda, in un campo della periferia, Little Tijuana perché popolata soprattutto da messicani, la terza, in un parcheggio, Village of Hope, Villaggio Speranza. Le prime due tendopoli sono in condizioni disastrate, l’ultima è la più dignitosa, consiste di minuscoli monolocali di legno donati dalla Poverello house, un’associazione di beneficenza. «Questa gente non trova lavoro». Secondo Richard Stoops della Coalizione dei senzatetto, le tendopoli sono destinate ad aumentare. «La situazione sanitaria è seria ci sono malati privi di cure la povertà e la violenza sono in aumento. Molti comuni, anche socialmente impegnati, non hanno più mezzi per aiutare i baraccati». Sui senzatetto in America non esistono statistiche attendibili il loro numero varierebbe da 1 milione e mezzo a 3 milioni.

GM licenzia 21.000 lavoratori, Chrysler taglia salari e fondo sanitario: la crisi colpisce solo i lavoratori

Alessio Calamita
Chiusura di molte concessionarie negli States e taglio drastico del numero dei lavoratori. Sono questi gli elementi costitutivi del nuovo piano di ristrutturazione presentato ieri dalla General Motors. La casa automobilistica ha spiegato che taglierà 21 mila posti di lavoro e chiederà all'amministrazione Obama di acquistare una quota di azioni dell'azienda pari alla metà del debito che il gruppo ha contratto con lo Stato. Al sindacato andrebbe invece, in cambio degli obblighi che G.M. ha nei suoi confronti, il 39%, della società. Chiuderanno molte fabbriche, ci saranno meno operai e impiegati e sparirà il marchio Pontiac. Ma soprattutto, la nuova General Motors avrà governo e sindacati come maggiori azionisti con l'89% del capitale. Sempre che Gm ce la faccia a evitare la bancarotta, da to che servono altri 11,6 miliardi di dollari di fondi pubblici.
E si trova ad un passo dalla svolta epocale anche l’americana Chrylser, che potrebbe vedere consegnato nelle mani dei sindacati il pacchetto azionario di maggioranza, pari al 55%: una svolta che segnerà comunque il ridimensionamento della capacità produttiva di questo settore dell’industria Usa, con inevitabili e pericolose ricadute occupazionali. La maggioranza assoluta del capitale della nuova Chrysler, il 55%, sarà in mano al sindacato dei lavoratori dell'auto Uaw, mentre alla Fiat, che dovrebbe investire nel gruppo americano 8 miliardi di dollari, spetterà il 35% e il restante 10% al governo statunitense e ai creditori dell'azienda. Continua quindi il conto alla rovescia per l’alleanza tra la Fiat e la Chrysler, in vista del termine di giovedì fissato dal presidente Barack Obama p er concedere altri 6 miliardi di dollari alla casa di Detroit. Il sindacato Uaw, la potente organizzazione americana dei lavoratori dell'auto, ha raggiunto l'accordo con le due società e con il governo americano per la riduzione del costo del lavoro. L'accordo comprende modifiche al contratto collettivo e alla struttura dei vantaggi sociali di cui beneficiano gli operai. Secondo il Wall Street Journal, l’accordo prevede la sospensione degli aggiornamenti dei salari sull'andamento dell'inflazione, mentre le ore di straordinario non potranno superare le 40 ore a settimana. Il giorno festivo di cui gli operai beneficiano solitamente per Pasqua sarà soppresso nel 2010 e nel 2011.
Il sindacato si prenderebbe in carico l’assicurazione malattia degli operai in pensione da Chrysler attraverso un fondo, chiamato Veba, che sarà dotato di 4,6 miliardi di dollari. Il costruttore vi verserà 300 milioni nel 2010 e nel 2011, ma i versamenti potranno raggiungere 823 milioni tra il 2019 e il 2023. Il Wall Street Journal ha anche anticipato che i sindacati statunitensi della Chrysler avrebbero accettato tagli del 50% del contributo da 10 miliardi di dollari che l’azienda avrebbe dovuto versare in contanti al fondo sanitario dei lavoratori in cambio di azioni a favore dei prestatori di lavoro. Oltre a ciò, i lavoratori rinuncerebbero a quote di salario aggiuntivo (ad esempio il bonus di Natale) e del salario orario. I risparmi sul fronte del costo del lavoro anche in Canada dovrebbero ammontare a quasi 200 milioni di dollari Usa. L'accordo prevede inoltre che i lavoratori in esubero non incasseranno più la maggior parte del loro salario, ma riceveranno dalla società una retribuzione integrativa pari al 50% della loro retribuzione lorda. Come sempre, in quello che è oramai considerato un &ldquo ;grande gioco finanziario mondiale”, a rimetterci sono sempre e solo i lavoratori.

venerdì 24 aprile 2009

Gli operai bloccano l'Aurelia a Pisa

Video-interviste agli operai della Saint-Gobain:
da PisaNotizie.it



La crisi inizia a mordere e a farsi sentire anche sul tessuto produttivo italiano. I territori ad alta concentrazione manifatturiera vedono chiudere fabbriche su fabbriche con l'attivazione (quando va bene) di cassa integrazioni o (nel peggiore dei casi) con il puro e semplice licenziamento.
Due giorni fa uno sciopero spontaneo e il conseguente blocco dell'Aurelia da parte di centinaia di operai è stata la ripsota a caldo che quei lavoratori hanno saputo improvvisare per opporsi ai 70 licenziamenti che la multinazionale francese Saint-Gobain ha comunicato in mattinata.
La situazione è molto tesa e, se il sindacato nell'assemblea di fabbrica non illude i lavoratori che hanno protestato autonomamente, sono previste grosse mobilitazioni.

Saint Gobain: cronaca di un disastro annunciato
di associazione Aut-aut
Dopo la comunicazione, terribile e improvvisa, di 77 licenziamenti all'interno della fabbrica Saint Gobain di Pisa, da stamattina i lavoratori della fabbrica sono in sciopero, e alternano a picchetti di fronte allo stabilimento blocchi dell'Aurelia. Ma come si è arrivati a questa situazione? Senza ripercorrere le complesse tappe di questa vicenda, basti ricordare che la Saint Gobain e il Comune di Pisa, durante il mandato del Sindaco Fontanelli, avavano firmato un accordo che prevedeva da parte del Comune la concessione di una variante urbanistica che permetteva alla fabbrica la dismissione di un’area dello stabilimento, e da parte dell’azienda l’impegno a investire 100 milioni di euro in cinque anni sul forno Float, operazione che avrebbe offerto garanzie occupazionali per gli operai della fabbrica.
Il risultato di questo “affare”, per la Saint-Gobain, è stato l’ incasso, nell’immediato, più di 20 milioni di euro, attraverso la dismissione di un’area ceduta alla società di costruzioni Ville urbane, che utilizzerà l’area, pare, per costruire palazzi di 7 piani. E per il Comune, ovvero per i lavoratori che dovevano essere i principali beneficiari dell’accordo, quali sono stati i benefici di questa operazione?
Ieri ai lavoratori è stata comunicata la notizia che non esiste alcun investimento sul forno Float che, al contrario, entro luglio sarà spento. Il risultato saranno 77 licenziamenti, dei quali 45 lavoratori a tempo indeterminato e 22 interinali. Il risultato è insomma che mentre un’azienda che fattura milioni di euro si è potuta arricchire ancora un po’, incassando 20 milioni di euro da una società che a sua volta probabilmente incasserà una cifra ancora più alta grazie alle speculazioni che potrà portare avanti sull’area acquistata (siamo sicuri, tra l’altro, che verranno costruiti palazzi di sette piani in un’area come quella della Saint Gobain?), 77 lavoratori hanno perso il proprio lavoro.
Domani il Consiglio Comunale di Pisa discuterà la proposta del consigliere comunale Maurizio Bini di dedicare un consiglio comunale aperto, il 30 aprile, alla questione Saint Gobain. Come risulta chiaro infatti, il Comune di Pisa non ha certo un ruolo secondario nella faccenda. E' realistico, infatti, immaginare che il Comune si sia accorto solo ieri, insieme ai lavoratori, che il famoso investimento da 100 milioni di euro promesso dall’azienda in cambio della variante urbanistica fosse solo un pretesto per una mastodontica operazione di speculazione immobiliare?
La risposta a questa domanda è da cercare probabilmente tra le pieghe dei rapporti che legano chi ha tratto benefici da un’operazione che, ancora una volta, fa ricadere gli effetti della crisi su chi questa crisi la subisce da sempre, permettendo invece di arricchirsi a cui l’ha creata.

Le voci della Saint-Gobain: la parola degli operai
da PisaNotizie.it
I lavoratori della Saint-Gobain rompono il silenzio, scioperano, bloccano l'Aurelia e soprattutto si raccontano e spiegano cosa è avvenuto in questi ultimi mesi nella fabbrica.

