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venerdì 8 maggio 2009

«Il peggio deve ancora venire: Cai è un modello contro i diritti del lavoro»

di Francesco Piccioni
Disservizi, ritardi, organici largamente insufficienti. Ma «conti migliori del previsto». Intervista a Paolo Maras (segretario SdL)
Ritardi, manutenzione incerta, disservizi, carenza di organico. Alitalia torna in prima pagina, ma con i conti - spiega il socio di riferimento, Jean-Cyril Spinetta, presidente di air France - «al di sopra delle attese». Ne parliamo con Paolo Maras, segretario nazionale dell'SdL-trasporto aereo, steward ora in cassa integrazione.
Quanti problemi ha la «nuova» Alitalia?
Che si faccia il bilancio dei primi 100 giorni è doveroso, ma era già noto che i problemi principali - ritardi, inefficienze, organici e condizioni del lavoro - fossero irrisolti. Non a caso avevamo sempre detto che attraverso questa operazione non passa solo la trasformazione da Alitalia a Cai, ma un treno micidiale addosso a diritti, conquiste, condizioni di lavoro. E anche una visione diversa da quella di una compagnia di bandiera, che presuppone comunque un interesse dello Stato nel garantire servizi ai cittadini. Oggi vediamo anche Formigoni e Castelli strapparsi i capelli per Malpensa, dove non funzione più nulla e i passeggeri rimangono a terra. Certo, se gli organici sono insufficienti, sia a bordo che a terra, succede questo.
Eppure si era detto che si voleva creare una compagnia grande, forte e «italiana».
Fin dall'inizio l'obiettivo era di tenere bassissimi i costi e il personale ridotto all'osso, confezionando un pacchetto appetibile per il migliore offerente. Che in Cai sappiamo essere «mister 25%», ovvero Air France. Che ora dice - traduco - «come fate a ottenere risultati superiori alle aspettative»? In Francia sequestrano i manager, qui avete distrutto sindacato e lavoratori e nessuno dice niente...
Previsioni fosche per i vostri colleghi francesi...
Appunto. In secondo luogo, Spinetta ha sollevato la politica italiana e il governo (quello che diceva «ai francesi, mai») da ogni responsabilità per la cattiva gestione precedente alla vendita. L'unico «colpevole» è stato trovato nel sindacato. Tutti, senza eccezione. Noi siamo convinti che il peggio debba ancora arrivare. Il «problema Alitalia» non c'è più, come la monnezza napoletana. Ma se si pensa che deve ancora la fusione effettiva tra le cinque aziende che compongono oggi la nuova Alitalia, è facile prevedere nuovi «esuberi» causati da queste sinergie.
Ma se già ora nell'«operativo» gli addetti sono pochi...
Se una macchina che ha bisogno di quattro assistenti di volo la fai partire con soltanto due, la legge della «sinergia» funziona anche in quel caso. I numeri delle assunzioni fatte sono fortemente squilibrati rispetto agli stessi impegni iniziali. Gli assistenti di volo - a quattro mesi dalla partenza - sono sotto organico di oltre 400 unità. Si parla ora di 190 assunzioni, che non coprono le necessità.
Le politiche del trasporto dipendono sempre più dalle scelte europee. Come si fa a tenere il punto del conflitto senza una qualche sponda politica?
La vicenda Alitalia è andata come è andata proprio perché c'è una desertificazione della politica. C'è necessità di riportare competenze vere, non ideologiche - insomma esperienze vissute, «sapere di che si parla» - dentro certe istituzioni. Per esempio, credo che la scelta di Andrea Cavola, mio compagno di lotte per oltre 20 anni - di candidarsi come indipendente con Rifondazione, sia assolutamente giusta. La sensazione di questi anni è che non importa quanto tu abbia ragione, quanti lavoratori hai dietro; tutto il sistema - anche l'informazione, con poche eccezioni - si muove a tutela degli interessi del «grande capitale». Basta vedere il ruolo politico-mediatico del ministro Matteoli: di scioperi nel trasporto non si parla più, nemmeno a livello di annuncio, perché ogni giornalista sa che tanto lui li vieta sempre, con la precettazione.

venerdì 24 aprile 2009

Gli operai bloccano l'Aurelia a Pisa

Video-interviste agli operai della Saint-Gobain:
da PisaNotizie.it



La crisi inizia a mordere e a farsi sentire anche sul tessuto produttivo italiano. I territori ad alta concentrazione manifatturiera vedono chiudere fabbriche su fabbriche con l'attivazione (quando va bene) di cassa integrazioni o (nel peggiore dei casi) con il puro e semplice licenziamento.
Due giorni fa uno sciopero spontaneo e il conseguente blocco dell'Aurelia da parte di centinaia di operai è stata la ripsota a caldo che quei lavoratori hanno saputo improvvisare per opporsi ai 70 licenziamenti che la multinazionale francese Saint-Gobain ha comunicato in mattinata.
La situazione è molto tesa e, se il sindacato nell'assemblea di fabbrica non illude i lavoratori che hanno protestato autonomamente, sono previste grosse mobilitazioni.

Saint Gobain: cronaca di un disastro annunciato
di associazione Aut-aut
Dopo la comunicazione, terribile e improvvisa, di 77 licenziamenti all'interno della fabbrica Saint Gobain di Pisa, da stamattina i lavoratori della fabbrica sono in sciopero, e alternano a picchetti di fronte allo stabilimento blocchi dell'Aurelia. Ma come si è arrivati a questa situazione? Senza ripercorrere le complesse tappe di questa vicenda, basti ricordare che la Saint Gobain e il Comune di Pisa, durante il mandato del Sindaco Fontanelli, avavano firmato un accordo che prevedeva da parte del Comune la concessione di una variante urbanistica che permetteva alla fabbrica la dismissione di un’area dello stabilimento, e da parte dell’azienda l’impegno a investire 100 milioni di euro in cinque anni sul forno Float, operazione che avrebbe offerto garanzie occupazionali per gli operai della fabbrica.
Il risultato di questo “affare”, per la Saint-Gobain, è stato l’ incasso, nell’immediato, più di 20 milioni di euro, attraverso la dismissione di un’area ceduta alla società di costruzioni Ville urbane, che utilizzerà l’area, pare, per costruire palazzi di 7 piani. E per il Comune, ovvero per i lavoratori che dovevano essere i principali beneficiari dell’accordo, quali sono stati i benefici di questa operazione?
Ieri ai lavoratori è stata comunicata la notizia che non esiste alcun investimento sul forno Float che, al contrario, entro luglio sarà spento. Il risultato saranno 77 licenziamenti, dei quali 45 lavoratori a tempo indeterminato e 22 interinali. Il risultato è insomma che mentre un’azienda che fattura milioni di euro si è potuta arricchire ancora un po’, incassando 20 milioni di euro da una società che a sua volta probabilmente incasserà una cifra ancora più alta grazie alle speculazioni che potrà portare avanti sull’area acquistata (siamo sicuri, tra l’altro, che verranno costruiti palazzi di sette piani in un’area come quella della Saint Gobain?), 77 lavoratori hanno perso il proprio lavoro.
Domani il Consiglio Comunale di Pisa discuterà la proposta del consigliere comunale Maurizio Bini di dedicare un consiglio comunale aperto, il 30 aprile, alla questione Saint Gobain. Come risulta chiaro infatti, il Comune di Pisa non ha certo un ruolo secondario nella faccenda. E' realistico, infatti, immaginare che il Comune si sia accorto solo ieri, insieme ai lavoratori, che il famoso investimento da 100 milioni di euro promesso dall’azienda in cambio della variante urbanistica fosse solo un pretesto per una mastodontica operazione di speculazione immobiliare?
La risposta a questa domanda è da cercare probabilmente tra le pieghe dei rapporti che legano chi ha tratto benefici da un’operazione che, ancora una volta, fa ricadere gli effetti della crisi su chi questa crisi la subisce da sempre, permettendo invece di arricchirsi a cui l’ha creata.

Le voci della Saint-Gobain: la parola degli operai
da PisaNotizie.it
I lavoratori della Saint-Gobain rompono il silenzio, scioperano, bloccano l'Aurelia e soprattutto si raccontano e spiegano cosa è avvenuto in questi ultimi mesi nella fabbrica.

