Il G20 è finito e tutto quello che ha lasciato dietro di sé è l'incapacità dell'attuale ceto politico delle super-potenze a governare le prime instabilità della crisi (figuriamoci programmarne una fuoriuscita!). Squilibri, Nord-Sud, disparità sociali, crisi economica, tensioni internazionali sono il lascito di un modello di sviluppo mondializzato che ha egemonizzato le partiche e i discorsi degli ultii 30 anni.
Un'egemionia oggi però quantomai in declino... chi sarebbe oggi disposto ad avallare l'indiscutibilità del pensiero e modello unico neoliberista? Sono proprio i capi di stato ed i banchieri a invocare oggi intervento statale... certo per loro, nell'ottica capitalistica di socializazione delle perdite.
I Comunisti e i movimenti anticapitalisti oggi, possono ben dire di aver sempre avuto ragione, di aver intravisto e interpretato tendenza e direzione di questo modello di squilibrio.
Proponiamo a questi links 2 commenti/letture sugli esiti (fondalmente nulli) del recente G20 consumatosi a Londra, per i movimenti il conto da fare con una nuova - e potenziale - composizione sociale del conflitto; per i padroni del mondo, la celebrazione di un'impotenza.
Il primo articolo è un commento di J.Halevi sui global imbalances lasciati inalterati- e come era possibile fare altrimenti?- dal G20 e forieri di cattive notizie sul fronte della situazione economica.
I Comunisti e i movimenti anticapitalisti oggi, possono ben dire di aver sempre avuto ragione, di aver intravisto e interpretato tendenza e direzione di questo modello di squilibrio.
Proponiamo a questi links 2 commenti/letture sugli esiti (fondalmente nulli) del recente G20 consumatosi a Londra, per i movimenti il conto da fare con una nuova - e potenziale - composizione sociale del conflitto; per i padroni del mondo, la celebrazione di un'impotenza.
Il primo articolo è un commento di J.Halevi sui global imbalances lasciati inalterati- e come era possibile fare altrimenti?- dal G20 e forieri di cattive notizie sul fronte della situazione economica.
Il summit e i conflitti intercapitalistici
di Joseph Halevi
di Joseph Halevi
Sul Financial Times del 31 marzo Martin Wolf aveva stabilito un semplicissimo criterio per valutare le decisioni dei G20. Riusciranno questi paesi a spostare la distribuzione della domanda mondiale dai paesi in deficit a quelli in surplus per farli spendere ed importare? L'ipotesi di Wolf, rivelatasi esatta, era che non avrebbero nemmeno tentato di farlo. Come osserva il New York Times la riunione ha approvato, tramite il Fondo monetario internazionale, dei fondi in caso di crisi di pagamenti da parte dei paesi in via di sviluppo e delle linee di credito per un totale di 1100 miliardi di dollari ma non ha varato alcuna misura diretta di stimolo della domanda. I G20 non erano quindi politicamente in grado di affrontare il nodo cruciale posto da Wolf. Per scioglierlo però bisogna rompere la deflazione salariale in Europa e riorientare le strutture produttive sia del Giappone che della Cina.
La Francia e la Germania non vogliono sentir parlare di stimoli fiscali all'economia. Lo scorso ottobre Angela Merkel affermò che non avrebbe speso un ulteriore euro in favore del resto dell'eurozona per non indebolire le capacità finanziarie della Germania. Nell'intervista rilasciata al Financial Times il 27 marzo, riferendosi alla dipendenza dalle esportazioni della Germania, la cancelliera ha detto "è un fatto che nemmeno intendiamo cambiare." Per il governo e il capitale tedesco l'economia non deve essere rilanciata perché, aumentando le importazioni dal resto dell'Europa, se ne dissiperebbero all'estero gli effetti. In forma più paludata le stesse tesi vengono espresse in Francia: se si stimola, si rilanciano principalmente le importazioni. Quindi, dice Sarkozy, per uscire dalla crisi bisogna aumentare la produttività; ovviamente per esportare di più verso l'Europa. Con l'euro, il perno del neomercantilismo intraeuopeo è oggi la deflazione salariale competitiva che rimpiazza le svalutazioni nei tassi di cambio del passato. La garanzia risiede in una moneta austera, quasi aurea, come il franco francese degli anni Trenta.