"Ci hanno preso clamorosamente in giro" - dice un lavoratore della CRM, una ditta dell'indotto della Saint-Gobain - "la scorsa settimana avevano appeso un foglio in bacheca in cui l'azienda diceva che era tutto tranquillo, e poi ci licenziano. Ci sentiamo traditi. Noi dell'indotto siamo i primi saltare". Queste sono le prime parole che raccogliamo, appena arrivati davanti ai cancelli della Saint-Gobain durante lo sciopero. E un altro operaio che qui lavora dall'1989 incalza: "l'azienda ha negato fino all'ultimo, venerdì ci raccontavano che non si sarebbe fatta più la settimana corta e che i contratti a termine sarebbero stati rinnovati", e un altro operaio lo interrompe: "per forza, avevano deciso già di mandarci tutti a casa da tempo, da molto tempo".
"Il male vero" - ci racconta un altro lavoratore anziano - "è che non si sa cosa vogliono fare. Il problema è se il nuovo Float verrà fatto oppure no: tutto il resto sono chiacchere, e di queste siamo stufi. La mia impressione è, però, che la situazione è brutta e che non ci attende nulla di positivo". Un operaio lo interrompe: "a noi dicono che si naviga a vista, ma come è possibile che una multinazionale va avanti così senza una strategia?". Aggiunge un altro lavoratore: "che sarebbe finita così si sapeva da mesi, non si sono voluto vedere le cose per quelle che erano, si sa che politica fanno le multinazionali."
Un altro operaio che lavora allo stratificato da più di dieci anni ci spiega: "in tutti questi anni abbiamo acquisito delle professionalità in questa fabbrica. L'azienda ha guadagnato su di noi. Da quando sono qui, la Saint-Gobain ci ha chiesto sempre una maggiore disponibilità: lavoro interinale, straordinari di sabato e di domenica e noi abbiamo accettato. Ora ci dicono che c'è la crisi e ci mandano tutti a casa". Un altro lavoratore aggiunge "nel mio reparto, ci hanno chiesto gli straordinari anche il sabato fino al 31 gennaio, alla faccia della crisi. L'azienda si è riempita i magazzini, in modo da avere riserve per anni, e ora che ci ha spremuto bene ci butta via. Occorre porre un freno a queste multinazionali che pongono al centro solo il profitto". "Io ho lavorato il 24 dicembre, il 31 dicembre di quest' anno e ora mi dicono che c'è la crisi - afferma un operaio - A noi dicevano: lavorate e le cose miglioreranno. Il risultato è che spengono il Float e ci licenziano". Interviene un terzo: "qui licenziano il 30% di noi, basta coi patti con l'azienda, è tanti anni che ci strozzano", e c'è chi urla: "hanno marciato sulla crisi per avere gli incentivi, hanno guadagnato loro e basta".
Insieme con gli operai della Saint-Gobain ci sono i lavoratori della CRM (una sessantina), ma anche quelli delle cooperativa delle pulizie, poco meno di una trentina. Uno di questi ci dice: "è da gennaio di quest'anno che lavoro a 6 ore, prendo 750-800 euro al mese, e non ho né cassa integrazione, né alcun ammortizzare sociale. Se ci licenziano abbiamo solo la disoccupazione davanti a noi. Questa è una schifezza. Cosa ci faccio con 800 euro al mese con tutta la famiglia a carico mio?"
A scioperare ci sono anche i contrattisti della Saint-Gobain. Uno di questi ci racconta, mentre blocca un camion davanti all'ingresso dei cancelli: tanto se il camion entra, poi non può scaricare perché io e gli altri che svolgiamo questa mansione siamo qui a scioperare: è da tre anni che mi rinnovano annualmente il contratto. Se un lavoratore si vuole licenziare deve dare un preavviso all'azienda, invece la Saint-Gobain ci manda tutti a casa da un giorno all'altro".
In tantissimi vogliono parlare degli accordi del 2007 che l'azienda non ha rispettato. "Da 30 anni lavoro in questa fabbrica" - dice un operaio, mentre fa avanti e indietro sulle strisce pedonali dell'Aurelia - "gli accordi fatti nel 2007 erano chiari, parlavano di un nuovo Float da 800-850 tonnellate, addirittura superiore a quello attuale che ormai ha più di 14 anni e sta funzionando oltre il dovuto. Non capisco i sindacati, e domando: "dov'è il nostro sindacato? Il sindacato doveva sapere queste cose e bisognava muoversi prima, invece ogni volta c'era una scusa e non si è fatto nulla". La discussione sul sindacato attraversa gli operai con sfumature molto diverse. C'è chi ne sostiene l'operato e chi lo critica, sostenendo "che in questi anni è venuto a mancare, non è stato con i lavoratori", ma tutti ora dicono che "l'importante è farsi sentire tutti insieme".
Un altro operaio, che da 35 anni lavora nello stabilimento, incalza però sulle responsabilità della politica: "noi abbiamo un credito con la politica. La Saint-Gobain ha ricevuto e fatto soldi grazie a una variante urbanistica del Comune, per cui è riuscita a vendere un campo di patate come se fosse oro. Hanno preso milioni di euro, e chi ha beneficiato di questi soldi? Ora ce li devono restituire."
In molti ripetono: "il sindaco ha permesso all'azienda di fare profitti, e di fargli fare soldi, ora il comune si deve impegnare per far ritornare quei soldi". Un operaio è ancora più esplicito sulla vendita di quello che tanti lavoratori della fabbrica chiamano "un campo di patate": "l'azienda ha preso milioni di euro e secondo molte voci che girano sostengono che su questa area c'è una speculazione edilizia. Provo a spiegarmi: se vendi delle case davanti ad una fabbrica attiva, le vendi ad un certo prezzo, ed anche chi le vende ci guadagna una certa cifra. Ma se la fabbrica è chiusa, le case le vendi molto meglio e a un prezzo molto più alto e anche chi ha comprato l'area alcuni anni fa potrebbe aver fatto i suoi conti." Un operaio osserva: "a Pisa si parla tanto di turismo, ma se la gente non lavora, non c'è il turismo. Non si va mica in giro se uno non ha un lavoro".
Un altro operaio più giovane aggiunge: "il sindacato da solo non ce la può fare, questa deve essere una battaglia di tutta la città. Saint-Gobain è la storia di Pisa, e Pisa finisce se non viene rifatto il Float. Da questo impianto dipende la vita e il futuro di migliaia di famiglie".
Un altro lavoratore, quando stiamo per andare via, ci chiede di parlare: "Noi vogliamo un programma scritto, chiarezza, non si può più vivere di voci. Il nuovo forno lo fanno o ci mandano tutti a casa?"

Italia milionaria. Di poveri

Due milioni e mezzo di poveri «assoluti»
di Manuela Cartosio
«Dal 2005 al 2007, Italia più misera»
A febbraio le presenze nei superlussuosi alberghi di Dubai sono crollate del 35% rispetto a febbraio del 2008. A suo modo, è un indice globale di impoverimento relativo dei ricchi. Le persone di cui si occupa il rapporto dell'Istat presentato ieri, invece, le vacanze non se le possono permettere, neppure in un due stelle della riviera romagnola. Sono i poveri tra i poveri. In Italia nel 2007 erano 2 milioni e 427 mila, il 4,1% della popolazione. La foto della povertà assoluta scattata dall'Istat risale a prima della crisi economica. Ovvio pensare che le cifre, nel frattempo, siano peggiorate.
A differenza della povertà relativa, che misura lo svantaggio di alcuni soggetti rispetto ad altri, la povertà assoluta rileva l'incapacità di acquisire i beni e i servizi necessari a raggiungere uno standard di vita «minimo accettabile» nel contesto di appartenenza. Per stilare il rapporto l'Istat ha usato una nuova metodologia. La soglia di povertà assoluta varia in base alla dimensione della famiglia, alla sua composione per età, alla ripartizione geografica e alla dimensione del comune di residenza. Di conseguenza, le soglie di povertà assoluta non vengono definite solo rispetto all'ampiezza familiare (come viene fatto per la povertà realtiva), ma sono calcolate per ogni singolo tipo di famiglia, in relazione alla zona di residenza, al numero e all'età dei componenti. La famiglie con una spesa mensile pari o inferiore al valore della soglia sono classificate come «assolutamente povere». Ad esempio: per una famiglia formata da una sola persona, fra i 18 e i 59 anni, che vive in un'area metropolitana del Nord la soglia è di 729 euro al mese. Se vive in un piccolo comune, sempre al Nord, è di 650 euro. Che scendono a 520 in una grande città del Sud. Per una famiglia di tre componenti sotto i 59 anni che vive in un'area metropolitana del centro la soglia di povertà assoluta è di 1.158 euro.
Sono povere in assoluto 975 mila famiglie, il 4,1% dei nuclei familiari. La percentuale sale al 5,8% al Sud, si attesta al 3,5% al Nord e al 2,9% al Centro.
La povertà assoluta incide di più sulle famiglie numerose (si passa dal 3,1% per le famiglie con un solo figlio minore al 10,5% per le famiglie con più di due figli), dove vivono anziani (5,4%) e dove il capofamiglia è donna (4,9%). L'intensità della povertà, che indica in termini percentuali di quanto la spesa delle famiglie povere si colloca al di sotto della soglia di povertà assoluta, è mediamente del 16% con un picco del 18% tra le famiglie del Sud.
Usando la stessa metodologia a ritroso, l'Istat ha stimato la povertà assoluta nel 2005. Stando a questo confronto, la situazione a grandi linee risulta stabile, con miglioramenti o peggioramenti per determinate tipologie di famiglie. «Peggiorano le situazioni delle famiglie con a capo un adulto di età compresa tra i 45 e i 54 anni o un lavoratore con basso profilo professionale, mentre si rileva un miglioramento nelle famiglie giovani». Quest'ultimo dato deriva probabilmente dal fatto che ormai i giovani lasciano la famiglia d'origine solo se hanno raggiunto una completa indipendenza economica.
Sono riferiti al 2008 e non si riferiscono solo agli ultrapoveri i dati diffusi dalla Cia (Confederazione italiana agricoltori) sugli effetti della crisi a tavola. In termini monetari la spesa alimentare è cresciuta del 2,5%, ma gli italiani hanno mangiato di meno o peggio. Il 35% delle famiglie ha limitato gli acquisti (soprattutto di frutta, verdura e carne), il 34% ha optato per prodotti di qualità inferiore. Di nuovo, si è stretta la cinghia più al Sud che al Nord. La spesa alimentare ha inciso mediamente del 18% sulla spesa totale delle famiglie. Ma mentre un imprenditore destina al cibo solo il 14% della sua spesa totale, la percentuale sale al 19% per l'operaio e schizza al 21% per il pensionato.

La natura cannibale del capitalismo

di Daniele Luttazzi
Perché mai lo Stato dovrebbe aiutare con soldi pubblici le banche private che hanno speculato sulla pelle dei clienti?
Le banche vogliono essere salvate a prescindere. Che ne è della favola del “libero mercato”, che i capitalisti raccontano sempre per nascondere il proprio cannibalismo? I capitalisti, come si vede, sono i primi a non crederci.
Il crack mondiale delle Borse, causato da decenni di deregulation, non terminerà finchè sarà impossibile stabilire quanti titoli tossici le banche abbiano ancora in pancia. Col paradosso che, quando le banche al tracollo accedono al salvataggio di Stato, in pratica sono i cittadini truffati a tenere a galla i truffatori.
E se un Presidente (Obama) prospetta la conversione dei prestiti pubblici alle banche in azioni ordinarie (lo Stato diventerebbe così, giustamente, azionista delle banche che risana) i cannibali rintanati a Wall Street puniscono l’idea con un tonfo in Borsa (ieri).
Vi risulta che qualcuno dei responsabili della speculazione, in Italia o all’estero, abbia chiesto pubblicamente scusa, oppure abbia dichiarato di voler cambiare il suo comportamento in futuro? Vi risultano dimissioni o cambi ai vertici? Svezzati a superbonus che premiavano il comportamento più irresponsabile, i cannibali non conoscono altro modus operandi che questo.
I sistemi bancari nazionalizzati hanno il merito storico di aver promosso decenni di espansione economica virtuosa. Le banche private, invece? Lasciatemici pensare per un secondo. No.
Le banche salvate con soldi pubblici vanno nazionalizzate. Altra possibilità: farle adottare da Madonna.

La finanza pigliatutto con i soldi degli altri

La borsa, il welfare, l'industra: nei due recenti libri di Ronald Dore e Luciano Gallino, un racconto di quel che è appena successo e di quel che può avvenire.

Ora che i buoi sono scappati dalla stalla, le librerie sono piene di dotte riflessioni sui danni della finanziarizzazione sull’economia mondiale. Non sono però molti gli analisti che possono rivendicare coerenza di pensiero nella interpretazione dei fatti che hanno condotto alla attuale crisi.
Ronald Dore e Luciano Gallino sono tra quelli che, in tempi non sospetti, mentre prevaleva ancora il pensiero unico del liberismo dominante, avevano lucidamente messo in evidenza le distorsioni che si stavano determinando nella organizzazione delle economie e dei sistemi sociali, per effetto della prevalenza di un modello di capitalismo basato sulla deregolamentazione, sullo smantellamento degli istituti di welfare e sulla dominanza della rendita finanziaria rispetto all’industria.
Proprio per questa ragione, leggere i loro recenti contributi può essere un utile esercizio, non solo per approfondire l’analisi sui fattori fondamentali alla base della crisi economica in corso, ma anche per cercare di capire quale ricetta venga proposta ora da parte di chi, con maggiore credibilità rispetto ad altri, aveva colto i segni di una condizione di insostenibilità nascosta tra le pieghe della globalizzazione a senso unico.
Ronald Dore, nelle sue analisi sui diversi modelli di capitalismo, aveva già da tempo evidenziato le debolezze strutturali del sistema anglosassone, fondato sulla instabilità di meccanismi finanziari fortemente deregolamentati, rispetto al sistema europeo di welfare, proprio negli anni in cui, a cavallo tra il vecchio ed il nuovo secolo, si operava una sistematica demolizione delle reti di protezione sociale che sono state alla base del capitalismo ben temperato, tipico dell’approccio sociale dell’Europa continentale. Tra capitalismo di borsa e capitalismo di welfare, Dore chiedeva di scegliere la seconda opzione, quando invece il pensiero dominante esprimeva la convinzione di una irreversibile deriva verso il modello anglosassone.