"Ci hanno preso clamorosamente in giro" - dice un lavoratore della CRM, una ditta dell'indotto della Saint-Gobain - "la scorsa settimana avevano appeso un foglio in bacheca in cui l'azienda diceva che era tutto tranquillo, e poi ci licenziano. Ci sentiamo traditi. Noi dell'indotto siamo i primi saltare". Queste sono le prime parole che raccogliamo, appena arrivati davanti ai cancelli della Saint-Gobain durante lo sciopero. E un altro operaio che qui lavora dall'1989 incalza: "l'azienda ha negato fino all'ultimo, venerdì ci raccontavano che non si sarebbe fatta più la settimana corta e che i contratti a termine sarebbero stati rinnovati", e un altro operaio lo interrompe: "per forza, avevano deciso già di mandarci tutti a casa da tempo, da molto tempo".
"Il male vero" - ci racconta un altro lavoratore anziano - "è che non si sa cosa vogliono fare. Il problema è se il nuovo Float verrà fatto oppure no: tutto il resto sono chiacchere, e di queste siamo stufi. La mia impressione è, però, che la situazione è brutta e che non ci attende nulla di positivo". Un operaio lo interrompe: "a noi dicono che si naviga a vista, ma come è possibile che una multinazionale va avanti così senza una strategia?". Aggiunge un altro lavoratore: "che sarebbe finita così si sapeva da mesi, non si sono voluto vedere le cose per quelle che erano, si sa che politica fanno le multinazionali."
Un altro operaio che lavora allo stratificato da più di dieci anni ci spiega: "in tutti questi anni abbiamo acquisito delle professionalità in questa fabbrica. L'azienda ha guadagnato su di noi. Da quando sono qui, la Saint-Gobain ci ha chiesto sempre una maggiore disponibilità: lavoro interinale, straordinari di sabato e di domenica e noi abbiamo accettato. Ora ci dicono che c'è la crisi e ci mandano tutti a casa". Un altro lavoratore aggiunge "nel mio reparto, ci hanno chiesto gli straordinari anche il sabato fino al 31 gennaio, alla faccia della crisi. L'azienda si è riempita i magazzini, in modo da avere riserve per anni, e ora che ci ha spremuto bene ci butta via. Occorre porre un freno a queste multinazionali che pongono al centro solo il profitto". "Io ho lavorato il 24 dicembre, il 31 dicembre di quest' anno e ora mi dicono che c'è la crisi - afferma un operaio - A noi dicevano: lavorate e le cose miglioreranno. Il risultato è che spengono il Float e ci licenziano". Interviene un terzo: "qui licenziano il 30% di noi, basta coi patti con l'azienda, è tanti anni che ci strozzano", e c'è chi urla: "hanno marciato sulla crisi per avere gli incentivi, hanno guadagnato loro e basta".
Insieme con gli operai della Saint-Gobain ci sono i lavoratori della CRM (una sessantina), ma anche quelli delle cooperativa delle pulizie, poco meno di una trentina. Uno di questi ci dice: "è da gennaio di quest'anno che lavoro a 6 ore, prendo 750-800 euro al mese, e non ho né cassa integrazione, né alcun ammortizzare sociale. Se ci licenziano abbiamo solo la disoccupazione davanti a noi. Questa è una schifezza. Cosa ci faccio con 800 euro al mese con tutta la famiglia a carico mio?"
A scioperare ci sono anche i contrattisti della Saint-Gobain. Uno di questi ci racconta, mentre blocca un camion davanti all'ingresso dei cancelli: tanto se il camion entra, poi non può scaricare perché io e gli altri che svolgiamo questa mansione siamo qui a scioperare: è da tre anni che mi rinnovano annualmente il contratto. Se un lavoratore si vuole licenziare deve dare un preavviso all'azienda, invece la Saint-Gobain ci manda tutti a casa da un giorno all'altro".
In tantissimi vogliono parlare degli accordi del 2007 che l'azienda non ha rispettato. "Da 30 anni lavoro in questa fabbrica" - dice un operaio, mentre fa avanti e indietro sulle strisce pedonali dell'Aurelia - "gli accordi fatti nel 2007 erano chiari, parlavano di un nuovo Float da 800-850 tonnellate, addirittura superiore a quello attuale che ormai ha più di 14 anni e sta funzionando oltre il dovuto. Non capisco i sindacati, e domando: "dov'è il nostro sindacato? Il sindacato doveva sapere queste cose e bisognava muoversi prima, invece ogni volta c'era una scusa e non si è fatto nulla". La discussione sul sindacato attraversa gli operai con sfumature molto diverse. C'è chi ne sostiene l'operato e chi lo critica, sostenendo "che in questi anni è venuto a mancare, non è stato con i lavoratori", ma tutti ora dicono che "l'importante è farsi sentire tutti insieme".
Un altro operaio, che da 35 anni lavora nello stabilimento, incalza però sulle responsabilità della politica: "noi abbiamo un credito con la politica. La Saint-Gobain ha ricevuto e fatto soldi grazie a una variante urbanistica del Comune, per cui è riuscita a vendere un campo di patate come se fosse oro. Hanno preso milioni di euro, e chi ha beneficiato di questi soldi? Ora ce li devono restituire."
In molti ripetono: "il sindaco ha permesso all'azienda di fare profitti, e di fargli fare soldi, ora il comune si deve impegnare per far ritornare quei soldi". Un operaio è ancora più esplicito sulla vendita di quello che tanti lavoratori della fabbrica chiamano "un campo di patate": "l'azienda ha preso milioni di euro e secondo molte voci che girano sostengono che su questa area c'è una speculazione edilizia. Provo a spiegarmi: se vendi delle case davanti ad una fabbrica attiva, le vendi ad un certo prezzo, ed anche chi le vende ci guadagna una certa cifra. Ma se la fabbrica è chiusa, le case le vendi molto meglio e a un prezzo molto più alto e anche chi ha comprato l'area alcuni anni fa potrebbe aver fatto i suoi conti." Un operaio osserva: "a Pisa si parla tanto di turismo, ma se la gente non lavora, non c'è il turismo. Non si va mica in giro se uno non ha un lavoro".
Un altro operaio più giovane aggiunge: "il sindacato da solo non ce la può fare, questa deve essere una battaglia di tutta la città. Saint-Gobain è la storia di Pisa, e Pisa finisce se non viene rifatto il Float. Da questo impianto dipende la vita e il futuro di migliaia di famiglie".
Un altro lavoratore, quando stiamo per andare via, ci chiede di parlare: "Noi vogliamo un programma scritto, chiarezza, non si può più vivere di voci. Il nuovo forno lo fanno o ci mandano tutti a casa?"

sabato 18 aprile 2009

Parla VAURO

Conversazione telefonica tra Jacopo Venier, direttore di pdcitv e Vauro, vignettista epurato da "Annozero".

lunedì 13 aprile 2009

Crimini di guerra israeliani a Gaza

dal Forum Palestina: Il video con l'inchiesta di Rainews 24

Prima parte


Seconda parte

martedì 7 aprile 2009

Abruzzo: oltre 200 morti. La politica urbanistica sotto accusa. Banco politico del consenso. Solidarietà degli studenti

I morti accertati della più grande tragedia degli ultimi 30 anno sono ormai più di 200. La procura dell'Aquila ha aperto un fascicolo contro ignoti per disastro e omicidio colposo sul terremoto. Altre due forti scosse (4,7 gradi), avvertite fino a Roma. Il Cdm stanzia 30 milioni per la prima emergenza.
Come spesso accade in questi casi, al tragedia diventa anche banco politico di tenuta del consenso tanto vantato da Berlusconi che si mostra infastidito dall'auto-attivazione dal basso di migliaia di italiani e dalle offerte d'aiuto provenienti dall'estero, pretendendo in questo di poter (voler) fare tutto da solo. Lo incalza su questo punto Franceschini, che lancia un appello: "Il governo accetti gli aiuti offerti dagli altri Paesi". Strumentali critiche anche da DiPietro dell'Italia dei Valori.
Fondamentale sarebbe invece ascoltare ed esaudire le richieste d'aiuto della popolazione in difficoltà che lamenta ritardi e i problemi nei soccorsi.
Su questo punto, ascolta la testimonianza di Annamaria, compagna aquilana della May Day Abruzzo che ha trascorso la notte nel centro della Protezione Civile.
Ascolta l'intervista da Radiondadurto

La politica urbanistica sotto accusa
Oltre le responsabilità della Protezione Civile, nodo centrale del problema è sicuramente quello della politica urbanistica ed edilizia troppo leggera e permissiva nel nostro paese dove le case crollano prima e più facilmente che altrove.
Su questo punto ascolta il servizio con Paolo Berdini, docente di Urbanistica alla facoltà di Ingegneria dell'Università di Tor Vergata (da Radiondadurto).
Ascolta l'intervista
Critiche di questo tenore giungono anche da altre nazioni con grandissima esperienza nella gestione dei fenomeni sismici come il Giappone che giudica inappropriate e superate le tecniche di costruzione (soprattutto in zone a rischio) ancora in uso nel nostro paese.
Sulla tv pubblica giapponese sotto accusa le nostre tecniche di costruzione

Solidarietà attiva dai Collettivi della Sapienza e dal movimento romano
Consentire agli studenti universitari dell'Aquila di proseguire i loro studi a Roma, nelle sedi della Sapienza, mettendo a disposizione mense e alloggi nelle case degli studenti capitoline. Questa la richiesta avanzata dal coordinamento dei collettivi della prima università di Roma attraverso un appello lanciato al rettore Luigi Frati, a tutti i presidi di facoltà, all'Agenzia per il diritto allo Studio (Adisu) e alla Regione Lazio.
Diverse realtà di movimento romane come Radio Onda Rossa, Acrobax e c.s. Forte Prenestino si stanno invece organizzando per recarsi nella frazione di Fossa, uno dei centri più colpiti dal sisma. 4 le richieste della Protezione Civile: acqua, coperte, fornelli e tende.