Parigi e Berlino sono d'accordo nel proteggere il sistema bancario e di ricondurlo in un alveo istituzionalmente monopolistico con rendite garantite. La Francia ne è un esempio: malgrado le perdite in borsa le banche hanno dichiarato grossi profitti. La crisi è populisticamente vista solo come il prodotto della corrotta finanza Usa che ha esposto le innocenti banche europee alle cartacce del mercato subprime.
A Washington la speranza di rivalutare le cartacce, grazie alle aste truccate di Geithner e Summers, mostra che non ci sono serie intenzioni di riformare il sistema bancario. La volontà di rilancio economico viene abbinata alla difesa delle megabanche ed alla rivalutazione artificiale dei prodotti tossici. Tuttavia gli Usa non si propongono più di agire da importatori globali per via degli squilibri che ciò causa nelle bilance dei pagamenti. Sebbene tale obiettivo sia di difficile attuazione, ha di che preoccupare sia la zona dell'euro che il Giappone. La riduzione del ruolo di importatore mondiale degli Usa comporterebbe una forte svalutazione del dollaro ed un aggravamento della crisi europea dato che Parigi e Berlino non intendono spendere. Il Giappone vorrebbe stimolare, ma non è in grado farlo E' pieno zeppo di capacità produttive eccedentarie ben oltre le possibilità di assorbimento interno. Le strutture industriali del paese sono in sintonia con il ruolo di oligopoli globali delle sue multinazionali. Il Giappone dipende quindi dalla domanda mondiale, cioè dalla Cina e dagli Usa, visto che l'Europa si autocongela nel sistema euro-aureo.
La Cina sta subendo gli effetti più pesanti della crisi: nelle zone esportatrici milioni di persone hanno già perso il posto di lavoro e molti altri milioni li perderanno. Intere aree industriali si svuotano con i macchinari che vengono imballati e/o venduti. Non ci sono delle reali reti di protezione sociale, la sanità è cara, senza lavoro in città non si può vivere. Da un anno venti milioni di operai e operaie sono rientrati nelle campagne assai povere. Anche il governo sollecita i «rimpatri». La Cina intende spendere per mitigare la crisi. Tuttavia le misure adottate finora favoriscono l'industria pesante e quindi aumentano il divario tra consumi ed investimenti.
Ora il problema è l'allargamento del mercato interno del consumo. E' evidente che la Cina si propone di ricalibrare senza abbandonare il modello di crescita attraverso le esportazioni, malgrado questo sia in crisi. Per Pechino diventa impellente affrontare la questione degli attivi in dollari che non rendono, sia per i bassi tassi Usa che per la tendenziale svalutazione del dollaro. Con le esportazioni che non crescono più, il sacrificio inerente alla detenzione di dollari non è compensato da maggiori guadagni nel commercio estero.
La Cina non vuole affondare la barca, bensì porre sul tappeto la governabilità del dollaro e usa il surplus accumulato per aumentare il suo peso politico-legale nel Fondo monetario internazionale. Ma gli Usa non accetteranno ridiscutere il ruolo della loro moneta. Nessuno dei partecipanti al G20 ha un'analisi profonda della crisi ed un relativo schema per discuterne. Ugualmente nessuno tra i cosiddetti economisti ha una visione del futuro come l'ebbe Keynes a Versailles nel 1919, vedendo in maniera lucidissima dove il tutto sarebbe andato a parare.
Il secondo riporta invece i commenti sull'esito delle trattative da parte della stampa anglosassone, come sempre puntuali e non ipocriti, soprattutto sul punto inevaso di cosa fare dei toxic assets e con un episodio alquanto emblematico del nuovo peso della Cina.
Deludente, vago, inadeguato. Il G20 dei media anglosassoni
A leggere la stampa anglosassone, e invece i giornali italiani, sembra che a Londra si siano tenuti due vertici del G20 completamente diversi. Uno, descritto dalla stampa nostrana, avrebbe conseguito successi storici, abolito i paradisi fiscali, imposto nuove norme cogenti al Far west della speculazione finanziaria, iniettato migliaia e migliaia di miliardi nell'economia mondiale: avrebbe posto le basi di un nuovo capitalismo.
A leggere la stampa anglosassone, e invece i giornali italiani, sembra che a Londra si siano tenuti due vertici del G20 completamente diversi. Uno, descritto dalla stampa nostrana, avrebbe conseguito successi storici, abolito i paradisi fiscali, imposto nuove norme cogenti al Far west della speculazione finanziaria, iniettato migliaia e migliaia di miliardi nell'economia mondiale: avrebbe posto le basi di un nuovo capitalismo.