Nel suo recente libro ("Finanza pigliatutto", Il Mulino, 2009, 9 euro) Ronald Dore torna su questi temi, partendo da una analisi delle ragioni strutturali che hanno condotto, nei passati decenni, ad una prevalenza della finanza sull’industria. Innanzitutto, occorre sottolineare che le attività finanziarie hanno assicurato, per diversi decenni, un livello di redditività tale da attrarre investimenti e risorse, in un processo di causazione cumulativa che è stato poi alla base della bolla finanziaria, alimentata dalla creazione di prodotti finanziari a rischio così elevato da non poter essere nemmeno dimensionato.
Analizzando la serie storica del reddito nazionale statunitense, Ronald Dore mostra che, fino al 1950, la quota dei profitti delle imprese finanziarie sul totale dei profitti era pari in media al 9,5%. Da allora è cominciata una accelerazione, sino a raggiungere il valore massimo nel 2002 (45%), con una successiva stabilizzazione ed un leggero arretramento negli anni più recenti, dovuto al manifestarsi dei primi segni della crisi finanziaria internazionale.
Si è affermata, nel capitalismo anglosassone prima e poi nel sistema economico internazionale, una cultura azionaria fondata sul profitto di breve periodo, sulla ricerca di opportunità di arricchimento rapido, sulla capacità di cogliere opportunità tattiche di massimizzazione della redditività rispetto a progetti di investimenti industriale a redditività differita. Gli stessi governi hanno promosso questa tendenza verso una apparente democratizzazione dell’azionariato, nella convinzione che un’offerta abbondante di capitale azionario avrebbe promosso l’innovazione e quindi la competitività. Nelle scelte delle imprese hanno cominciato a contare in modo decisivo le pressioni degli investitori istituzionali, che muovevano masse enormi di capitali alla continua ricerca della migliore redditività, schiacciando la prospettiva temporale del profitto atteso, sino a far governare in modo indiscusso il rendiconto trimestrale rispetto persino al bilancio annuale dell’impresa.

Sulla stessa lunghezza d’onda si colloca la riflessione di Luciano Gallino, in "Con i soldi degli altri", (Einaudi, 2009, euro 17). I dati del processo di finanziarizzazione sono impressionanti: alla fine del 2007 il Pil del mondo ha superato i 54 trilioni di dollari, mentre la capitalizzazione delle borse mondiali ammontava a 61 trilioni e le obbligazioni pubbliche e private superavano i 60 trilioni. A giugno del 2008 il valore nominale della quota di derivati trattati nelle borse toccavano gli 80 trilioni di dollari, mentre quelli scambiati fuori mercato sfiorava i 684 trilioni: la somma dei derivati era quindi complessivamente pari a 764 trilioni di dollari, pari a 14 volte il Pil del mondo.
Il gioco della finanziarizzazione ha tracimato verso l’economia reale, influenzando le strategie delle imprese in modo decisivo e spostando la struttura dei risparmi degli individui verso scelte fortemente rischiose, spesso senza informare correttamente i cittadini sulle conseguenze di questi cambiamenti nelle strategie di portafoglio. I piani pensionistici sono passati su larga scala da schemi a beneficio definito a piani a contributo definito: mentre nel primo caso il contribuente sa di poter contare su un valore certo del proprio corrispettivo pensionistico, nel secondo tutto dipende dalla volatilità dei rendimenti assicurati dai fondi pensione.
Si è innescata in questo modo una ulteriore spirale perversa di avvitamento che oggi incide fortemente sulla crisi delle imprese industriali. Basti citare il caso della General Motors, la quale si è trovata nel 2009 ad avere solo 85.000 occupati negli Stati Uniti, mentre ai suoi fondi pensione fanno capo un milione di ex-dipendenti. Nel 1962 la GM aveva 460.000 dipendenti, la maggior parte in Usa, ed appena 40.000 pensionati. Nella previdenza privata di stampo anglosassone, l’incrocio tra squilibrio strutturale di dipendenti attivi e numero dei pensionati, unito alla volatilità al ribasso dei rendimenti delle attività finanziarie costituisce una mina vagante i cui effetti non sono ancora pienamente dispiegati.
Mentre cambiava radicalmente la struttura dei mercati finanziari, non si sono introdotte regole adeguate a fronteggiare con disciplina le trasformazioni intervenute. E oggi le banconote e le monete costituiscono solo il 3% del denaro circolante, mentre il restante 97% è interamente simbolico, a cominciare da quello depositato nei conti correnti o sui libretti di risparmio. Siamo in presenza di una mutazione genetica del sistema bancario in assenza di un tessuto di norme a protezione degli altissimi rischi che sono stati assunti in nome solo del profitto di brevissimo periodo. Scrive Gallino: “La funzione originaria del sistema bancario stava nel prendere in prestito da molti clienti piccole somme a un dato tasso di interesse, al fine di prestare grosse somme a pochi a un tasso di interesse più alto – contando sul fatto che è improbabile che i molti accorrano tutti assieme, nello stesso momento, a ritirare i loro depositi. Da tempo, per vari aspetti, tale funzione è caduta in secondo piano a fronte della possibilità assai più lucrosa di trasformare i prestiti in titoli commerciabili”.
Luciano Gallino propone una ricetta che consiste nell’indirizzare i capitali nelle mani degli investitori istituzionali verso investimenti socialmente responsabili, ed innanzitutto nella produzione di beni pubblici, a cominciare da infrastrutture di vario genere, dalle scuole ai trasporti. Inoltre, dovrebbero essere privilegiati investimenti produttivi a lungo termine, impiegando in questo modo ingenti risorse per migliorare la condizione del lavoro nel mondo, per farla uscire progressivamente dal percorso di mercificazione e di precarizzazione che ha caratterizzato la storia del lavoro negli ultimi decenni.
Insomma, dalle analisi di Ronald Dore e di Luciano Gallino torna di attualità la questione delle riforme di struttura, che per lungo tempo sono state messe in soffitta ipotizzando che il capitalismo della finanza e del profitto di breve periodo fossero l’unica opzione possibile. Ora, con la crisi squadernata davanti a noi, si tratta di tornare a disegnare forme di organizzazione economica maggiormente attente ai bisogni collettivi.

martedì 21 aprile 2009

Licenza di uccidere: il governo azzera le responsabilità dei manager sulle morti ‘bianche’

di Marina D’Ecclesiis
La crisi, la paura di perdere il lavoro e dunque la disponibilità a operare in condizioni sempre meno sicure aumentano il rischio di perdere la vita o di rimanere invalidi durante l’attività lavorativa. Una catena infinita di cosiddette morti ‘bianche’, di cui proprio ieri l’ennesimo esempio, in provincia di Ragusa dove un operaio è morto mentre stava lavorando per un’impresa siciliana che costruisce travi in cemento. L’uomo è precipitato dalla tettoia di una struttura prefabbricata alta 6 metri: trasportato all’ospedale non ce l’ha fatta. L’ennesima vita spezzata, l’ennesimo omicidio, il solito cordoglio e poi il silenzio. Questo è il destino dei tanti lavoratori uccisi sul posto di lavoro, che oggi, ricevono anziché maggiori garanzie un forte schiaffo morale: il nuovo testo sulla sicurezza sul lavoro, che va incontro a quelle organizzazioni imprenditoriali che mettono a serio rischio la vita dei loro dipendenti in nome della diminuzione dei costi. Così ecco pronta la licenza di uccidere: si diminuiscono le multe per il mancato rispetto delle norme ed si elimina il carcere per le imprese inadempienti.
Ma quello che risulta più grave è l’effettiva impunità per i top manager. In altre parole, se ci sono sottoposti coinvolti nella stessa inchiesta, la responsabilità ricadrà su di loro. In barba, anche alle direttive dell’Unione Europea. Una normativa varata ad hoc affinché saltino i processi in corso in cui sono imputati gli alti vertici industriali, visto che il Testo Unico avrebbe effetto retroattivo.
Dunque se l’ennesima ‘porcata’, che oggi verrà discussa nella conferenza stato- regioni, venisse varata farebbe saltare la maggior parte dei processi in corso. A partire da quello di Torino per la strage della ThyssenKrupp che vede imputati i due massimi vertici del colosso siderurgico tedesco. Se, infatti, venisse meno la possibilità di accertare la responsabilità di chi guida la multinazionale, cadrebbe l’impianto accusatorio formulato dal pool di Guariniello che è riuscito a portare in Tribunale i vertici delle aziende, sia per il caso dell’Eternit sia per la Thyssen.. Un vero e proprio insulto a tutte le vittime degli infortuni e ai loro familiari: “è uno schiaffo in faccia a tutti noi operai” afferma Carlo Marrapodi, un giovane ex metalmeccanico calabrese della Thyssen. “Ho girato ininterrottamente l’Italia, sono andato nei licei a raccontare quello che è successo. Ho fatto quello che doveva fare lo stato, l’educazione alla sicurezza nelle scuole. Questa legge è una umiliazione per me stesso che da semplice ragazzo che si è trovato in mezzo a quelle brutture, ha girato l’Italia”. Ma “è uno schiaffo anche alle famiglie di quei poveri ragazzi e alle famiglie di chissà quanti altri che non hanno avuto lo stesso risalto” sottolineando quella che è la situazione della classe operaia: “c’è poco rispetto per chi è la turbina di questo paese, milioni di operai che vivono quotidianamente nella privazione”. “c’è chi ha figli, mutui e deve continuare. Io incrocio le braccia e mi rifiuto finché questo stato non mi darà la parvenza del rispetto di chi lavora” E conclude: “arrestateci tutti, almeno in galera non rischiamo di morire bruciati”. E intanto, stamattina l’associazione Legami d’acciaio, di cui fanno parte gli ex lavoratori della Thyssen e alcuni familiari ha realizzato un presidio davanti al tribunale dove si sta svolgendo il processo. Un presidio particolarmente partecipato oggi, come ci conferma al telefono Ciro Argentino, proprio per contestare il nuovo regalo del governo alle imprese.