Terremoto. Nemmeno quando sono annunciate le emergenze c’è prevenzione!

"Bertolaso ha completamente sottovalutato i segnali di allarme sul terremoto"
Intervista a Domenico Jiritano, sindacalista RdB dei Vigili del Fuoco

"Diciamo che l'attività della natura non si poteva limitare e nemmeno fermare ma un'azione di prevenzione era necessaria" racconta furibondo Antonio Jiritano a nome delle rappresentanze sindacali del pubblico impiego- Coordinamento nazionale dei vigili del fuoco. "La responsabilità è totalmente del sottosegretario Bertolaso. Come al solito ha avuto un atteggiamento saccente, quello del professore di turno, e ha sottovalutato le missive che da almeno due settimana continuavamo a inviare. Noi come Vigili del fuoco sono almeno 15 giorni che riceviamo richieste di informazione per questa attività sismica che prosegue da un paio di settimane. Noi avevamo il sentore che qualche cosa era nell'aria. Si poteva benissimo pensare a un'attività di prevenzione sul territorio. Non dico che bisognava evacuare la popolazione ma almeno portare avanti tutte quelle attività che avrebbero potuto evitare danni maggiori. A noi manca proprio l'attività di prevenzione sul territorio".
Jiritano si lamenta del fatto che dal ministero abbiamo sottovalutato il problema e le richieste provenienti dai vigili del fuoco. "Sono, come dicevo, almeno due settimane che siamo sotto pressione in quelle zone per questo sciame sismico. Oltretutto qualche professionista che aveva avvisato dei pericoli è stato anche denunciato per procurato allarme. Ma noi questa cosa l'avevamo fatta rilevare. Avevamo chiesto di attivare in tavolo propedeutico all'attività di preallarme. Ma non c'è stato nulla da fare: si gestiscono a vista le attività giornaliere ma non si fa prevenzione. Tale è stata la sottovalutazione del problema che il sottosegretario Bertolaso deve dimettersi".
Il rappresentante dei vigili del fuoco rincara la dose. "In questo momento alla protezione civile sono impegnati in altre cose. Hanno voluto dare l'immagine di una Napoli ripulita dalla spazzatura tralasciando quello che è il territorio. Ma sono anni ormai che l'attività di prevenzione della Protezione Civile non c'è. Ormai il loro lavoro è centrato solo sui grandi eventi. Non c'è più l'attività di soccorso in Italia da parte della Protezione Civile. Eppure è in mano al sottosegretario Bertolaso che si occupa di tutt'altro e non di queste cose. Viviamo in un paese a rischio sismico sotto cui si muovono quotidianamente le placche tettoniche. Nonostante tutto questo attività di prevenzione da parte della Protezione Civile non se ne vede. A cosa serve questo sottosegretario se non fa valutazioni immediate?

Il comunicato della RdB/CUB dei Vigili del Fuoco
E' già da tempo che esperti e studiosi annunciano possibili sismi nel centro del paese ed anche i Vigili del Fuoco sono stati, in queste settimane, interessati da richieste e telefonate ai centralini delle sale operative di notizie in merito alle attività sismiche del territorio.

Tutti hanno fatto orecchie da mercante nessuno si è preoccupato di attivare procedure di pre-allerta nelle zone segnalate da possibili sciami sismici.
Alcuni studiosi che avevano avanzato la possibilità di un prossimo terremoto, sono stati pure denunciati per procurato allarme, ora dopo il disastro e la morte di povera gente tutti si interrogano sulle possibili attività che potevano essere messe in campo.
Certamente non si sarebbe fermato il sisma ma indubbiamente tutte quelle attività di prevenzione e procedure di pre-allarme potevano essere utilizzate sulla zona.
Più o meno quello che stà succedendo in queste ora contingenti da tutte le parti d’Italia di Vigili del Fuoco che stanno partendo con tutte le difficoltà del caso, autostrade intasate o impercorribili, ritardi di organizzazione di colonne mobili, ed organici che devono essere reperiti dalle proprie abitazioni perché in questi anni il problema principale dei Governi è stato quello della sicurezza in generale dimenticandosi del soccorso alla popolazione della prevenzione sul territorio e soprattutto che viviamo su una penisola soggetta a movimenti giornalieri.
Ora si ricomincia nuovamente con la sceneggiata dei volontari sul posto per rappresentare l’efficienza dello Stato in attesa che il personale del Corpo Nazionale VV.F. oramai ridotto a mera presenza nei posti di lavoro (sott’organico perenne) si organizzi da tutta Italia e parta per le zone terremotate! Finita la prima emergenza tutto tornerà peggio di prima fino alle prossime morti. Senza un sistema di protezione civile – che si preoccupi concretamente delle emergenze del paese - con dentro la macchina organizzativa dei Vigili del Fuoco il paese dovrà ancora piangere i propri concittadini.
Per il Coordinamento Nazionale RdB CUB VV.F. - Antonio Jiritano

sabato 4 aprile 2009

Paolo Ferrero da Londra: "Chi ha prodotto la crisi non può dare ricette"

Intervista di Checchino Antonini
E’ una scena molto diversa da quella delle grandi manifestazioni no global di Seattle e Genova. La differenza è che ora sembra che il movimento si sia diffuso nei territori, che abbia contaminato le forme di lotta ben oltre le modalità codificate del movimento operaio tradizionale». Unico leader della sinistra italiana a Londra, Paolo Ferrero ieri ha attraversato la città da Ex Cel, quartiere che ospita il G20 fino alla Bank Station, nel cuore della City, teatro degli scontri del giorno prima. Da un capo all’altro della città c’erano contestazioni di piazza sui temi della crisi, delle guerre, del nucleare. «E’ lo scontro tra l’alto e il basso - spiega Ferrero a Liberazione - stavolta non c’è un centro ma, se si osserva la diffusione di pratiche, cresce l’area di chi ha compreso che sono le banche, la finanza, che hanno causato la crisi».

Uno degli aspetti che lo colpisce è il «livello pazzesco di polizia: c’è un controllo su chiunque sembri “diverso”. E questo mette in discussione il diritto a manifestare. Difficile, da qui, capire se la città sia ostile o solidale coi manifestanti». E, intanto, mentre si svolge l’intervista, alcuni bobbies si fiondano su quattro punk per perquisirli.
Sembra che dentro il vertice, i 20 Grandi non vadano poi così d’accordo, sembra che la crisi serva, all’interno dei paesi, per riscrivere i rapporti tra le classi, e all’esterno per rimodulare i rapporti di forza tra gli stati.
Le crisi del capitalismo sono sempre tentativi di ristrutturazioni. A me sembra che questa crisi sposti l’asse dall’Atlantico al Pacifico: il vero evento del summit ufficiale è l’incontro tra Usa e Cina. E Washington e Pechino si incontrano sul fatto che la Cina mette i soldi per rilanciare i consumi americani. E c’è l’accordo sul dollaro come valuta di riserva. Così come il reset delle relazioni statunitensi con la Russia è qualcosa di più di un gentlemen agreement.
C’è anche il braccio di ferro tra Francia e Germania, da un lato, e la Casa Bianca e Downing Street.
Sul punto delle ricette, il nodo è che Sarkozy e Merkel hanno ragione sul versante paradisi fiscali mentre Obama ce l’ha sul deficit spending. Il problema è che a tutti manca un piano sulla redistribuzione del reddito sia sul livello nazionale sia tra Nord e Sud del mondo. Senza questo le altre due ricette non delineano una via d’uscita dalla crisi ma sono un suo utilizzo strumentale.
La ristrutturazione del G20, di cui parli, sembra ridimensionare oggettivamente il G8, più atlantico. Tutto ciò, sommato all’escalation di violenza da parte delle forze dell’ordine, porta Rifondazione a chiedere di annullare il summit della Maddalena.
Sì, chiediamo di fermare il G8. La mia presenza qui è la continuazione di un discorso partito da Genova e proseguito fino a Belem: il movimento no global aveva ragione a Seattle e ha ragione qui. Lo dimostra la crisi. Dunque, chiediamo di cancellare il G8 in Sardegna. La logica è sempre la stessa: otto, per quanto grandi, non possono decidere per sei miliardi, ossia per quelli che pagano i prezzi della crisi.
Qui in Italia, invece, Frattini mostra i muscoli e il Pd dice che è da irresponsabili chiedere di annullare quel vertice.
Il problema è costruire un luogo democratico, che allarghi la base di consenso e partecipazione. Dopo la seconda guerra mondiale, ad esempio, Keynes scrisse un saggio sulle conseguenze economiche della pace, di fronte agli errori seguiti alla prima guerra mondiale. E i vincitori di quella guerra fecero Bretton Woods (il trattato che fissò la parità tra dollaro e l’oro e istituì il Fmi come istituto di investimenti pubblici) e istituirono l’Onu non il G3 (Usa, Urss e Gran Bretagna), anche se avrebbero potuto. Insomma, quest’idea che la crisi della globalizzazione la gestiscano gli stessi che l’hanno causata è una roba folle, siamo di fronte al fallimento sia delle politiche che di una formula. E’ come mettere il mostro di Marcinelle a gestire un asilo nido. Deve cambiare il punto di osservazione, da quello delle elites a quello di chi subisce la crisi. Non è un caso che l’unico continente in controtendenza sia l’America latina dove forme di governo incorporano le istanze sociali di larghe masse. Non esiste un’istituzione internazionale collegata ai lavoratori, ai popoli, ai contadini. E il G8 ribadisce la subalternità della politica ai poteri forti.
A Londra, in Francia, in Grecia, domani contro la Nato a Strasburgo: c’è ancora la possibilità che il conflitto non si trasformi nella guerra tra poveri. E ora cosa dovrebbe fare il Prc?
Il problema di Rifondazione è quello di costruire dentro i movimenti una lettura sul perché della crisi. C’è un tentativo di leggerla come un incidente di percorso, come un temporale o una frana. Noi sappiamo che non è così, che l’unica strada da seguire è quella della redistribuzione del reddito, dell’intervento pubblico su un’economia capace di tassare le rendite e una riconversione ambientale senza più paradisi fiscali e tutte quelle spese militari. L’altro nodo è quello di lavorare al collegamento tra le resistenze sui luoghi di lavoro, le vertenze per il welfare, le questioni ambientali ecc... Il nostro contributo è quello di favorire una connessione. La politica, se non riconnette le relazioni, è percepita come distante.

