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lunedì 27 aprile 2009

Perchè il 25 aprile non può essere una festa di tutti. Il caso Romualdi

La storia è uscita fuori dagli archivi per merito di un regista e documentarista parmense, Giancarlo Bocchi e racconta la triste storia di Giordano Cavestro su “Alias”, il supplemento del “Manifesto”. Il giovane partigiano comunista fu fucilato a Bardi il 4 agosto 1944, dopo che una telefonata fra Mussolini e il futuro deputato al Parlamento italiano ed europeo Pino Romualdi (allora vice-segretario del partito fascista di Salò) ne decise la sorte.
Romualdi si adoperò alacremente, come era abituato a fare, per spezzare la vita del giovane patriota e di altri antifascisti Raimondo Pelinghelli, Vito Salmi, Nello Venturini ed Erasmo Venusti. L’infame eccidio fu compiuto per rappresaglia dopo l’uccisione di quattro fascisti repubblichini.
La telefonata di Mussolini a Romualdi fu intercettata da un “gruppo di ascolto”, composto, fra gli altri, da due antifascisti che lavoravano alla “Timo”, come si chiamava in quel tempo la compagnia telefonica. I due – nomi di battaglia Otto e Vladimiro – intercettavano le telefonate per scoprire in anticipo le rappresaglie e gli agguati dei nazi-fascisti e mettere così al sicuro la popolazione e gli antifascisti. Furono denunciati e torturati dalla Gestapo e soltanto Otto e Vladimiro sopravvissero e ora hanno raccontato le loro drammatiche vicende.
“La telefonata era una storia sepolta della Resistenza, una delle tante che ancora oggi attendono di essere conosciute. E’ importante che venga raccontata perché Romualdi fu un personaggio di primo piano della politica italiana del dopoguerra, uno dei padri fondatori del Movimento sociale italiano, deputato nazionale ed europeo. E’ importante perché dimostra che chi intende farsi beffa della storia deve stare attento, prima o poi la storia esce nella sua verità” dice ora Bocchi ed aggiunge: “Credo che questa sia la migliore risposta a chi fa bieco revisionismo e a chi, come il ministro La Russa, vuole equiparare i militari di Salò ai martiri per la Libertà”.
Non solo Romualdi ma numerosi leader del disciolto Movimento Sociale Italiano, fra cui Giorgio Almirante, ancora osannato dagli attuali post-fascisti, si resero responsabili di rappresaglie e fucilazioni di antifascisti. Sarebbe il caso di ricordarsene, soprattutto il 25 aprile, “festa condivisa”.

Il Manifesto dei Resistenti

La nostra storia non è cominciata adesso. Un Manifesto comune per tutti i Resistenti.