Confindustria felix

di Carlo Leone Del Bello
Dopo le «congetture» sul futuro dell'economia espresse domenica dal ministro dell'Economia Giulio Tremonti, è toccato ieri al presidente di Confindustria Emma Marcegaglia dichiarare che il peggio è passato. Neanche a farlo apposta, una smentita indiretta è giunta dagli Stati uniti, dove il «superindice» anticipatore dell'economia non lascia scampo: da qui a sei mesi le cose andranno solamente peggio. E sulle borse mondiali torna a comandare il segno negativo.
A margine dell'assemblea degli industriali di Cremona, Emma Marcegaglia ha dichiarato di avere «l'impressione che sia a livello mondiale che italiano ci siano alcuni segnali che il peggio l'abbiamo visto: non c'è più la caduta continua degli ordini e del fatturato». Tra gli indicatori, anche la crescita della componente estera degli ordinativi, resa nota dall'Istat venerdì scorso. Ciò ovviamente non basta e, ha aggiunto la presidente di Confindustria, «il problema adesso è capire in quanto tempo torneremo alla crescita e probabilmente avremo ancora qualche mese difficile». Secondo il centro studi di via dell'Astronomia, infatti, a partire da luglio potrebbe esserci qualche inversione di tendenza. Si unisce al clima di ottimismo anche il ministro del welfare Maurizio Sacconi, dichiarando che «ci sono segnali positivi che devono essere considerati» e rinnovando quindi l'invito - vero leit-motiv del governo - a «essere ottimisti». Se «una rondine non fa primavera», ha continuato il ministro, «in una glaciazione è difficile vederne».
Eppure il clima, fra gli operatori economici, sembra essere ben diverso. Le banche Usa continuano a riportare profitti nei bilanci trimestrali, ma ormai nessuno si fa più ingannare: i guadagni sono contingenti, mentre i crediti continuano a deteriorarsi. Dopo Goldman Sachs e il suo mese di dicembre «fantasma», Bank of America ha pubblicato ieri i suoi conti trimestrali con un profitto di 4,2 miliardi di dollari in bella vista, ben al di sopra delle attese degli analisti. Tuttavia, non solo la quasi totalità di questi guadagni - come la ristrutturazione di parte del debito di Merril Lynch, o la vendita di parte delle sue partecipazioni in China Construction Bank - sono una tantum, ma la qualità degli attivi che compongono lo stato patrimoniale della banca continua a peggiorare. Come lo stesso amministratore delegato di BofA ha dichiarato ieri durante una conferenza stampa, «il credito va male, e noi crediamo che andrà peggio prima che possa stabilizzarsi o migliorare». Conseguentemente, BofA ha accantonato 6 miliardi di dollari per far fronte a perdite future, portando le riserve a 30 miliardi che sono sufficienti a coprire appena il 120% delle sofferenze attuali. Un anno fa coprivano il 203%. Le azioni della banca perdevano ieri il 20% a un'ora dalla chiusura di Wall street.
Anche l'indice anticipatore dell'economia americana, elaborato dal Conference Board, mostra come la situazione non sia in fase di peggioramento. Il «superindice» è infatti calato dello 0,3% in marzo. Per gli economisti del Conference board, questo significa che la recessione Usa potrebbe continuare oltre l'estate. Ci sarebbero alcuni segnali positivi intermittenti, ma l'indice e la maggior parte delle sue componenti fanno ancora pensare al declino. L'economista premio Nobel Paul Krugman ha ricordato, sul New York Times di venerdì scorso, come anche durante la Grande Depressione ci furono delle pause nella crisi.
Stando così le cose, c'è poco da stupirsi della performance degli indici azionari. In Europa, dove si sono «bruciati» 133 miliardi di euro di capitalizzazione, la maglia nera spetta a Piazza Affari, con l'inddice S&P/Mib a -4,21%. Pesanti perdite anche a Francoforte (-4,07%) e Parigi (-3,96%). A un'ora dalla chiusura, a New York, l'indice Dow Jones perdeva il 3,5% e lo S&P 500 il 4%. Forte calo anche per il petrolio - il cui prezzo riflette le attese per la ripresa globale- giù del 9% a 46 dollari il barile.

lunedì 20 aprile 2009

Torino. Alla Indesit di None tagli occupazionali pesanti. In fabbrica resterebbero solo 190 lavoratori su 610

Il progetto presentato dalla Indesit ai sindacati in alternativa alla chiusura dello stabilimento di None, comporterebbe il mantenimento di 190 lavoratori, da un organico attuale di oltre 600 unità. E' quanto è emerso dall'incontro sindacale tenutosi a Roma fra Indesit e Fim, Fiom, Uilm. I sindacati ritengono la proposta dell'azienda "ancora lontana dalla possibilità di un accordo", anche se complessivamente ci sono gli "ingredienti" per lavorare a una soluzione comune.
La Indesit ha proposto di assegnare a None il 60% della produzione di lavastoviglie da incasso, pari a circa 180mila unità all'anno, che sarebbero destinate al mercato dell'Europa occidentale, cioè Olanda, Belgio, Lussemburgo, Francia, Spagna e Portogallo. Sugli strumenti a cui Indesit sta pensando per ridurre l'organico si parla di cassa integrazione straordinaria per riorganizzazione della durata di due anni prorogabili, prepensionamenti, reindustrializzazione (attraendo nuove aziende a None), esodi incentivati o possibile ricollocamento dei dipendenti in altre aziende.Il prossimo incontro è previsto a Torino il giorno 24.

A futura memoria

di Giulietto Chiesa
Ecco, io non vorrei fare il menagramo, ma non mi va di essere – per usare un’espressione letteraria - preso per i fondelli. Tutto qui. Dunque scrivo queste cose un po’ per sfogarmi, un po’ per fare del bene al prossimo, essendo io altruista a oltranza.
Il fatto e’ che devo leggere i giornali. E, leggendoli, vedo che pronosticano la fine prossima ventura della crisi piu’ grande del secolo. Fine quando? L’anno prossimo, massimo il 2010. L’elenco di questi ottimisti è lunghissimo. Comincia con Obama e continua ( ne scelgo due a caso) con Allen Sinai, il quale ha insegnato, pensa un po’, niente meno che al mitico Massachusetts Institute of Technology, e in diverse altre universita’ americane, oltre che essere, dio ci salvi, consulente della Federal Reserve.
Continuo con il “bocconiano” Nouriel Roubini (non Houdini, il prestigiatore, non facciamo confusione, perché dovrete ricordarvi anche lui). Tutti e tre messi in fila dal più ottimista dei giornali italiani, «la Repubblica», dopo «Il Sole 24 Ore» (che ha per compito istituzionale quello di tranquillizzare gl’investitori, ai quali dunque non dice mai la verità sullo statto reale dell’economia, convinto come è sempre stato che in economia, la “scienza sciocca”, sono le “percezioni” quelle che contano. Cioè, se percepisci bene le cose vanno bene, se percepisci male le cose vanno male. Come si sa è accaduto invece che percependo bene le cose sono invece andate malissimo. Ma vallo a dire a De Bortoli, che adesso dirige un altro giornale ottimista essendo stato promosso avendo diretto un giornale ottimista come «Il Sole 24 Ore».
Tutto questa congrega, insomma, ci pronostica la fine prematura della crisi, con grande sollievo di tutti, avendo migliorato la percezione. Poi – sempre «Repubblica» – vengono le cifre, a confermare l’ottimismo, cioè la percezione. Anzi a correggere la cattiva percezione che gli Stati Uniti sono la sorgente del disastro. Precisa che Gli Usa «sono piu’ reattivi di Eurolandia». Cioè: è appena passata la buriana, prodotta dagli USA, ma adesso si ricomincia a imitare gli USA che sono più reattivi. Viva la strategia di Lisbona, meglio detta carta-carbone, nel senso di copiare l’America.
Comunque ecco le cifre dei soloni ottimisti: ricordatevele con cura, annotatele. Hanno il pregio di essere corte, come tutte le previsioni di questi signori della scienza sciocca. Gli Stati Uniti cresceranno di nuovo, nel 2010, dell’1,6%; l’Europa dell’1%, l’Italia dello 0,8%..
Vediamo se ci azzeccano. Ma intanto mi piacerebbe sapere da dove hanno tirato fuori queste previsioni. Le hanno prese dalle agenzie di rating? Mi scappa da ridere. Quelle che davano i voti e si facevano pagare per darli buoni? Se questa è la fonte allora siamo a posto. Tranquilli, compagni. Tra le tante crescite che si annunciano c’è almeno una decrescita. Non so se felice o infelice: quella dell’intelligenza.

domenica 19 aprile 2009

Francia, mini-blackout elettrici la nuova protesta dei lavoratori

Piccoli black-out, la luce elettrica a intermittenza, la fornitura del gas interrotta per qualche ora. E' l'effetto della protesta dei lavoratori di Edf e Gdf [electricité e gas de France] che sta provocando disagi a migliaia di utenti in tutta la Francia. Da tre settimane, i dipendenti delle due compagnie energetiche sono in agitazione. Oltre alle giornate di sciopero (l'ultima giovedì) alcuni lavoratori hanno deciso di interrompere la fornitura o di diminuire la potenza di alcune utenze. Secondo un primo calcolo, sarebbero già 66.500 le famiglie colpite dalla protesta.
Mercoledì un ospedale della città settentrionale di Douai è rimasto senza corrente per 40 minuti, così come i settanta anziani dell'ospizio di Mazères, nel centro del paese. A Brest, in Bretagna, oltre 6.200 case e 650 imprese hanno avuto un fornitura ridotta per un'intera giornata e molti negozi sono stati costretti a chiudere anticipatamente. "Sono senza gas da due giorni: ci laviamo con l'acqua fredda", racconta Danièle Hoffmann, una madre di due bambini nel Val d'Oise, intervistata da Le Parisien. In questa regione non lontano da Parigi sono rimasti al buio decine di case popolari e un grande centro commerciale.
Dopo il "sequestro" dei manager in alcune fabbriche, le "interruzioni selvagge" degli operai energetici sono un ulteriore segnale della radicalizzazione del conflitto sociale nel paese. E' la prima volta in anni recenti che la protesta dei lavoratori ha ricominciato a usare mezzi di rivendicazione illegali. "Un tabù è caduto", ha notato con preoccupazione il giornale Le Parisien, che teme un diffusione di questi fenomeni spontanei, senza il filtro di una rappresentanza sindacale, tradizionalmente debole e divisa nel paese. Finora, le principali sigle sindacali, come la Cgt, hanno infatti giustificato le azioni dei dipendenti definendoli "sintomo di disperazione" ma anche come un modo per conquistare visibilità.
Gli amministratori delle compagnie energetiche hanno invitato i sindacati a tornare al tavolo delle trattative. Secondo un portavoce si tratta di "atti isolati compiuti da una piccola minoranza di lavoratori". Più severo il giudizio del premier, François Fillon, che ha parlato di "sabotaggi" e ha detto che il governo non tollererà altri black-out. "Manifestazioni di violenza non hanno nulla a che vedere con il dialogo sociale", ha detto Fillon. Un concetto ribadito dal ministro del Lavoro, Brice Hortefeux. "Queste interruzioni di corrente elettrica non sono assolutamente equiparabili al legittimo diritto di sciopero".