martedì 31 marzo 2009

Speciale sulla Lista Comunista e Anticapitalista alle Europee

Domenica 29 la presentazione in una conferenza stampa
Nasce la lista che riunisce il Prc, i Comunisti italiani, Socialismo 2000 di Cesare Salvi e i Consumatori Uniti. Nelle schede torna il simbolo "dei lavoratori"
“Abbiamo presentato il simbolo e dato vita a una lista di sinistra, anticapitalista che unisce quattro forze politiche - Prc, Pdci, Socialismo 2000, Consumatori uniti - in una comune proposta politica per l'Europa”. Il tondo rosso con al centro la falce e il martello, campeggia alle spalle del segretario di Rifondazione Comunista, Paolo Ferrero, che per primo prende la parola alla conferenza stampa d’inaugurazione della lista “anticapitalista, comunista, socialista di sinistra, ambientalista” per le elezioni europee. Al suo fianco, Oliviero Diliberto, segretario dei Comunisti italiani, Cesare Salvi di Socialismo 2000 e l’esponente dei Consumatori Uniti, Bruno De Vita. Non un cartello elettorale, né un nuovo partito, ma una proposta politica ben precisa che si identifica a livello europeo nella famiglia del Gue/Ngl e della Sinistra Europea.
“Chi vota la nostra lista – spiega Ferrero – vuole uscire da sinistra dalla crisi in Italia come in Europa, tenendo assieme diritti sociali e diritti civili, chiedendo il pieno rispetto delle libertà dell'individuo nel campo sessuale come in quello etico insieme a un forte intervento pubblico in economia e alla nazionalizzazione delle banche, lottando per un'Europa libera, giusta e socialmente avanzata, ma anche – continua - per un'Europa neutrale e pacifista in politica estera, non asservita alle politiche della Nato”. In tal senso, afferma il leader di Rifondazione, si pone come necessaria l’adesione all’unico gruppo europeo di opposizione al liberismo “di Maastricht e di Lisbona”, responsabile dell'attuale crisi economica europea e mondiale. Al di fuori del GUE, quelle politiche sono da molti anni “votate e sostenute da tutti gli altri gruppi politici eletti in Europa, dai popolari ai socialisti – sottolinea Ferrero – passando per i liberali”, che “oggi fanno finta di contrapporsi in Italia, dal Pdl di Fini e Berlusconi al Pd di Franceschini, passando per Di Pietro e Casini”, ma a livello europeo saranno riuniti in “una vera Grande Coalizione liberista e antipopolare”. Una via d’uscita dalla crisi, in Italia e in Europa, esiste, conclude il segretario del Prc, e può essere imboccata solo se viene promossa “più libertà e più eguaglianza, contro le politiche di un governo di destra che invece punta al totale e sfrenato liberismo ed alla deregulation in economia ma che promuove politiche anti-liberali e totalitarie nel campo dei diritti civili”.
La vera novità di questa tornata elettorale europea sarà il gran ritorno della falce e martello, dopo l’assenza alle ultime elezioni politiche. Lo sottolinea Oliviero Diliberto, segretario del Pdci, il quale afferma con soddisfazione: “Finalmente i comunisti tornano a presentarsi uniti alle elezioni dopo tanti anni. Torna la falce e martello sulle schede; o meglio, per la prima volta da tanto tempo ci sarà solo ‘una’ falce e martello”.
Per Cesare Salvi, esponente insieme a Massimo Villone di Socialismo 2000, con questa lista “ci battiamo uniti per contrastare la deriva berlusconiana proponendo idee e soluzioni diverse da quelle dominanti anche nel Pd”. Al centro delle proposte politiche, afferma Salvi, ci saranno “due questioni prioritarie: la questione morale, che ormai tocca tutti gli schieramenti politici e la necessità di un rinnovamento della politica”.
Aderiscono al progetto delle lista anticapitalista anche i Consumatori Uniti di Bruno De Vita che, “da non comunisti” accettano la sfida di questo percorso comune “perchè la globalizzazione ha precipitato il mondo in una nuova emergenza”. Noi, ha aggiunto il segretario nazionale De Vita, “siamo molto esperti sui trucchi che vengono usati per fregare la gente” e se “il capitalismo finanziario sta puntando a impoverire l'Europa per trasformare i redditi dei lavoratori e i loro diritti in nuovi flussi finanziari – conclude – dobbiamo dire basta a questo capitalismo così aggressivo e ingiusto"

La presentazione del nuovo simbolo


Sinistra Critica non farà parte della "lista comunista"

Troppa continuità e i testimonial sono gli ex ministri. Sullo sfondo c'è la fusione Prc-Pdci
Dichiarazione di Salvatore Cannavò
Sinistra Critica non farà parte della lista "comunista" promossa da Prc e Pdci. Le ragioni sono semplici. Avevamo proposto una lista anticapitalista della sinistra di classe che presentasse alcuni elementi di discontinuità con il recente passato, fatto di errori e sconfitte, della sinistra comunista.
Una lista che avesse una simbologia rinnovata, seppur riconoscibile, con candidature espressione del conflitto sociale e dei movimenti, con un codice etico per i candidati e le candidate, con una visibile alternatività al Pd e al centrosinistra italiano a partire dalla rimessa in discussione della politica di alleanze locali.
Questo purtroppo non è stato. La lista si colloca invece in continuità con la storia di Pdci e Prc la cui prospettiva di fusione è resa più forte da questa intesa. E la continuità è esplicitata anche rispetto al centrosinistra e ai suoi governi con una lista che ha come testimonial di riferimento gli ex ministri dei governi Prodi e D'Alema.
Non è questa la strada per ricostruire e rinnovare la sinistra di classe in Italia. Non è questa la strada che Sinistra Critica ritiene utile per rilanciare, al tempo della crisi globale del capitalismo, una sinistra coerentemente anticapitalista, radicata nel conflitto sociale e nei movimenti, indisponibile ai governi con il Pd e il centrosinistra, aperta alle istanze e ai desideri delle nuove generazioni. Domani, domenica 29 marzo, si terrà il Coordinamento nazionale di Sc per decidere le modalità di partecipazione alle prossime elezioni europee.
Già decisa, invece, la presentazione di liste alle amministrative, ovunque sia possibile, chiaramente alternative, al primo e al secondo turno, al Pd e alle sue coalizioni.

giovedì 26 marzo 2009

Roma: Affitti troppo elevati, sfratti per morosità in aumento.