Noi Resistenti abbiamo cominciato presto a guardare in faccia il nostro vero nemico. Eravamo già attivi nella resistenza spagnola che mise in fuga i mamelucchi di Murat e fece impazzire i generali di Napoleone. Ci riconoscerete dipinti da Goya ne "La fucilazione alla montagna del Principe Pio" e nella urla di gioia che accompagnarono la fuga dei francesi nel 1813. Nasce da qui l'onda lunga che ha portato alla Repubblica del '36 e alla resistenza antifranchista fino ai nostri giorni.
Ci siamo aperti la strada con le armi in pugno insieme a Garibaldi, mentre cadeva la Repubblica romana ed Antonio Brunetti - Ciceruacchio per il suo popolo - insieme al figlio Lorenzo cadeva sotto il plotone di esecuzione. Ma, come fece Gasparazzo contadino indomito, non ci siamo fidati dei garibaldini di Nino Bixio che in Sicilia fucilarono la nostra gente a Bronte, ed insieme a Gasparazzo ci siamo dati alla macchia rendendo per anni la vita difficile ai piemontesi, ai nuovi padroni e ai proprietari terrieri.
A metà dell'ottocento ebbero tanto paura delle nostre barricate che il prefetto Haussman dovette rifare Parigi da capo a piedi. Sventrarono i vicoli e costruirono i grandi boulevard come "strade di una caserma opportunamente ampliata" perché i padroni temevano di incontrare in strade troppo strette i Resistenti come Charles Delescluze o Flourens. Venti anni dopo le barricate infiammarono di nuovo la Parigi della Comune e noi Resistenti fummo conosciuti come "Communards". I soldati del gen. Lacombe furono mandati contro di noi a Montmartre, ma si rifiutarono di sparare sul popolo ed alla fine rivolsero i fucili contro il generale stesso, sono formidabili Resistenti coloro che sanno comprendere chi è il vero nemico.
Ci scatenarono contro altri soldati e i cannoni messi a disposizione dai prussiani, ci fucilarono a migliaia o ci deportarono alla Cayenna. Eppure, come disse l'uomo di Treviri - la testa migliore degli ultimi due secoli - "dopo la Pentecoste del 1871 non ci può essere né pace né tregua tra gli operai francesi e gli appropriatori del prodotto del loro lavoro". Capite adesso perché lo sciopero dei lavoratori in Francia andò così bene anche nel 1995?
Ma noi Resistenti non siamo e non eravamo solo sulle barricate e nelle officine delle grandi metropoli. Nascevamo e crescevamo anche nelle nuove colonie di quello che diventerà l'imperialismo moderno. Eravamo nel deserto algerino e sui Monti dell'Atlante con Abd el Kader che tenne alla larga i turchi e umiliò per anni i legionari del generale francese Bugeaud.
Eravamo nascosti nel pubblico e ci tormentavamo le mani, impotenti in quella occasione, quando gli invasori italiani, nell'ottobre del 1912, fucilarono a Tripoli l'arabo Husein. Ci vollero tre scariche della fucileria del plotone d'esecuzione per vederlo cadere a terra. Husein e i suoi Resistenti avevano fatto impazzire i militari italiani nelle uadi o sulle strade carovaniere. Per rabbia e per rappresaglia gli italiani fucilarono centinaia di persone e ne deportarono 3.053 nelle isole Tremiti, a Ustica, a Favignana, a Ponza e a Gaeta.
"Non ci inganna che si dica un'epoca di progresso. Quel che dicono è invero la peggiore delle menzogne" tuonavano i versi del poeta arabo Macruf ar Rusufi " Non li vedi tra l'Egitto e la Tunisia violare con stragi e massacri il sacro suolo dell'Islam? E non sia addossata la colpa ai soli italiani ma tutto l'occidente sia considerato colpevole".
Nelle colonie pensavano di aver vinto, legando i sepoys alle bocche dei cannoni e facendo fuoco come fecero gli inglesi in India o fucilando e impiccandoci a decine come fecero gli italiani in Libia. Ma gli arabi hanno un cuore indomito e venti anni dopo il Leone del deserto, Omar Al Muktar tornò a seminare il panico tra i soldati e le camicie nere che occupavano la Libia. Il generale fascista Graziani, quello che aveva massacrato con i gas gli etiopi, fece impiccare Omar Al Muktar. Ma il suo fantasma inquieta così tanto gli eredi di Graziani da impedire che in Italia si possa vedere il film che parla della sua storia. Fanno paura anche da morti i Resistenti!!!
Mentre il capitalismo si annunciava con i mercanti, noi Resistenti eravamo già dovunque e da tempo. Avevamo viaggiato sulle loro navi con le catene ai piedi e ai polsi. A cominciare la resistenza furono proprio gli schiavi neri deportati in Brasile che fondarono la loro repubblica a Quilombo e resistettero fino al 1697 contro i colonialisti portoghesi. Cento anni dopo, i nipoti di quegli schiavi, diventati creoli o rimasti neri come i loro antenati, si ribellarono a Bahia, la disinibita città degli incanti e del candomblé cantata dalle pagine di Jorge Amado. Ma eravamo anche più a Nord, eravamo nella selva e sulle Ande con la resistenza di Tupac Amaru. Gli spagnoli lo hanno squartato con i cavalli per smembrarne il corpo ma duecento anni dopo il suo nome ha fatto tremare i governanti corrotti di Lima e Montevideo chiamando alla lotta nella selva e nelle città.