sabato 18 aprile 2009

La lotta della Fiat di Pomigliano ad un passaggio decisivo

di Jacopo Renda - Falcemartello Prc
In questi mesi i lavoratori della Fiat auto di Pomigliano hanno dimostrato grande combattività e tenacia. In poche settimane grazie alla loro compattezza con una serie di iniziative sono riusciti a conquistare la scena politica e sindacale. Questo oltre a dare loro una visibilità anche su alcuni mezzi di informazione che fino a qualche tempo fa avevano assolutamente cancellato la classe lavoratrice dalle loro copertine ha soprattutto avuto il ruolo di rendere la lotta di Pomigliano un punto di riferimento per i lavoratori in tutta Italia.
Tutto ciò è un primo successo non scontato della mobilitazione. Davanti alla cassa integrazione, alle cariche della polizia, ai ricatti dell’azienda sui precari, all’incertezza sul futuro non si è risposto con la rassegnazione ma con iniziative di lotta partecipate. Agli scettici e a tutti coloro che credevano che davanti a noi ci fosse solo il deserto sociale basterebbe partecipare ad un corteo per sentire la determinazione del grido “Pomigliano non si tocca, la difenderemo con la lotta”.
La lotta quindi continua ma sarà lunga e difficile ed è chiaro che il suo esito non parla solo agli operai dello stabilimento “Gianbattista Vico” ma può cambiare lo scenario del conflitto di classe in Italia. Infatti in un momento di crisi come questo in cui milioni di lavoratori vedono a rischio il futuro loro e delle loro famiglie una vittoria di una fabbrica così importante potrebbe cambiare i rapporti di forza nel mondo del lavoro.
Purtroppo malgrado la mobilitazione la Fiat non ha ancora dato un piano industriale e durante l’ultimo consiglio di amministrazione Marchionne ha dichiarato che l’unico stabilimento non a rischio è quello di Mirafiori lasciando intendere che quelli del Mezzogiorno, Pomigliano in testa, sono i più a rischio.
Allo stesso tempo la proprietà sta facendo di tutto per dividere i lavoratori, rompere l’unità di classe, che fino ad ora è stato il punto di forza della lotta e prova a spezzare il fronte operaio.
Questa “sapiente” operazione di divide et impera è una chiara strategia aziendale aiutata dai cosiddetti ecoincentivi del governo Berlusconi che non riguardano tutti gli stabilimenti ma solo alcuni.
Accade infatti che il boom dovuto agli ecoincentivi, anche se di breve durata, permetta alle organizzazioni sindacali Fim, Uil e Fismic di firmare, con la contrarietà della Fiom, un accordo che prevede, mentre c’è cassa integrazione a Pomigliano, che si facciamo gli straordinari a Melfi e addirittura che 300 apprendisti, cioè precari, si spostino da Pomigliano a Melfi.
Se mettiamo questo accordo assieme alla volontà di queste organizzazioni sindacali di non fare uno sciopero nazionale del gruppo Fiat ma “solo” una manifestazione e soprattutto di spostarla in avanti al 16 maggio capiamo chiaramente come vi sia la volontà di gettare sabbia sul fuoco della mobilitazione.
E per questo che la lotta della Fiat di Pomigliano è a un passaggio decisivo ed è assolutamente vitale fare un salto di qualità prima che la combattività e la compattezza lascino il campo a demoralizzazione e divisioni.
Tutto ciò che si è ottenuto fino ad ora, compresa l’integrazione alla cassa integrazione erogata dalla Regione Campania, non è certo arrivato grazie alla magnanimità di qualche assessore ma alla capacità di mobilitazione di massa dimostrata in questi mesi. Sulla stessa integrazione alla Cigo, provvedimento di per sè positivo, sarà necessario vigilare perché venga attuata senza il tetto dei mille euro previsto dalla prima delibera, che dividerebbe ulteriormente i lavoratori tra i più giovani che percepirebbero l’integrazione e quelli con famiglia e maggiore anzianità che rischierebbero di esserne esclusi.
Questi provvedimenti certamente utili a lenire parzialmente la povertà operaia sempre più dilagante non sono certamente la soluzione del problema e soprattutto non affrontano il nodo vero di questa mobilitazione cioè il futuro del gruppo Fiat, dello stabilimento di Pomigliano e soprattutto delle decine di migliaia di posti di lavoro della fabbrica e dell’indotto.
Da questo punto di vista il fatto che sia ad aprile che a maggio si lavorerà una sola settimana non aiuta il processo di organizzazione della lotta e il protagonismo dei lavoratori.
Alla volontà di Fim e Uilm di allentare i tempi della mobilitazione, perfettamente in linea con gli accordi separati che Cisl e Uil stanno attuando assieme a Governo e Confindustria, si aggiunge una difficoltà della Fiom sempre più schiacciata tra la volontà dei lavoratori e la ricerca dell’unità sindacale.
è necessario quindi uno strumento che provi a superare la difficoltà oggettiva dovuta al fatto che sia ad aprile che a maggio la fabbrica sarà sostanzialmente ferma.
Questo strumento può essere un Comitato dei Cassaintegrati che provi a raccogliere tutti i lavoratori, iscritti e non al sindacato, un luogo di discussione e di confronto per decidere le iniziative di lotta, lasciando la gestione dei tempi e delle modalità della mobilitazione in mano ai legittimi proprietari: i lavoratori.
Allo stesso tempo è necessario ripetere in altri stabilimenti la giornata di mobilitazione che i compagni del circolo Prc Fiat auto-Avio di Pomigliano insieme ai militanti del Prc lucano hanno fatto a Melfi con un volantinaggio e un comizio davanti alla Fiat Sata invitando all’unità dei lavoratori.
Le prossime settimane saranno decisive per compattare i lavoratori di Pomigliano, coordinarsi con altre aziende in crisi a livello provinciale costruendo un percorso verso lo sciopero generale regionale a partire dalle aziende in crisi, chiedendo risposte chiare al governo nazionale e regionale.
Un primo passaggio per costruire l’unità di tutti i lavoratori del gruppo Fiat è dare vita in tempi brevi ad uno sciopero con manifestazione nazionale a Torino. Non si può esitare su questi punti e la Fiom deve essere in prima fila in questa battaglia.
L’unità è certamente uno strumento importante per vincere ma la prima unità che va salvaguardata è quella dei lavoratori, dicendo no a chi vuole dividerli ed evitando che lo scenario voluto da Marchionne e dalla proprietà rimanga l’unico possibile, facendo pagare la crisi ai lavoratori, ristrutturando lo stabilimento e chiedendo ulteriori sacrifici ai soliti noti.
Abbiamo già dato e la forza mostrata in questi mesi di mobilitazione dimostra che si può vincere. Se la Fiat non vuole dare un futuro produttivo al gruppo ed allo stabilimento si faccia da parte, con la nazionalizzazione, un piano industriale pubblico, una nuova auto ecologica e la creatività operaia il futuro c’è, oggi più che mai è nelle nostre mani.

Polveriera Pomigliano



La produzione in caduta libera. E il reddito di 9 mila famiglie a rischio. Cronaca da una piazza che rischia di esplodere.