Il problema degli sfratti per morosità a Roma si aggira intorno all’ 80%.
Questo è un dato che deve far riflettere, non si possono pagare affitti sempre più elevati mentre il mercato del lavoro è in crisi, e gli stipendi sono rimasti uguali da anni.
Aver tolto l’equo canone forse è stato un grave errore.
Bisogna intervenire sul problema abitativo a Roma con urgenza e con risposte valide e concrete, iniziando proprio dal regolamentare la giungla degli affitti.
I comitati che si battono per il diritto alla casa svolgono un grande lavoro anche di appoggio morale, oltre che pratico nei confronti delle persone che per causa di forza maggiore si trovano a essere morosi, sono gli unici che si prestano a trovare un alloggio, anche se in occupazione, agli inquilini sfrattati.
Il problema sta interessando anche il ceto medio, non bisogna sottovalutarlo, molte delle persone che si trovano oggi in occupazione fino a poco tempo fa non avrebbero mai pensato di OCCUPARE.

domenica 22 marzo 2009

Dibattito Comunisti: Video-Intervista a Salvatore Cannavò, Sinistra Critica

Salvatore Cannavò, Sinistra Critica, è ospite della decima puntata di Botta e Risposta.

sabato 21 marzo 2009

Per una lista anticapitalista e comunista

Intervista a Gianluigi Pegolo della segreteria nazionale del Prc
di Tommaso Vaccaro
A poco più di settanta giorni dall’election day del 6 e 7 giugno prossimi, il processo di costruzione delle liste del Prc, aperte ad altre realtà della sinistra comunista ed anticapitalista, è in pieno svolgimento. Elezioni europee, ma anche amministrative per 4000 comuni e 73 province italiane. Una sfida importante per Rifondazione comunista, ma più in generale per la sinistra nostrana. Proprio in questi giorni sono in corso gli incontri tra le delegazioni dei movimenti, delle associazioni e delle forze politiche interessate a questo processo, ed i tre delegati del Prc, Gianluigi Pegolo, della segreteria nazionale, Ramon Mantovani e Mimmo Caporusso.
Con Pegolo tracciamo il profilo di questa lista elettorale aperta “alle lotte ed alle vertenze del territorio”con la “convergenza di forze comuniste ed anticapitaliste” che si identificano a livello europeo nel Gue. Non di secondaria importanza il tema delle amministrative, dove le eventuali alleanze di centrosinistra si faranno “solo se poggiano su proposte e pratiche di svolta”.
Quello che Rifondazione propone per le europee è semplicemente un cartello elettorale o processo politico più ampio?
Vogliamo dar vita ad una lista che raggruppi forze anticapitaliste e comuniste sulla base di proposte politiche qualificanti e di un’indicazione precisa per quanto riguarda la scelta di adesione ai gruppi parlamentari europei. I nostri eletti aderiranno al Gue e questo è un elemento vincolante. Ovviamente, per quanto riguarda la prospettiva per il futuro, fra le forze coinvolte vi sono progetti politici diversi, ma ciò non fa venir meno la qualità della proposta elettorale che, a nostro giudizio, qualifica questa lista come l’unica vera di sinistra.
Nell’ambito di questa discussione, quali saranno gli interlocutori politici privilegiati?
Abbiamo in corso trattative con il Partito dei Comunisti italiani, con Sinistra Critica e con Socialismo 2000 di Cesare Salvi. Tengo però a precisare che la lista non vuole caratterizzarsi esclusivamente come convergenza di forze politiche.
In che senso?
Nel senso che la nostra intenzione è quella di dare grande spazio all’espressione di movimenti, associazioni e istanze culturali. Vogliamo, insomma, che in questa lista vi sia una forte rappresentanza della società civile protagonista delle lotte in corso, penso a realtà di fabbriche importanti, ed espressioni delle vertenze territoriali. E’ necessario che il patrimonio di lotta di questo Paese abbia una forte proiezione in questo processo.
Qualcuno paventa, però, il rischio di una riedizione dell’Arcobaleno in chiave ristretta. Come scongiurarlo?
Il grande limite dell’arcobaleno è stato quello di dar vita ad una coalizione elettorale priva di una solida base politica. Basti pensare che su tutta una serie di temi vi erano differenze non di poco conto. Mi riferisco alla politica internazionale e allo stesso ruolo dell’Europa. Ma si potrebbero citare altri temi. Accanto a ciò, vi era un’evidente differenza d’idee sui rapporti da tenere col centrosinistra. L’Arcobaleno, inoltre, si presentava con un simbolo sconosciuto e come l’avvio di un processo che azzerava le singole identità e in particolare quella dei comunisti. Che quell’esperimento si sia concluso con un disastro era prevedibile, anche se forse non nella dimensione con cui si è prodotto.
Non tutti però danno questo giudizio…
Quello che è paradossale è che ancor oggi, infatti, qualcuno intende ripercorrere quella strada. Mi riferisco alla lista ‘Sinistra e Libertà’ che, non solo presenta i medesimi limiti dell’Arcobaleno, ma ne aggiunge degli altri.
A cosa ti riferisci?
All’annuncio che gli eventuali eletti al parlamento Ue, entreranno in gruppi diversi. La nostra lista, invece, ha un programma chiaro e alternativo alle politiche sostenute in questi anni in sede europea ed anche simbolicamente avrà un identità forte.
A proposito del simbolo, è stato più volte ripetuto che si “partirà” da quello di Rifondazione. Che significa?
Significa che offriamo agli elettori un riferimento riconoscibile nella quale ci si possa facilmente identificare. Naturalmente, proprio perché puntiamo sulla convergenza più ampia possibile di forze anticapitaliste e comuniste, diamo per scontato che non vi sarà la presentazione integrale del simbolo di Rifondazione perché dovrà essere riconosciuta la partecipazione di altri soggetti.
Sulle amministrative la partita politica è ancora più complessa, soprattutto per quanto riguarda le eventuali alleanze di centrosinistra. Come si muoverà il Prc su quel versante?
L’impegno sulle amministrative sarà molto consistente perché sono coinvolti la maggioranza dei comuni e delle province italiane. Rifondazione in molte realtà faceva parte di coalizioni di centrosinistra e la difficoltà nel riproporle è oggi ancor più evidente alla luce degli slittamenti moderati del Pd. Basti pensare alle aperture all’Udc, agli scivoloni filo-leghisti dei sindaci sceriffi ed al coinvolgimento, soprattutto in alcune realtà, di esponenti del Partito democratico in vicende giudiziarie. Oggi più di ieri, quelle alleanze sono possibili solo se poggiano su proposte e pratiche di svolta. Per questo abbiamo affermato più volte che la nostra base sono i contenuti come vero elemento discriminante.

Nel caso in cui non fossero possibili quelle convergenze, daremo vita ad alleanze alternative cercando nei movimenti e nelle altre forze di sinistra i nostri interlocutori.

venerdì 20 marzo 2009

La nazionalizzazione delle banche. Mistificazione e realtà. L'attualità di una rivendicazione rivoluzionaria

"documento di Marco Ferrando"

Il PCL è stato l’unico partito della sinistra a sollevare pubblicamente , nella stessa campagna delle elezioni politiche, la rivendicazione della nazionalizzazione delle banche.
Quando sollevammo questo tema, appena 10 mesi fa, incontrammo una reazione generale di incredulità, scetticismo, o addirittura irrisione. E non solo negli ambienti borghesi liberali, com’è naturale. Ma nell’ambito stesso della sinistra e dei suoi stati maggiori. L’obiezione borghese, ancora imbevuta dell’ipocrisia “liberista,, ci accusava di intollerabile “statalismo”. Gli stati maggiori delle sinistre (PRC- PDCI-SC) irridevano, con sufficienza, al nostro “astratto propagandismo ideologico, che non si confrontava con la realtà”. Ed in effetti..”la realtà” di allora vedeva tutte le sinistre votare un regalo di 10 miliardi di euro alle banche ( tra cuneo fiscale del 2006 e taglio IRES del 2007), pur di compiacere un governo Prodi e un PD che vantavano il sostegno dei principali banchieri. La parola d’ordine della nazionalizzazione delle banche non poteva che suonare lunare alle orecchie del loro mondo.

Da allora sono passati solo 10 mesi. E sull’onda della grande crisi del capitalismo internazionale, l’intero vocabolario ideologico del mondo appare capovolto. Il tema della nazionalizzazione delle banche entra prepotentemente nel dibattito pubblico dominante. Molti vecchi campioni del liberismo borghese si scoprono improvvisamente statalisti, e plaudono all’”intervento pubblico” nel sistema creditizio. Mentre gli stati maggiori della sinistra, totalmente frastornati e politicamente a pezzi, ripetono come un disco rotto il vecchi rosario “antiliberista” col rischio di accodarsi alla truffa delle nazionalizzazioni borghesi : incapaci, ieri come oggi, di una propria proposta indipendente all’altezza della crisi.