Per la stampa americana e inglese il vertice sarebbe stato, se non un insuccesso, certo una delusione. Il più devastante, come al solito, è l'Economist: «L'esito del G20: meglio di niente. Ma può l'Fmi salvare il mondo?» Titolo che non richiede particolari spiegazioni. L'Economist descrive il Fondo monetario internazionale come una sorta di barile in cui sono state scaricate tutte le questioni su cui le diverse parti non trovavano un accordo.
Altrettanto secco il titolo del quotidiano Financial Times: «Le grandi cifre del G20 nascondono profonde divisioni»: «L'enfasi sulle quantità più che sugli accordi concreti serve a mascherare il grande elemento mancante nel comunicato: un nuovo e vincolante impegno a misure specifiche per ripulire gli assets tossici del sistema bancario internazionale», scrive l'organo della City, che prosegue: «I numeri annunciati alla fine di ogni summit internazionale vanno esaminati da vicino, in particolare quelli presentati dal primo ministro britannico che è preceduto dalla sua reputazione d'inflazione numerica e di doppio conteggio».
Altrettanto scettico è l'organo della borsa di New York, il Wall Street Journal: «I leaders delle nazioni del gruppo del G20 hanno annunciato giovedì misure che - hanno detto - aiuteranno a risollevare l'economia mondiale, ma hanno rinviato le decisioni più spinose o le hanno scaricate su istituzioni non abituate a tali responsabilità». E più in là: «Le misure adottate potranno alleviare gli effetti della crisi economica. Ma molte dichiarazioni sono state solo di principio, e dovranno trovare seguito altrove - alcune in un altro vertice G20 più tardi quest'anno». «Il comunicato emesso dal gruppo alla fine dell'incontro non affronta specificamente i problemi che secondo molti sono alla radice della crisi odierna, come il fallimento dei sistemi bancari».
Tutta la stampa anglosassone, in particolare quella americana, insiste sul fatto che Obama non ha ottenuto quasi nulla sul punto che gli premeva di più: «Il gruppo non ha preso nessun impegno su un obiettivo concreto di stimolo, sostenuto dagli Usa. Invece, i leader si sono vagamente impegnati a 'offrire un livello di stimolo fiscale necessario per restaurare la crescita'» (WSJ).
Moderato fallimento è il giudizio del New York Times nel suo editoriale: «In tempi normali non ci aspettiamo molto dai vertici economici. Ma con l'economia mondiale che implode, giovedì i leaders delle maggiori 20 potenze economiche mondiali avevano l'urgente responsabilità di formulare politiche concrete per rimettere in sesto il sistema finanziario globale e rilanciare la crescita. Non ci sono riusciti». E conclude: «Per uscire dalla crisi ci vorrà molto più di quanto è stato fatto a Londra».
Per esemplificare il livello di disaccordo, tutti i giornali citati riportano a lungo un episodio ignorato dalla stampa italiana. Ecco la versione del NYT: «Per più di una tesissima ora, giovedì, Nicholas Sarkozy e il presidente della Cina Hu Jintao si sono scontrati sui paradisi fiscali. Circondati dagli altri 18 leaders, si sono beccati reciprocamente. Sarkozy voleva che il comunicato del G20 nominasse e deplorasse i paradisi fiscali, magari includendo Macao o Hong Kong che sono sotto sovranità cinese. Come ovvio, Hu non ne voleva sapere. Sembrava arrabbiato che Sarkozy stesse di fatto accusando la Cina di lassismo e che il leader francese gli chiedesse di appoggiare sanzioni emanate dall'Ocse (un club di nazioni ricche cui la Cina non partecipa ancora). Secondo il resoconto di funzionari della Casa bianca, Obama ha accompagnato i due a turno, uno alla volta, in un angolo del salone per dirimere la disputa: "Se sostituissimo la parola 'riconosciamo' con il termine 'notiamo'?" ha suggerito Obama. Risultato: nel comunicato finale si legge: "Notiamo che l'Ocse ha oggi pubblicato una lista di paesi che il Global Forum definisce non rispondenti ai criteri internazionali di scambio di informazioni fiscali". Hong Kong e Macao non apparivano nella lista».
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