di Emiliano Fittipaldi

Vincenzo, spalle larghe e lingua veloce, lavora alle carrozzerie da vent'anni. Portare la grande croce per una cinquantina di metri non gli ha pesato più di tanto. È fiero di aver messo in scena venerdì, insieme ai suoi compagni, una delle 'Via Crucis' più operaiste degli ultimi decenni. Una scelta del parroco don Peppino, che ha voluto le tute blu della Fiat di Pomigliano, i "nuovi crocifissi", per rappresentare la passione di Gesù. Sono passati quattro giorni dall'evento. Vincenzo riempie i polmoni e sbraita. "Il macigno vero noi lo portiamo dentro. Pomigliano ormai non è più una fabbrica, ma una polveriera. Se i politici e l'azienda non si danno una mossa, qui esplode tutto. Sarà molto peggio della Francia, dei sequestri in Belgio".
È martedì 14 aprile, ma il parcheggio destinato a carristi e lastratori della Fiat è deserto come fosse domenica pomeriggio. Il piazzale delle auto invendute, ordinate a comporre file colorate, è invece pieno come un uovo. La crisi mondiale ha azionato il ralenty alla catena di montaggio che mette insieme i pezzi delle Alfa 147 e 159. I lavoratori sono tutti in cassa integrazione ordinaria. Spenti pure gli schermi al plasma dell'area ristoro, inaugurata poco più di un anno fa. Era stata creata per evitare che gli operai si preparassero il caffè durante il turno: dentro una portiera era stato trovato un bicchierino di plastica sporco. Colpa dell'indisciplina, della bassa produttività e dell'assenteismo: i 5mila dipendenti erano stati costretti a seguire per due mesi un 'corso di rieducazione'. Vincenzo al solo ricordo schiuma altra rabbia. Poi guarda la fabbrica muta, e si fa cupo. "È una tragedia. Pomigliano è l'ultima cattedrale della classe operaia rimasta in Campania, l'ultimo grande impianto produttivo che genera un po' di lavoro. Se chiude, è la fine".
Le forze dell'ordine, i sindaci della zona, persino la Chiesa sanno che la santabarbara, in terra di camorra e tassi di disoccupazione a doppia cifra, rischia davvero di saltare. È il punto più sensibile d'Italia, dove la recessione s'intreccia con il disfacimento del patto tra lavoratori, aziende e istituzioni. Il luogo, soprattutto, in cui sindacati e partiti stanno perdendo il tradizionale ruolo di mediatori. Le nuove Brigate rosse l'hanno capito al volo, e stanno tentando di trasformare la vecchia Alfa Sud nel simbolo della lotta contro il capitalismo delle disuguaglianze. "Con tre brutali cariche a freddo", hanno scritto gli imputati al processo in Corte d'assise a Milano dopo gli scontri sulla 'A1' dello scorso febbraio, "le forze della repressione hanno cercato di impedire che la giusta lotta degli operai valicasse i cancelli della fabbrica coinvolgendo la popolazione con il blocco dell'autostrada. Vicinanza e solidarietà agli operai Fiat di Pomigliano, così come a tutte quelle situazioni che lottando non intendono subire passive gli effetti della crisi del capitalismo". Il pm Ilda Boccassini ha impedito che il comunicato fosse letto in aula, ma non ha potuto bloccarne la divulgazione su Internet: sul sito di Indymedia, su quello di un collettivo antagonista, persino su una pagina dedicata agli ultras è possibile trovare il testo con gli attacchi al governo, al "padronato" e al giuslavorista Pietro Ichino.
Pomigliano è un'icona, da sempre. Difficile che oggi i metalmeccanici facciano un tuffo all'indietro negli anni Settanta: le ideologie egualitarie e solidali sono morte, gli operai non sono più, per dirla alla maniera del sociologo Aris Accornero, "macchine per la lotta di classe" come i loro padri. Sono individui, guardano il 'Grande Fratello' e 'Amici', pensano solo a guadagnarsi 'la mesata'. "Ma la tempesta sta arrivando lo stesso", avverte Andrea Amendola, capo della Fiom della città e memoria storica dell'alfismo militante. Tra dipendenti e indotto il vecchio stabilimento fa mangiare novemila famiglie, in tutta la Campania il settore dell'auto occupa oltre 20 mila persone, rappresentando una parte rilevante del Pil regionale. Decine di piccole imprese gravitano intorno alla Fiat dal 1971. L'agonia dei consumi ha gettato tutti nel panico. La produzione è passata dalle 195 mila auto del 2001 alle 60 mila del 2008. Un crollo mai visto. Le stime per quest'anno sono catastrofiche: se il trend non si inverte, si costruiranno in totale meno di 40 mila vetture. "Il fatto è che, a parte la costosa 159, non sono previste nuove linee", spiega Amendola:"Anche Termini Imerese, che fa solo Lancia Y, se la passa male. A Melfi e Cassino, dove si assemblano la Grande Punto e la nuova 149, respirano ancora".
In città la 'caccia al manager' organizzata dai lavoratori francesi infuriati per tagli e licenziamenti inizia a far breccia nella pianificazione delle proteste. I capifamiglia, quelli monoreddito, pretendono che i sindacati alzino l'asticella della contestazione. Qualcuno spiega che occupare Pomigliano sarebbe inutile, si farebbe solo un favore ai manager di Torino. "Meglio puntare sui capannoni di Melfi", dicono i più arrabbiati: "Il danno economico sarebbe ingente. Ma per sfondare le porte e conquistare l'edificio servono circa 400 compagni, il blitz va organizzato bene".
Il cellulare dei delegati sindacali squilla in continuazione. Arrivano pressioni, minacce. Persino i duri della Fiom temono per la loro incolumità. La sede dei metalmeccanici è un porto di mare. Arrivano quelli dell'Avio, altra azienda traballante: la divisione che fa revisione ai motori degli aerei ha perso la commessa Alitalia, che ha preferito rivolgersi a una ditta israeliana, la Bedek. Si fanno sentire quelli della Cablauto e dell'ex Selca, che tra pochi giorni rimarranno senza alcun reddito. Il virus della cassa integrazione se lo sono presi anche quelli della Marelli, che costruiscono sistemi di scarico; i compagni della Lear, che montano i seggiolini; la G.M. di Arzano, specializzata nella motorizzazione.
Aniello Niglio, operaio di 47 anni, due figlie di 15 e 16 anni da mandare a scuola, un mutuo e qualche debito fatti con il credito al consumo, spiega che il sindacato finora ha fatto da valvola di sfogo alle tensioni. Ma annuncia che "il tempo delle chiacchiere sta scadendo". L'appello di Paolo Bonolis durante Sanremo per la sopravvivenza dell'impianto, come la solidarietà di Benedetto XVI, è un'operazione mediatica che ha permesso alla vertenza di finire sulle pagine dei giornali, ma i lavoratori si lamentano di aver raccolto, dopo mesi di battaglia, assai poco. Il corso finanziato dalla Regione Campania, importante welfare perequativo voluto da Antonio Bassolino, non è ancora partito, mentre il patto tra Obama e la Fiat per salvare la Chrysler dal fallimento ha ulteriormente esacerbato gli animi. "Marchionne va a prendersi gli applausi a Detroit e abbandona al loro destino gli operai italiani. Bisogna avere il coraggio di dire che le politiche industriali per Pomigliano sono state fal-li-men-ta-ri". L'ingegnere italo-canadese non ha per ora sciolto le riserve. La berlina 159, unico modello rimasto appannaggio dello stabilimento, non rientra nemmeno tra le vetture agevolate dagli incentivi statali. I politici hanno proposto che il sito si riconverta alle auto verdi ultraecologiche, ma per ora nessuna decisione è stata presa.
Anche il prefetto Alessandro Pansa ammette di essere preoccupato: "Questa è l'unica area industriale importante della provincia. L'età media degli operai Fiat, poi, è bassissima: trentasei anni. Non è un caso che Berlusconi in persona abbia incontrato i lavoratori per più di un'ora". Nel faccia a faccia il premier ha promesso di impegnarsi nella vicenda "con la testa e con il cuore". Si è preso gli applausi appena ha parlato di un (difficile) prolungamento della cassa integrazione, ma qualcuno ha storto il naso quando, puntando l'indice sulla pancia straripante di un delegato della Fim-Cisl, il Cavaliere gli ha prima intimato una dieta ferrea, poi ha dichiarato alla platea che lui, se fosse licenziato, si rimboccherebbe le maniche.
Il miscuglio di rabbia e indignazione che ribolle nel ventre della città non si vede in superficie. Esclusi sei giorni di lavoro al mese gli operai se ne stanno in famiglia, o ciondolano per le strade. "Qualcuno cerca di arrotondare lo stipendio, ridotto a 7-800 euro, con qualche lavoretto in nero, ma certe nicchie sono ormai monopolizzate da africani e rumeni", dice Giuseppe Saccoia, in catena di montaggio da quasi 35 anni. Se i giovani non torneranno presto a indossare le loro tute da Cipputi, dice, rischieranno di finire intrappolati nelle maglie della camorra. Il prefetto getta acqua sul fuoco. "Il sistema non ha mai reclutato operai, figuriamoci quelli della Fiat. A Pomigliano i rischi veri", conclude Pansa,"sono l'indebitamento, il boom dell'usura, l'infiltrazione della criminalità nelle piccole imprese".
L'operaio Saccoia scuote la testa e sorride amaro. Dice che è sempre stato legato alle istituzioni, al sindacato, ai partiti. Stima il presidente Giorgio Napolitano, che ha votato quando era candidato a Bagnoli. Oggi racconta che se tutto andrà in malora anche lui si unirà alla lotta. "Io ancora oggi credo in una democrazia compiuta. Ma voglio proprio vedere quale giudice avrà il coraggio, dopo che sono stato mortificato come uomo e come lavoratore, di dirmi in faccia che sono un terrorista".

venerdì 17 aprile 2009

Altri 5 manager in ostaggio in Francia: liberati dagli operai dopo dieci ore

I dipendenti dell'azienda Faure e Machet contestano il piano di ristrutturazione.
I dirigenti sono stati chiusi nella sala riunioni. L'attività della fabbrica verrà trasferita nel 2010 in Malaysia.

PARIGI - Oltre 120 dipendenti dell'azienda francese Faure e Machet (gruppo Fm Logistic) hanno tenuto per dieci ore in ostaggio cinque membri della direzione a Woippy (Mosella), nello stabilimento che dovrà chiudere entro il 2010: protestano contro le condizioni poste per i licenziamenti.

CHIUSI IN SALA RIUNIONI - Giovedì mattina i manager sono stati chiusi nella sala riunioni, perché sono state giudicate «insufficienti» le misure prese per compensare al piano di licenziamenti, ha indicato un delegato sindacale. Nessuna tensione, assicurano i dipendenti, che hanno concesso ai manager di andare al bagno e ristorarsi. Fino alla liberazione, in tarda serata. L'attività della fabbrica verrà trasferita nel 2010 in Malaysia e verranno soppressi 498 posti di lavoro. I dipendenti chiedono indennità superiori a quelle assegnate dalla direzione. «Giudicando le misure insufficienti, circa 125 lavoratori hanno deciso di mettere pressione ai dirigenti chiudendoli a chiave nella sala congressi» ha detto Bruno Damien del sindacato Cfe-Cgc.

mercoledì 15 aprile 2009

Torino. I lavoratori della Cabind "costringono" il manager a telefonare alla casa madre sotto il loro controllo

Ieri pomeriggio l’amministratore delegato della Cabind (in provincia di Torino), Carlo Caglieri, si è intrattenuto - più o meno volontariamente a seconda delle voci - con i lavoratori della Cabind che chiedevano a gran voce di poter ottenere un incontro con la proprietà statunitense. Dagli Usa, fino allo scorso anno, era stato garantito che lo stabilimento cittadino, dove lavorano 70 dipendenti, non sarebbe stato chiuso. Un episodio che a molti ha ricordato gli ultimi “sequestri” di dirigenti ad opera di dipendenti diventati comuni in Francia e, in qualche occasione, approdati anche in Italia. Ipotesi questa smentita dalla Fiom. Comunque l’incontro richiesto è stato ottenuto e venerdì i lavoratori potranno nuovamente interloquire con la casa madre negli USA che soltanto 12 mesi fa, aveva assicurato che lo stabilimento non sarebbe stato chiuso. Invece, due mesi fa è spuntato il trasferimento dell’intera produzione di cablaggi industriali in Polonia, una decisione questa che ha originato le diverse manifestazioni dei dipendenti, ultima quella di ieri pomeriggio, sfociata nel blocco della statale 25 del Moncenisio per circa un’ora.

Sta scadendo la cassa integrazione per 910 lavoratori della Videocon di Anagni. Gli operai pronti ad azioni eclatanti

Fra poco meno di un mese scade definitivamente la cassa integrazione speciale, stabilita dalla Regione Lazio, senza possibilità di ulteriore proroga dopo quattro anni, e incombe sempre più reale la messa in mobilità di 910 lavoratori, visto che la procedura, richiesta il 23 febbraio scorso dalla proprietà indiana, potrebbe iniziare il prossimo 6 maggio a meno che non si prospettino nuovi progetti di riconversione con nuovi acquirenti del sito industriale. Del tavolo tecnico ministeriale, annunciato nel febbraio scorso dallo stesso Ministro per lo sviluppo economico Claudio Scajola e previsto per la metà di marzo, non si sa nulla, i sindacati stanno aspettando la convocazione per la fine di questo mese, ma intanto i giorni passano e le sorti di una grande azienda vanno inesorabilmente verso un baratro, con conseguenze, su tutto l'indotto, disastrose. Probabilmente proprio in questo fine settimana torneranno a riunirsi le RSU e le assemblee dei lavoratori e si prevedono azioni eclatanti per scongiurare il peggio.

venerdì 10 aprile 2009

Fiat prigioniera: Belgio, sequestarti anche tre manager

«Non li lasceremo fare, la legge va rispettata» aveva detto lunedì Sarkozy riferendosi ai casi dei "sequesti dei manager". Parole inutili perchè proprio nel pomeriggio altri quattro dirigenti della Scapa, azienda britannica produttrice di adesivi e colle industriali, venivano presi in ostaggio dai dipendenti in sciopero. Dopo aver trascorso la notte nello stabilimento, sono stati liberati mercoledì pomeriggio.La crisi economica, i tagli sul personale, la delocalizzazione degli stabilimenti: un mix esplosivo che ha portato, nel solo ultimo meso, a quattro sequestri. Quello della Sony il 12 marzo, quello della 3M di Pithiviers il cui manager è stato liberato dopo giorni dietro l'impegno a riprendere i negoziati sulle condizioni di allontanamento di 110 dipendenti. Poi ancora il 30 marzo e i cinque manager della Caterpillar France, rilasciati dopo aver promesso di bloccare 700 licenziamenti. E infine quello della Ppr, durante il quale il miliardario Francois Henry-Pinault è stato bloccato a Parigi da un centinaio di dipendenti che avevano circondato la sua auto. Sempre ieri, in serata, un altro sequesto. Quello del direttore della Faurecia, a Sud-Ovest di Parigi, che produce componentistica per auto. Anche in questo caso un blitz dei lavoratori, furiosi per i licenziamenti previsti, ha impedito i piani di ristrutturazione e delocalizzazione.
E ieri altri due. Il primo nella zona sud ovest di Parigi, alla Faurecia che produce componentistica per auto. Risoltosi in poche ore, dopo aver avuto sicurezze per 34 posti di lavoro. Il secondo invece nel vicino Belgio, a Bruxelles. Alla Italian Automotive Center, la più importante concessionaria Fiat del paese. I tre manager della fabbrica torinese, uno italiano e due belgi, sono stati sequestrati per alcune ore, poi rilasciati solo dopo aver assicurato di congelare il piano di ristrutturazione dell'azienda che prevedeva 24 tagli su 90 addetti. Il Lingotto, da parte sua, si è prontamente attivato per scaricare i tre, dicendo che non si tratta di "vero sequestro" ma di una trattativa. Probabilmente per evitare "pubblicità negativa" di ritorno, che riconfermerebbe come neppure gli spot di Obama siano riusciti a smuovere la situazione della Fiat.