LIBERISMO E STATALISMO. IL LINGUAGGIO DELLA CONFUSIONE

La riscoperta ideologica, dal versante borghese, del tema “nazionalizzazioni”, dopo 20 anni di ubriacatura liberista, è tuttaltro che irrilevante. In un certo senso è la misura indiretta della profondità della crisi capitalistica. Il combinarsi della crisi finanziaria e bancaria con la recessione internazionale, e la straordinaria rapidità della dinamica della crisi, hanno scosso profondamente la borghesia mondiale, ponendola di fronte a compiti nuovi, su un terreno largamente inesplorato dalle sue ultime generazioni.

La svolta borghese non è affatto rappresentabile come passaggio “dal liberismo allo statalismo”, se non nello schermo distorto dell’ideologia. Occorre diradare il fumo dell’ideologia per evidenziare la realtà. Nella realtà, la borghesia non è mai stata “liberista” in passato, come non è diventata “socialista”oggi. La borghesia difende sempre, ieri come oggi, in forme diverse e con diversi strumenti, il proprio sistema di oppressione e di sfruttamento. Nella cosiddetta era “liberista”, gli Stati imperialisti hanno svolto un ruolo centrale nella liberalizzazione dei mercati finanziari, nelle privatizzazioni bancarie, industriali e dei servizi, nell’abbattimento del prelievo fiscale sui profitti, nello smantellamento delle protezioni sociali dei lavoratori, nell’imporre ai Paesi dipendenti la rimozione di ogni protezione del loro mercato interno ( mentre erigevano barriere doganali a difesa del proprio mercato dai prodotti di quei Paesi). Il “liberismo” contro i lavoratori e i popoli oppressi era solo il manto ideologico delle politiche statali del capitalismo, entro una nuova competizione mondiale tra Stati. Specularmente, nella nuova fase statalista che si va aprendo, ogni intervento dello Stato nell’economia capitalista non solo non ha nulla di “socialista” o di “progressivo”, ma serve a tutelare il mercato capitalistico dagli effetti rovinosi della sua crisi planetaria. Entro un nuovo quadro di relazioni mondiali segnato dal declino americano e dalla rottura dei vecchi equilibri. Lo “statalismo” o addirittura i civettamenti linguistici con il “socialismo” (“siamo tutti socialisti” titolava New Sweek), sono solo la copertura ideologica delle politiche di salvazione del capitalismo contro i lavoratori e tutte le sue vittime sociali.

LE NAZIONALIZZAZIONI BORGHESI: LA SOCIALIZZAZIONE DELLE PERDITE

La questione “nazionalizzazioni” si pone in questo quadro. Lo sdoganamento borghese di questo termine “proibito” si combina con il rovesciamento di segno del suo significato. Le nazionalizzazioni di cui parlano, in forme diverse, Obama e Merkel, Sarkosy e Berlusconi, Brown e Zapatero, non espropriano banche ma socializzano le loro perdite, ad esclusivo vantaggio dei loro profitti e del loro rilancio . E a carico di lavoratori e contribuenti.

A tutte le latitudini del mondo, le grandi banche capitaliste, protagoniste della ventennale rapina finanziaria, hanno due problemi di fondo: liberarsi dei titoli tossici e ridurre il rapporto tra debito e capitale. Gli Stati e i governi capitalisti di ogni colore si affannano a risolvere questi problemi.

Le forme del loro intervento sono tra loro molto diverse.

Lo Stato può prestare risorse pubbliche alle banche private, o attraverso l’intervento della banca centrale, o attraverso l’acquisto di obbligazioni bancarie ( come i Bond di Tremonti). Una pratica di cui hanno usufruito sinora decine di grandi banche in tutto il mondo ( ma senza risultati..)

Lo Stato può mettere a disposizione delle banche risorse pubbliche sotto forma di “garanzia pubblica dei depositi” dei risparmiatori, al fine di impedire il ritiro dei depositi e di sostenere il valore delle azioni bancarie in Borsa, quindi il patrimonio dei banchieri. E’ ciò che ha fatto in parte il governo Berlusconi con i decreti d’ottobre ( ma le azioni bancarie hanno continuato a calare).

Lo Stato può acquistare i titoli tossici delle banche ( porcherie accumulate con speculazioni e truffe senza confini) e depositarli in una ( o più) cosiddetta “ bad bank”: al fine di ripulire le banche speculatrici e rilanciarle sul mercato. E’ ciò che ha in progetto il decantato governo Obama, con un’operazione calcolata in oltre 1000 miliardi pubblici; è ciò che ipotizza il governo Brown con un investimento di 500 miliardi, e che non escludono i governi tedesco e italiano. E’ l’operazione che è stata fatta in Italia con il Banco di Napoli alla metà degli anni 90. Ed è l’operazione ad un tempo più costosa e più cinica: lo Stato accolla ai contribuenti il costo sociale delle speculazioni per salvare gli speculatori.

Lo Stato può infine acquisire con soldi pubblici pacchetti azionari delle banche in crisi, al fine di allargare il loro patrimonio e salvarle dal fallimento: e può farlo sia con l’acquisizione di quote di minoranza e con azioni prive di diritto di voto ,sia conseguendo in casi particolari la maggioranza azionaria e dunque il controllo pubblico ( come è avvenuto con la Northern Bank in GB).

Sono anch’esse operazioni costose per le risorse pubbliche, e sono a termine: lo Stato risana la banca coi soldi pubblici per poi rivenderla agli speculatori privati, quando la bufera è passata, a vantaggio dei loro profitti.( E’ l’operazione fatta dal governo svedese nel 79). Salvo che oggi la bufera non è ordinaria, ha una dimensione mondiale, e le risorse pubbliche oltre una certa soglia scarseggiano. Sono, come si vede, operazioni di diversa portata su un terreno spesso sperimentale e accidentato, segnato dalla recessione internazionale dell’economia reale, dal rischio default di diversi Paesi dell’Est europeo, dalle contraddizioni esplosive tra i diversi paesi capitalisti. E tuttavia qual è il tratto comune di queste diverse soluzioni? Salvare il capitalismo e i capitalisti dalla loro bancarotta, con risorse sottratte ai salari, alle protezioni sociali, ai servizi pubblici. Sottrarre ulteriori risorse a coloro che hanno sempre pagato per darle a chi non solo non ha pagato mai, ma è il responsabile, da tutti riconosciuto, del grande crak: il banchiere e il capitalista. Chiamare tutto questo “ nazionalizzazioni” è solo la misura dell’ipocrisia borghese. E’ l’eterno tentativo- come diceva Marx- di spacciare per interesse generale l’ interesse particolare della borghesia.

LE SINISTRE: DAL VOTO ALLE PRIVATIZAZIONI ALL’AVALLO DELLE NAZIONALIZZAZIONI BORGHESI

Proprio per questo colpisce l’afasia delle sinistre italiane di fronte a questo scenario. Tutto il riformismo italiano ed europeo ha rimosso da alcuni decenni lo stesso termine “ nazionalizzazione”, persino nella sua torsione riformistica. Nella battaglia interna al PRC, la rivendicazione della nazionalizzazione delle banche, avanzata ostinatamente per 15 anni dalla sinistra rivoluzionaria di quel partito ( futuro PCL), è stata assunta a emblema dell’”estremismo ideologico” da combattere: e non solo dai gruppi dirigenti riformisti, ma dagli stessi dirigenti di Sinistra Critica. “ Ha senso rivendicare solo ciò che è immediatamente ottenibile”, ci hanno spiegato tutti per anni, con aria saccente, contro la rivendicazione delle nazionalizzazioni. Salvo votare, una volta al governo ( o nella sua maggioranza), le..privatizzazioni della borghesia (certo “ottenibilissime” senza sforzo).

Ora che la realtà della crisi capitalistica ha superato il loro limitato immaginario; ora che i circoli borghesi evocano loro stessi le “nazionalizzazioni”, cosa fanno i dirigenti riformisti e centristi? Si accodano “criticamente” alla moda corrente, e avallano “criticamente” le “nazionalizzazioni” della borghesia. La politica economica della nuova amministrazione Obama è salutata dal riformismo italiano con estatica ammirazione: i suoi versamenti stratosferici a grandi imprese e banche sono stati assunti come esempio di intervento pubblico nell’economia e di svolta “antiliberista”. Persino l’evocazione populista di Berlusconi sulle nazionalizzazioni è stata salutata come “una buona idea” da Paolo Ferrero e come “una rivendicazione comunista” dal PDCI, forse con ironia, ma con scarso senso del ridicolo. La proposta testuale del PRC è quella di “acquisire quote di proprietà pubblica” delle banche, e di destinare risorse pubbliche alle imprese “solo in cambio di impegni occupazionali”( v. il volantone di partito al sciopero fiom del 13 febbraio). Ma per quale ragione si dovrebbero spendere soldi pubblici( cioè dei contribuenti lavoratori) per sostenere il patrimonio delle banche, per di più in posizione di minoranza? Per queste misure non serve Ferrero, è sufficiente Brown o Merkel. E quale valore avrebbero gli improbabili “impegni” occupazionali dei capitalisti, a fronte del regalo materiale di nuovi miliardi di euro che Ferrero e Diliberto sarebbero disponibili a concedere loro, alla coda di tutti i politicanti borghesi? I casi di General Motors o di Pegeout o della stessa Fiat non sono sufficientemente eloquenti? . Tanti impegni, tanti soldi pubblici intascati, tanti licenziamenti.

Ma c’è di più: la burocrazia dirigente della CGIL ha sentito il bisogno di dichiarare pubblicamente la propria preoccupazione per l’”autonomia” degli istituti di credito minacciati dall’invadenza “statalista”del governo. Si è schierata con Bankitalia e i banchieri speculatori contro l’invocazione prefettizia di Tremonti. Il che significa che il principale sindacato italiano, nel momento stesso della sua opposizione a Berlusconi è riuscito, in un colpo solo, a difendere i banchieri e a prendere sul serio il Cavaliere, avallando le sue mistificazioni populiste. Come ci si può meravigliare se, nonostante la crisi, il governo continua a raccogliere il ( tragico) consenso di un settore significativo dello stesso mondo del lavoro?

La verità è che la borghesia, a suo modo, si mostra infinitamente più radicale, nel suo stesso linguaggio e propaganda, di chi dovrebbe combatterla. E che una cultura riformista e centrista, impregnata di realismo minimalista e di adattamento alle vecchie regole del gioco, si trova totalmente spiazzata dalla più grande crisi capitalista degli ultimi 80 anni, e dalla stessa disinvoltura della svolta ideologica borghese.

L’ESPROPRIO DELLE BANCHE, QUALE UNICA VERA NAZIONALIZZAZIONE

Questa stessa crisi è invece un’eccezionale occasione storica per l’intervento dei comunisti rivoluzionari. E la questione della “ nazionalizzazione delle banche” è al riguardo paradigmatica. Ad una borghesia costretta a contraddire, nel modo più clamoroso, tutto il corso ideologico iperliberista post89; costretta per la prima volta sulla difensiva – in campo culturale- dalla grande crisi del capitalismo; costretta a nobilitare, controvoglia, la stessa tematica delle nazionalizzazioni, non si può rispondere col vecchio approccio sindacale e minimale, né con l’armamentario culturale “antiliberista”, se non al prezzo di una nuova subordinazione. Si può e si deve rispondere opponendole un’alternativa di sistema, che restituisca alla rivendicazione della nazionalizzazione il suo significato anticapitalista e rivoluzionario.

Si tratta di far leva sul nuovo linguaggio ideologico della borghesia per rivolgerlo contro di essa. Al salvataggio delle banche a spese dei contribuenti va contrapposto il salvataggio dei contribuenti a spese delle banche: non un soldo alle banche; le banche vengano nazionalizzate, senza alcun indennizzo per i grandi azionisti, e sotto il controllo operaio e popolare ( visto che l’indennizzo se lo sono già pagato con decenni di truffe,rapine, mutui usurai..), mentre lo Stato garantirà pienamente ( a differenza degli attuali banchieri) il piccolo risparmio; e le risorse pubbliche così risparmiate saranno investite in salari, protezioni sociali, servizi pubblici, in tutte quelle voci sociali falcidiate per vent’anni in ogni finanziaria, su pressione delle banche. Una grande banca pubblica, sotto controllo sociale, con dirigenti eletti e revocabili, pagati col salario di un operaio medio,sarà uno strumento formidabile per riorganizzare dalle fondamenta l’intera economia e società.

Come si vede, non si tratta affatto di un approccio astratto e incomprensibile. Al contrario: tutte le rivendicazioni immediate dei lavoratori di fronte alla crisi; tutte le rivendicazioni di difesa del lavoro, di assunzione dei precari, di estensione del diritto di cassa integrazione all’insieme dei lavoratori con l’80% del salario, di reale indennità per tutti i disoccupati, di difesa ed estensione dei servizi pubblici e delle opere di pubblica utilità ( casa, scuola, sanità..), riconducono all’interrogativo naturale: chi paga?.E non c’è risposta possibile a questo interrogativo senza chiamare in causa l’immensa mole di risorse pubbliche oggi destinate alla borghesia e in primo luogo alle banche. A sua volta non è possibile privare le banche di quelle risorse, senza una loro nazionalizzazione-esproprio sotto controllo operaio e popolare. Per questo la tematica delle nazionalizzazioni può e deve acquisire, nella crisi, un carattere popolare.

IL GOVERNO DEI LAVORATORI, QUALE UNICA VERA SOLUZIONE

La prospettiva del governo dei lavoratori è sottesa organicamente, alla rivendicazione delle nazionalizzazioni. Il PCL non chiede a Berlusconi, come non lo chiederebbe a Prodi, di espropriare i banchieri. Tutta la propaganda e l’agitazione sulla rivendicazione della nazionalizzazione ha un senso esattamente opposto: ricondurre alla necessità di un governo operaio e popolare, capace di liberare la società dalla crisi del capitalismo e dalla spazzatura politica e morale delle sue classi dirigenti. Di ogni colore.

Questo resta il punto decisivo e discriminante. Tutti coloro che,a sinistra, parlano oggi di nazionalizzazioni ( dopo aver votato ieri le privatizzazioni), senza porre la prospettiva di un governo operaio e popolare, fanno loro sì, pura propaganda, subalterna e ingannevole. Continuano a illudere i lavoratori, in forme nuove, su un possibile capitalismo “sociale” e “riformato”, e su una funzione neutrale dello Stato. Per di più alla coda dell’emergente statalismo borghese, e di fronte alla catastrofe capitalistica.

La nostra proposta è opposta. La rivendicazione della nazionalizzazione delle banche, senza indennizzo, e sotto controllo dei lavoratori, è apertamente contrapposta allo statalismo della borghesia perchè vuole liberare i lavoratori da ogni vecchia illusione riformista : rivendica l’esproprio del cuore stesso del capitale finanziario, delle sue proprietà, del suo potere ; afferma l’istanza di un potere nuovo e autonomo ( il “controllo operaio”), apertamente alternativo al comitato d’affari dello stato borghese, alla sua burocrazia, al suo funzionariato. Se il ministro Tremonti evoca il controllo prefettizio sulle banche private, (col plauso di Di Pietro), per chiedere loro di dare più soldi ai capitalisti, il PCL propone il controllo dei lavoratori su un’unica banca pubblica,per dare più soldi alla maggioranza della società. Solo un governo dei lavoratori, che rovesci il dominio dei capitalisti, potrà realizzare questa misura.

giovedì 19 marzo 2009

Intervista a Giorgio Cremaschi, Segretario Nazionale FIOM-CGIL

Intervista a Giorgio Cremaschi, Segretario Nazionale FIOM-CGIL.
Si parla della crisi economica Europea, e del ruolo del sindacato a livello nazionale.


ARCOIRIS TV
webmaster: webmaster@arcoiris.tv

Vi inviamo, seppure con un certo ritardo, la sintesi dei temi in discussione della riunione del Gruppo di continuità della Rete28Aprile, (...)
tenutasi ai primi di marzo. Riteniamo il testo utile, in particolare per la preparazione della prossima Assemblea nazionale.
Cordiali saluti.
Giorgio Cremaschi

Temi della discussione nel Gruppo di continuità nazionale
Verso l’assemblea nazionale della Rete
Verso il congresso della Cgil