di Anna Maria Merlo
I francesi fanno scuola. Ieri alle 13,45 tre dirigenti dell'Italian Automotive Center (Iac) di Bruxelles, una concessionaria Fiat, Alfa Romeo e Lancia che dipende direttamente da Torino, sono stati bloccati in due stanze dai dipendenti, che hanno occupato per tutto il pomeriggio l'accesso agli uffici della direzione. Ieri sera i tre dirigenti sono potuti uscire, ma senza fare nessuna dichiarazione. Il sindacato Fgtb, che nega che si sia trattato di un «sequestro», ha precisato che i lavoratori hanno occupato l'accesso agli uffici per chiedere una trattativa chiara, ma che i dirigenti rifiutano di rispondere. E alla fine, « sono stati fatti uscire». Secondo il sindacalista Louis Van Heddegen, della Csc, la Fiat ha l'intenzione di chiudere la filiale di Schaerbeek a causa delle perdite di esercizio: 14 operai e 10 impiegati perderanno il posto. Fiat Belgio occupa, in tutto, 90 persone. Da due mesi, dal 12 dicembre scorso, sono in corso trattative con i sindacati. Ma il dialogo è bloccato. Di qui la protesta dei lavoratori. I contatti con i dipendenti che occupavano i locali sono stati tenuti direttamente dal Lingotto.
Il caso della Fiat Belgio arriva dopo una serie di sequestri in Francia, tattica che ha già fatto proseliti in Gran Bretagna. Secondo un sondaggio, il 45% dei francesi approva o almeno comprende questi gesti disperati. Per René Valandon, di Force ouvrière, c'è «molta ipocrisia» attorno a questi episodi. Quando succede, «c'è sempre dietro un rifiuto della direzione di discutere. Capisco la disperazione dei lavoratori. Il sequestro è un ultimo ricorso, perché non hanno nessuno con cui parlare. Non l'approviamo, ma non lo condanniamo. Si tratta, sempre, di casi particolari. La gente non accetta di venire disprezzata». Stessa analisi dall'Italia. Giorgio Cremaschi, della Fiom, afferma che «la gente sta male dappertutto per la crisi, è un fatto giusto e sacrosanto che dei lavoratori della Fiat si arrabbino se l'azienda non cambia. Ci sono segnali di rilancio, ma solo per il gruppo e gli azionisti, non per i dipendenti. C'è ancora tanta cassa integrazione e lo stabilimento di Pomigliano è ancora fermo».
In Francia, la radicalizzazione delle reazioni dei lavoratori si sta diffondendo. Ieri, il Medef (la Confindustria francese) ha diffuso un appello alla calma e al rispetto della legge. L'organizzazione padronale si è detta «preoccupata» per queste derive: «Qualunque sia la gravità delle situazioni riscontrate - dice un comunicato del Medef - non è accettabile che si deroghi alla legge». Per il Medef, «le risposte ai conflitti sociali devono trovarsi nelle trattative libere e consenzienti tra le parti, attraverso l'intervento dei poteri pubblici, nel quadro delle loro prerogative e, se è il caso, con il ricorso alla giustizia».
Ma i lavoratori che scelgono gli atti radicali denunciano l'assenza di dialogo, tanto più forte in Francia anche a causa della debolezza oggettiva dei sindacati (pochi iscritti, solo l'8% sul totale degli occupati). Ieri, l'Eliseo aveva invitato una delegazione della Caterpillar a venire a discutere della crisi del'azienda e dei licenziamenti previsti. Ma gli operai hanno rifiutato di venire a Parigi: «Che Sarkozy venga da noi - hanno affermato - non andiamo da chi ci ha trattati da delinquenti». Sarkozy aveva difatti aspramente stigmatizzato il sequestro di 5 dirigenti alla Caterpillar a Grenoble a fine marzo. Per Luc Chatel, portavoce del governo francese, i qsequestri sono «inammissibili». Ma il ricorso a questa forma estrema di lotta si diffonde perché i lavoratori sono esasperati dal fatto che hanno la netta sensazione di essere i soli - o almeno i più esposti - a pagare la crisi.

CUB: A marzo aumentate le ore di cassa integrazione e le domande di disoccupazione.

Per contrastare l’aumento dei licenziamenti e della cassa integrazione: blocco dei licenziamenti, tutela del 100% del reddito per tutti i lavoratori/trici, precari ed atipici
Loro sono la crisi, noi la soluzione

A marzo aumentate le ore di cassa integrazione e le domande di disoccupazione.
Mentre qualcuno vende fumo rassicurando che nessuno sarà lasciato indietro, in marzo la cigo è aumentata del 925% rispetto a marzo 2008 e nel primo trimestre 2009 è aumentata del 589% rispetto al primo trimestre 2008.
La cassa integrazione ordinaria copre il 50% del salario, questo ha determinato la perdita di 800 milioni di Euro nel primo trimestre 2009, peggiorando cosi le già precarie condizioni di vita di circa 400.000 lavoratori.
I licenziamenti (disoccupazione e mobilità) nel primo trimestre 2009, sono stati 750.000: 230.000 lavoratori in più rispetto al primo trimestre 2008.
Tutto ciò conferma la validità delle rivendicazioni avanzate dalla Cub e l’esigenza di intensificare le iniziative di lotta a tutti i livelli, per un blocco dei licenziamenti, la tutela del 100% del reddito per tutti i lavoratori/trici, precari ed atipici compresi e per favorire nuova occupazione sviluppando energie rinnovabili, risparmio energetico e riassetto idrogeologico del territorio.
Loro sono la crisi, noi la soluzione.
A cura dell’ufficio studi Cub

FIAT ad Arese, a maggio due settimane di cassa integrazione

Salta il ponte annunciato per fine aprile
Venerdì 3 aprile FIAT, Powertrain e Targarent hanno aperto la procedura per due settimane di cigo dal 4 al 17 maggio 2009 per 431 lavoratori.
302 lavoratori FIAT in cassa integrazione sia nella prima che nella seconda settimana di maggio, pari al 92% della forza che al 31 marzo era di 329 lavoratori, una diminuzione di cinque unità costituita da impiegati che hanno dato le dimissioni.
Destinati alla cassa integrazione ordinaria anche i tutti i 246 lavoratori degli enti tecnici, 140 operai e 106 impiegati, ovvero in progettazione, sperimentazione, stile e qualità.
Diversamente al commerciale saranno comandati 28 lavoratori su 77 in organico, mentre 49 saranno anch’essi in Cigo, e sempre comandati tre lavoratori al Museo (un operaio e due impiegati).
Per Powertarin Saranno interessati al provvedimento 122 lavoratori, pari al 65 % della forza che al 31 marzo era di 186 lavoratori, sia nella prima che nella seconda settimana, di cui 74 operai, 33 impiegati dell’area tecnica e 15 impiegati delle aree di supporto.
Infine per Targarent saranno interessati alla Cigo sette lavoratori solo nella settimana dall’11 al 17 maggio.
L’azienda ha informato che agli operai del centro stile verrà chiesta la disponibilità a frequentare corsi di formazione a Torino, in regime di trasferta. I corsi si svolgeranno a partire da aprile e dureranno ognuno tre settimane. E’ sottinteso che i lavoratori che frequenteranno i corsi non saranno interessati alla Cigo, che cadrà nelle settimane dei corsi.
Con quelle di maggio, le settimane di Cigo ad Arese saranno 12 sia per Fiat che per Powertrain
In linea generale negli enti centrali il perdurare della cassa integrazione ordinaria è preoccupante perché significa che permane il blocco rispetto ai progetti futuri. Questo aspetto è stato sollevato dai delegati della FLMUniti-CUB anche durante la recente assemblea degli azionisti nella quale è stato richiesto a Marchionne lo sblocco degli investimenti e dei progetti, oltre che la difesa degli stabilimenti e dell’occupazione.
Contrariamente a quanto annunciato nelle settimane scorse dall’azienda, di voler utilizzare quattro giorni di permessi retribuiti (Par) in modo collettivo dal 27 al 30 aprile, il “ponte” è saltato.
L’azienda ha inoltre comunicato che l’utilizzo individuale dei Par non sarà ancora liberalizzato.
A questo punto FLMUniti-CUB richiede da parte di FIAT l’impegno di integrare la cassa integrazione ordinaria all’80% del salario, con Cigo settimanale.

giovedì 9 aprile 2009

Produzione industriale -23,7% E' il dato peggiore dal 1990

L'Istat rende noto l'andamento nel mese di febbraioRispetto a gennaio 2009 il calo è stato del 3,5%. L'auto è scesa del 42% nel confronto con lo stesso mese del 2008

La produzione industriale a febbraio ha segnato un calo del 23,7% rispetto allo stesso mese dello scorso anno e del 3,5% rispetto a gennaio 2009. Lo comunica l'Istat, aggiungendo che si tratta del crollo peggiore dal 1990, da quando cioè iniziano le attuali serie storiche. Nei primi due mesi l'indice grezzo è sceso, rispetto allo stesso periodo del 2008, del 23,3%.
L'indice corretto per i giorni lavorativi (20 contro i 21 di febbraio 2008) è sceso del 20,7% tendenziale a febbraio (il calo più forte da gennaio 1991), mentre nei primi due mesi la diminuzione rispetto allo stesso periodo del 2008 è stata del 19,2%. Per l'indice destagionalizzato la variazione congiunturale della media degli ultimi tre mesi rispetto ai tre mesi immediatamente precedenti è pari a -9,3%. Per quanto riguarda i raggruppamenti principali di industrie rispetto a gennaio le variazioni destagionalizzate sono state tutte negative: -6,5% per i beni intermedi (metallurgia tessile base, gomma, chimica etc.), i più colpiti; -4,2% per i beni strumentali; -2,4% per l'energia e -1,2% per i beni di consumo. All'interno di quest'ultimo raggruppamento i beni durevoli hanno registrato un calo del 4,3%, mentre per i beni non durevoli la discesa è più lenta (-0,1%).
Rispetto a febbraio 2008 i cali corretti per giorni lavorativi sono stati del 30,2% per i beni intermedi, del 22,5% per i beni strumentali, del 10,4% per l'energia e del -8,4% per i beni di consumo (-23,5% per i durevoli e -5,5% per i non durevoli). Guardando invece ai settori di attività economica l'indice della produzione industriale corretto per i giorni lavorativi mostra le diminuzioni più marcate per la metallurgia e i prodotti in metallo (-34,5%) per i mezzi di trasporto (-32,5%) per la gomma, materie plastiche e minerali non metalliferi (-28,3%).
Un dato fortemente negativo è quello della produzione di autoveicoli, diminuita a febbraio del 42% rispetto allo stesso mese del 2008. Nei primi due mesi del 2009 il calo è stato del 48,4% in quanto a gennaio infatti si era registrato un crollo ancora più significativo, pari a -54,7%.

lunedì 6 aprile 2009

G20: giudizi e bilanci su di un fallimento

Il G20 è finito e tutto quello che ha lasciato dietro di sé è l'incapacità dell'attuale ceto politico delle super-potenze a governare le prime instabilità della crisi (figuriamoci programmarne una fuoriuscita!). Squilibri, Nord-Sud, disparità sociali, crisi economica, tensioni internazionali sono il lascito di un modello di sviluppo mondializzato che ha egemonizzato le partiche e i discorsi degli ultii 30 anni.
Un'egemionia oggi però quantomai in declino... chi sarebbe oggi disposto ad avallare l'indiscutibilità del pensiero e modello unico neoliberista? Sono proprio i capi di stato ed i banchieri a invocare oggi intervento statale... certo per loro, nell'ottica capitalistica di socializazione delle perdite.
I Comunisti e i movimenti anticapitalisti oggi, possono ben dire di aver sempre avuto ragione, di aver intravisto e interpretato tendenza e direzione di questo modello di squilibrio.
Proponiamo a questi links 2 commenti/letture sugli esiti (fondalmente nulli) del recente G20 consumatosi a Londra, per i movimenti il conto da fare con una nuova - e potenziale - composizione sociale del conflitto; per i padroni del mondo, la celebrazione di un'impotenza.
Il primo articolo è un commento di J.Halevi sui global imbalances lasciati inalterati- e come era possibile fare altrimenti?- dal G20 e forieri di cattive notizie sul fronte della situazione economica.