Dopo il rifiuto della Cgil di sottoscrivere l‘intesa separata del 22 gennaio sul sistema contrattuale, mentre la crisi si aggrava e dentro la crisi cresce e si incattivisce l’attacco ai diritti e all’occupazione, vengono al pettine tutti i nodi.
La crisi economica è sicuramente la più grave dal 1929, è la crisi di un modello di sviluppo, quello fondato sulla cosiddetta globalizzazione. Non siamo in grado in questo momento di discutere se è una crisi strategica del sistema o semplicemente quella di una sua fase di crescita, peraltro durata trent’anni. Resta il fatto che il meccanismo della globalizzazione finanziaria e della totale libertà di manovra dei capitali si è rotto. Quando l’economia ripartirà l’intervento dello stato, le regole, i rapporti di forza tra economia e paesi, saranno profondamente cambiati.
Per questo riteniamo necessario come Rete arrivare a un momento di riflessione strategico con economisti anticapitalisti al fine di giungere a definire un programma e una piattaforma di lungo respiro che affronti la crisi.
Nell’immediato il punto centrale che abbiamo di fronte è che la crisi viene usata dal governo, dalle imprese, dal sistema economico, per fare definitivamente i conti con i diritti sociali e la contrattazione. Al di là delle chiacchiere la sostanza è che la crisi è un’occasione per distruggere ciò che è rimasto dello stato sociale e dei diritti contrattuali. Sembra un paradosso, ma gli stessi temi della flessibilità, della precarietà, della privatizzazione, che sono tra le cause scatenanti della crisi economica, vengono continuamente riproposti come strumento per affrontarla. Non è un caso che tutto il confronto sia concentrato sulle misure di assistenza a chi perde il posto, cosa anche necessaria, ma che nella nostra cultura e nella nostra esperienza è solo l’ultimo gradino che si affronta dopo aver misurato tutte le possibilità di difesa dell’occupazione. E’ significativo che nessuno parli di modifica delle leggi sulla precarietà e che per i migranti anche le richieste minimali di attenuazione del tallone di ferro delle espulsioni, non vengano accettate. La riduzione d’orario, che in tutti i periodi di crisi è stata all’ordine del giorno del confronto sociale, oggi è cancellata dall’agenda. Insomma, licenziamenti, taglio dei diritti ed elemosine di stato sono il perimetro nel quale si dovrebbe svolgere il conflitto sociale. L’intervento pubblico c’è e ci sarà sempre di più, ma a sostegno degli equilibri sociali attuali, a sostegno delle classi dirigenti delle banche e delle imprese, per i poveri, per i lavoratori ci sarà sempre di più il mercato con un po’ più di assistenza, ove non costi troppo. Nella sostanza si potrebbe dire, scherzando un po’ ma non troppo, che per i ricchi c’è il socialismo e per i lavoratori e i poveri c’è la brutale competizione di mercato. Questo è il modo concreto con cui stanno affrontando la crisi.
In Italia questo significa un attacco ancor più duro al salario e in generale sul costo del lavoro. Abbiamo un degrado crescente della condizione del lavoro che fa sì che, nonostante la caduta dell’occupazione, il livello degli infortuni gravi e mortali sia sostanzialmente inalterato. Abbiamo l’uso della crisi per terrorizzare i lavoratori con autoritarismo e aggressione alle più elementari libertà. Si opera per dividere le persone, per metterle in competizione l’una con l’altra. Da un lato c’è la cassa integrazione, dall’altro ci sono gli straordinari, questo avviene nelle stesse aziende, negli stessi grandi gruppi, negli stessi territori. La guerra tra i poveri è uno strumento fondamentale di governo di questa crisi e l’attacco ai “privilegi” nel mondo del lavoro, cioè al lavoro pubblico, al lavoro privato a tempo indeterminato, agli occupati rispetto ai disoccupati, ai precari dipendenti rispetto ai Co.co.co., ai migranti, alle donne, propone in continuazione la contrapposizione dei diritti. Il principio fondamentale è “se affondi tu mi salvo io”, e così si precipita nel disastro.
L’iniziativa della Rete parte dal presupposto che su questo piano si può giungere a una sconfitta drammatica. Ci sono tutte le condizioni per lottare, anzi in molte realtà stanno sorgendo importanti movimenti, da Pomigliano a Torino. Ma senza un programma e una determinazione profonda dei gruppi dirigenti, il rischio è quello del logoramento e della frantumazione.
Per noi il no della Cgil il 22 gennaio all’accordo sul sistema contrattuale non è né solo un salvataggio sull’orlo di un burrone, né tantomeno una parentesi, ma il possibile atto costituente di una nuova fase del sindacalismo di classe in Italia.
Questo è il punto e questo è il terreno sul quale c’è un’evidente differenziazione dentro la stessa Cgil. Non siamo più nel 2002. E’ cambiata la realtà, sono più arroganti e forti le controparti, ancora di più lo è il governo di destra in assenza di un’efficace opposizione, mentre Cisl e Uil sono conquistate all’idea del sindacalismo corporativo e aziendalistico, della complicità con le imprese. In questo quadro a ogni passo, in ogni momento, c’è la possibilità di farsi totalmente assorbire.
Non basta quindi la non firma agli accordi negativi, non basta davvero il no, occorre costruire una strategia contrattuale e di lotta che, anche senza gli altri sindacati, metta in discussione tutto il sistema di organizzazione del lavoro, di diritti, di salario, che si è imposto in questi anni.
La base dell’iniziativa è la resistenza al taglio dell’occupazione, alla precarizzazione, all’attacco ai diritti e al salario. Ma questa resistenza ha lo scopo di portare a un cambiamento dei rapporti di forza. Deve porsi l’obiettivo di usare la crisi, cioè l’incapacità del modello economico liberista di mantenere le proprie promesse di benessere e sviluppo, per rivendicare potere e salario, redistribuzione del reddito e intervento pubblico.
Anche la più elementare delle resistenze oggi ha bisogno di una piattaforma radicale che la sostenga ed è per questo che la concertazione, così come auspicata e vissuta dalla Cgil, non è più riproponibile. L’alternativa netta è quella tra la complicità su cui si sono attestate Cisl e Uil, e il conflitto sociale costruito con consapevole antagonismo. In mezzo non c’è più niente.
Questa è oggi la forza di Berlusconi, che può in fondo occupare tutto lo spazio del cosiddetto riformismo, perché in realtà quel riformismo è stato in questi anni solo l’adattamento ai mercati e alla competizione globale. L’alternativa a questo, è un altro modello sociale, la ricostruzione del potere delle lavoratrici e dei lavoratori.
E’ giunto quindi il momento che nella Cgil le diverse ipotesi con cui affrontare la crisi si misurino esplicitamente. Quello che sta avvenendo nelle piattaforme contrattuali, con categorie come gli alimentaristi che sottoscrivono piattaforme unitarie, che nei fatti applicano l’accordo separato, cosa che avviene in maniera più sofisticata anche nella Slc. L’andamento in ordine sparso della contrattazione, con episodi di resistenza e accordi separati, o di convergenza verso le posizioni altrui. L’assenza di una pratica comune sul terreno della democrazia, per cui la richiesta della Cgil di referendum sull’accordo separato non si traduce in un’iniziativa adeguata su tutti i fronti della contrattazione. Più in generale la debolezza programmatica speculare a quella dell’opposizione politica. In sintesi, il fatto che la Cgil, che positivamente ha detto no all’attacco al contratto nazionale e allo stravolgimento delle regole contrattuali, è la stessa che ha condotto la politica del meno peggio di questi anni e che non è stata in grado di costruire una critica al crollo del governo di centrosinistra;il fatto che la Cgil abbia detto dei no fondamentali per i diritti del lavoro non comporta automaticamente che questa organizzazione sia in grado di costruire la piattaforma e le pratiche per trasformare i no in un’azione positiva e di lunga durata.
Per questo bisogna accelerare la battaglia congressuale, in qualche modo farla già partire. Al congresso della Cgil si confronteranno, al di là di tutte le discussioni, l’ipotesi del ritorno a casa con Cisl e Uil - per capirci un modello Alitalia in grande - oppure quella che fa del no all’accordo separato la base per una strategia di conflitto, di rivendicazioni, di autonomia e indipendenza.
Per questo la Rete deve ripartire con forza ovunque e deve confermare l’obiettivo di costruire nel congresso una mozione alternativa all’ipotesi riformista. Questo è il nostro punto fermo, non mediabile. Partendo da questo punto di vista siamo interessasti a costruire proposte e alleanze con tutte le anime e le esperienze delle sinistre sindacali della Cgil, per giungere a un impegno comune nel congresso. Anche se le date non sono ancora fissate, oramai il congresso è alle porte. E’ probabile che ci sia qualche slittamento per la contemporaneità del congresso del Partito Democratico, ma sicuramente alla fine dell’anno il percorso congressuale inizierà.
Per questo dobbiamo essere pronti e organizzati dando concretezza a tutte le decisioni che abbiamo assunto in questo periodo.
L’Assemblea nazionale della Rete, prevista per il 24 aprile a Milano, sarà un appuntamento decisivo, al quale inviteremo il Segretario generale della Fiom, Lavoro società e tutti coloro che sono interessati a partecipare alla discussione nella sinistra sindacale. In quella sede lanceremo il nostro percorso congressuale, cominciandone ad elaborare i temi di fondo che sono quelli che emergono dalle lotte di questi mesi.
Per questo è necessario un impegno straordinario delle compagne e compagni che finora hanno creduto nel progetto della Rete. Proprio oggi, che i fatti ci danno ragione, non sulle piccole cose ma sulle questioni di fondo, stentiamo a costruire una forza in grado di rispondere alla domanda e all’interesse diffusi che registriamo tra i militanti della Cgil, tra le lavoratrici e i lavoratori. Per questo dobbiamo darci da fare, più che nel passato, organizzando una vera direzione collettiva, con responsabilità precise, in grado di gestire questa fase. Su tutto questo bisogna semplicemente passare dalle parole ai fatti.

Rete28Aprile