Il summit e i conflitti intercapitalistici
di Joseph Halevi
Sul Financial Times del 31 marzo Martin Wolf aveva stabilito un semplicissimo criterio per valutare le decisioni dei G20. Riusciranno questi paesi a spostare la distribuzione della domanda mondiale dai paesi in deficit a quelli in surplus per farli spendere ed importare? L'ipotesi di Wolf, rivelatasi esatta, era che non avrebbero nemmeno tentato di farlo. Come osserva il New York Times la riunione ha approvato, tramite il Fondo monetario internazionale, dei fondi in caso di crisi di pagamenti da parte dei paesi in via di sviluppo e delle linee di credito per un totale di 1100 miliardi di dollari ma non ha varato alcuna misura diretta di stimolo della domanda. I G20 non erano quindi politicamente in grado di affrontare il nodo cruciale posto da Wolf. Per scioglierlo però bisogna rompere la deflazione salariale in Europa e riorientare le strutture produttive sia del Giappone che della Cina.
La Francia e la Germania non vogliono sentir parlare di stimoli fiscali all'economia. Lo scorso ottobre Angela Merkel affermò che non avrebbe speso un ulteriore euro in favore del resto dell'eurozona per non indebolire le capacità finanziarie della Germania. Nell'intervista rilasciata al Financial Times il 27 marzo, riferendosi alla dipendenza dalle esportazioni della Germania, la cancelliera ha detto "è un fatto che nemmeno intendiamo cambiare." Per il governo e il capitale tedesco l'economia non deve essere rilanciata perché, aumentando le importazioni dal resto dell'Europa, se ne dissiperebbero all'estero gli effetti. In forma più paludata le stesse tesi vengono espresse in Francia: se si stimola, si rilanciano principalmente le importazioni. Quindi, dice Sarkozy, per uscire dalla crisi bisogna aumentare la produttività; ovviamente per esportare di più verso l'Europa. Con l'euro, il perno del neomercantilismo intraeuopeo è oggi la deflazione salariale competitiva che rimpiazza le svalutazioni nei tassi di cambio del passato. La garanzia risiede in una moneta austera, quasi aurea, come il franco francese degli anni Trenta.
Parigi e Berlino sono d'accordo nel proteggere il sistema bancario e di ricondurlo in un alveo istituzionalmente monopolistico con rendite garantite. La Francia ne è un esempio: malgrado le perdite in borsa le banche hanno dichiarato grossi profitti. La crisi è populisticamente vista solo come il prodotto della corrotta finanza Usa che ha esposto le innocenti banche europee alle cartacce del mercato subprime.
A Washington la speranza di rivalutare le cartacce, grazie alle aste truccate di Geithner e Summers, mostra che non ci sono serie intenzioni di riformare il sistema bancario. La volontà di rilancio economico viene abbinata alla difesa delle megabanche ed alla rivalutazione artificiale dei prodotti tossici. Tuttavia gli Usa non si propongono più di agire da importatori globali per via degli squilibri che ciò causa nelle bilance dei pagamenti. Sebbene tale obiettivo sia di difficile attuazione, ha di che preoccupare sia la zona dell'euro che il Giappone. La riduzione del ruolo di importatore mondiale degli Usa comporterebbe una forte svalutazione del dollaro ed un aggravamento della crisi europea dato che Parigi e Berlino non intendono spendere. Il Giappone vorrebbe stimolare, ma non è in grado farlo E' pieno zeppo di capacità produttive eccedentarie ben oltre le possibilità di assorbimento interno. Le strutture industriali del paese sono in sintonia con il ruolo di oligopoli globali delle sue multinazionali. Il Giappone dipende quindi dalla domanda mondiale, cioè dalla Cina e dagli Usa, visto che l'Europa si autocongela nel sistema euro-aureo.
La Cina sta subendo gli effetti più pesanti della crisi: nelle zone esportatrici milioni di persone hanno già perso il posto di lavoro e molti altri milioni li perderanno. Intere aree industriali si svuotano con i macchinari che vengono imballati e/o venduti. Non ci sono delle reali reti di protezione sociale, la sanità è cara, senza lavoro in città non si può vivere. Da un anno venti milioni di operai e operaie sono rientrati nelle campagne assai povere. Anche il governo sollecita i «rimpatri». La Cina intende spendere per mitigare la crisi. Tuttavia le misure adottate finora favoriscono l'industria pesante e quindi aumentano il divario tra consumi ed investimenti.
Ora il problema è l'allargamento del mercato interno del consumo. E' evidente che la Cina si propone di ricalibrare senza abbandonare il modello di crescita attraverso le esportazioni, malgrado questo sia in crisi. Per Pechino diventa impellente affrontare la questione degli attivi in dollari che non rendono, sia per i bassi tassi Usa che per la tendenziale svalutazione del dollaro. Con le esportazioni che non crescono più, il sacrificio inerente alla detenzione di dollari non è compensato da maggiori guadagni nel commercio estero.
La Cina non vuole affondare la barca, bensì porre sul tappeto la governabilità del dollaro e usa il surplus accumulato per aumentare il suo peso politico-legale nel Fondo monetario internazionale. Ma gli Usa non accetteranno ridiscutere il ruolo della loro moneta. Nessuno dei partecipanti al G20 ha un'analisi profonda della crisi ed un relativo schema per discuterne. Ugualmente nessuno tra i cosiddetti economisti ha una visione del futuro come l'ebbe Keynes a Versailles nel 1919, vedendo in maniera lucidissima dove il tutto sarebbe andato a parare.

Il secondo riporta invece i commenti sull'esito delle trattative da parte della stampa anglosassone, come sempre puntuali e non ipocriti, soprattutto sul punto inevaso di cosa fare dei toxic assets e con un episodio alquanto emblematico del nuovo peso della Cina.

Deludente, vago, inadeguato. Il G20 dei media anglosassoni
A leggere la stampa anglosassone, e invece i giornali italiani, sembra che a Londra si siano tenuti due vertici del G20 completamente diversi. Uno, descritto dalla stampa nostrana, avrebbe conseguito successi storici, abolito i paradisi fiscali, imposto nuove norme cogenti al Far west della speculazione finanziaria, iniettato migliaia e migliaia di miliardi nell'economia mondiale: avrebbe posto le basi di un nuovo capitalismo.
Per la stampa americana e inglese il vertice sarebbe stato, se non un insuccesso, certo una delusione. Il più devastante, come al solito, è l'Economist: «L'esito del G20: meglio di niente. Ma può l'Fmi salvare il mondo?» Titolo che non richiede particolari spiegazioni. L'Economist descrive il Fondo monetario internazionale come una sorta di barile in cui sono state scaricate tutte le questioni su cui le diverse parti non trovavano un accordo.
Altrettanto secco il titolo del quotidiano Financial Times: «Le grandi cifre del G20 nascondono profonde divisioni»: «L'enfasi sulle quantità più che sugli accordi concreti serve a mascherare il grande elemento mancante nel comunicato: un nuovo e vincolante impegno a misure specifiche per ripulire gli assets tossici del sistema bancario internazionale», scrive l'organo della City, che prosegue: «I numeri annunciati alla fine di ogni summit internazionale vanno esaminati da vicino, in particolare quelli presentati dal primo ministro britannico che è preceduto dalla sua reputazione d'inflazione numerica e di doppio conteggio».
Altrettanto scettico è l'organo della borsa di New York, il Wall Street Journal: «I leaders delle nazioni del gruppo del G20 hanno annunciato giovedì misure che - hanno detto - aiuteranno a risollevare l'economia mondiale, ma hanno rinviato le decisioni più spinose o le hanno scaricate su istituzioni non abituate a tali responsabilità». E più in là: «Le misure adottate potranno alleviare gli effetti della crisi economica. Ma molte dichiarazioni sono state solo di principio, e dovranno trovare seguito altrove - alcune in un altro vertice G20 più tardi quest'anno». «Il comunicato emesso dal gruppo alla fine dell'incontro non affronta specificamente i problemi che secondo molti sono alla radice della crisi odierna, come il fallimento dei sistemi bancari».
Tutta la stampa anglosassone, in particolare quella americana, insiste sul fatto che Obama non ha ottenuto quasi nulla sul punto che gli premeva di più: «Il gruppo non ha preso nessun impegno su un obiettivo concreto di stimolo, sostenuto dagli Usa. Invece, i leader si sono vagamente impegnati a 'offrire un livello di stimolo fiscale necessario per restaurare la crescita'» (WSJ).
Moderato fallimento è il giudizio del New York Times nel suo editoriale: «In tempi normali non ci aspettiamo molto dai vertici economici. Ma con l'economia mondiale che implode, giovedì i leaders delle maggiori 20 potenze economiche mondiali avevano l'urgente responsabilità di formulare politiche concrete per rimettere in sesto il sistema finanziario globale e rilanciare la crescita. Non ci sono riusciti». E conclude: «Per uscire dalla crisi ci vorrà molto più di quanto è stato fatto a Londra».
Per esemplificare il livello di disaccordo, tutti i giornali citati riportano a lungo un episodio ignorato dalla stampa italiana. Ecco la versione del NYT: «Per più di una tesissima ora, giovedì, Nicholas Sarkozy e il presidente della Cina Hu Jintao si sono scontrati sui paradisi fiscali. Circondati dagli altri 18 leaders, si sono beccati reciprocamente. Sarkozy voleva che il comunicato del G20 nominasse e deplorasse i paradisi fiscali, magari includendo Macao o Hong Kong che sono sotto sovranità cinese. Come ovvio, Hu non ne voleva sapere. Sembrava arrabbiato che Sarkozy stesse di fatto accusando la Cina di lassismo e che il leader francese gli chiedesse di appoggiare sanzioni emanate dall'Ocse (un club di nazioni ricche cui la Cina non partecipa ancora). Secondo il resoconto di funzionari della Casa bianca, Obama ha accompagnato i due a turno, uno alla volta, in un angolo del salone per dirimere la disputa: "Se sostituissimo la parola 'riconosciamo' con il termine 'notiamo'?" ha suggerito Obama. Risultato: nel comunicato finale si legge: "Notiamo che l'Ocse ha oggi pubblicato una lista di paesi che il Global Forum definisce non rispondenti ai criteri internazionali di scambio di informazioni fiscali". Hong Kong e Macao non apparivano nella lista».