Eravamo a cavalcare al fianco di Artigas nelle grandi pianure della Banda Oriental ed eravamo al fianco del creolo Simon Bolivàr tra selve e paludi per gridare a schiavi, creoli, indigeni e popoli che volevamo una sola nazione, "la Nuestra America. E potevate vederci insieme a José, Antonio e Felipe, senza scarpe e senza saper leggere quando a Morelos Emiliano Zapata lesse il programma che scosse le montagne e mise i brividi ai latifondisti. Tante volte abbiamo resistito, accerchiati dai rurales e dai federales, tante volte li abbiamo umiliati trasformando le sconfitte in vittorie. E ci avete visto anche sessanta anni dopo. Eravamo di nuovo là, nel Guerrero, a Oaxaca, nei Loxichas a fare scudo a Lucio Gutierrez, vendicando con la coerenza tra parole e fatti gli studenti massacrati a Città del Messico o il lento genocidio di indios e campesinos. E venti anni più tardi eravamo tra quelli che dopo il massacro di Aguas Blancas giurarono di fargliela pagare agli assassini.
Eravamo in Bolivia con l'acqua fino alla cintura al guado del Yeso quando l'imboscata dei militari uccise sette di noi tra cui Tamara Burke "Tania". Diciotto giorni dopo nel canalone di "El Yuro" veniva ferito e poi assassinato Ernesto Guevara detto "Il Che" insieme al Chino e a Willy. Quando due anni fa ci siamo rivoltati a Cochabamba contro la privatizzazione dell'acqua, avevano la sua immagine sulle nostre bandiere, la stessa immagine e le stesse bandiere che sventolano sulle terre occupate del Brasile dei Sem Terra, nelle zone liberate dalla FARC in Colombia tra i piqueteros in Argentina. I militari, gli jacuncos o quei perros degli "aucisti", sentono un brivido lungo la schiena quando invece di indios e campesinos impauriti si trovano di fronte i Resistenti.
Ci avrete visto anche più a Nord, ma non ci avete riconosciuto. Eravamo sulle sponde del Rosebud ed avevamo il viso pitturato con i colori di guerra quando insieme al capo Gall abbiamo difeso i teepee degli Hunkpapa e dei Santee dai soldati in giacca blu del colonnello Reno. Li abbiamo battuti e messi in fuga nel giugno del 1876 permettendo così alle altre tribù di sconfiggere il generale Custer a Little Big Horn. Nelle riserve o nella cella di Leonard Peltier ancora si racconta della nostra resistenza.
Ed eravamo ben presenti tra i siderugici dello sciopero di Homestead quando furono messi in fuga gli agenti assoldati dall'agenzia Pinkerton e i padroni dell'acciaio scoprirono che gli immigrati, diventati operai, sapevano unirsi e tenere duro.
E quasi settanta anni dopo i poliziotti bianchi impallidirono quando i nostri fratelli neri opposero resistenza nel ghetto di Wyatt o misero a soqquadro il tribunale di Soledad e le celle di Attica e S. Quintino. George, Dramgo e Jonathan Jackson sono stati un incubo per l'America dei Wasp, bianchi, anglosassoni e protestanti, di conseguenza....razzisti. Mumia Abu Jamal é ancora vivo perché i Resistenti non mollano tanto facilmente, hanno la pelle dura e sanno guardare ben oltre le sbarre della loro cella.
Ma le pagine più belle della nostra storia di Resistenti le abbiamo scritte nel cuore dell'Europa messa a ferro e fuoco dal nazifascismo. Le abbiamo scritte tra le macerie della Fabbrica di Trattori a Stalingrado. "I nazisti, non potendo prenderci vivi volevano ridurci in cenere" ha scritto Aleksej Ockin il più giovane di noi. Insieme a lui ed a noi c'erano Stepan Kukhta e il vecchio Pivoravov veterano cinquantenne. Li abbiamo tenuti in scacco per mesi e mesi e alla fine li abbiamo battuti. La nostra resistenza diede coraggio a tutti gli altri e accese il fuoco che portò le nostre bandiere a sventolare fin sopra il tetto del Reichstag di Berlino. Eravamo invincibili, eravamo gli eredi di Kamo, che fece impazzire la polizia zarista e fornì quanto serviva alla rivoluzione dell’Ottobre. “Il mio insostituibile Kamo” diceva Ulianov preparando il primo assalto al cielo.
Ma eravamo anche a Varsavia, nascosti dopo aver esaurito le munizioni nelle fogne e nelle cantine del ghetto. Eravamo anche lì, insieme a Emmanuel Ringelbaum e a Mordechai Anielewicz che si suicidò per non arrendersi ai nazisti che stavano rastrellando il ghetto in rivolta. Resistenti per sopravvivere alla deportazione e ai campi di concentramento ma anche per riscattare la vergogna dei collaborazionisti dello Judenrat.
Ma eravamo anche nel cuore della Jugoslavia quando sulla Neretva abbiamo umiliato le armate dei nazisti, dei fascisti e degli ustascia croati mandate ad annientarci. Ivo Lola Ribar hanno dovuto ucciderlo e così Joakim Rakovac, ma i Resistenti jugoslavi dimostrarono ai nemici e agli amici che sapevano farcela da soli.
Per anni serbi, croati, sloveni, bosniaci hanno saputo combattere fianco a fianco, per anni abbiamo sfidato la storia tenendo insieme un paese che volevano lacerato. Eravamo pronti anche alla fine del secolo scorso a resistere contro i contingenti inviati dalla NATO ma i dirigenti scelsero altre strade, scelsero la strada che porta in occidente, la stessa che ha mandato in frantumi il nostro paese.
"Banditi" così ci chiamavano in Italia i nazisti e i fascisti ma la gente era con noi Resistenti. Erano con noi i ferrovieri e gli operai di Milano, Genova e Torino, erano con noi i popolani della periferia romana e i contadini emiliani o dell'Oltrepò pavese. C'è una canzone che narra di come ancora oggi i fascisti temano il fantasma del partigiano Dante Di Nanni che gira fischiettando per Milano. "Cammina frut" scriveva Amerigo che fu Resistente sul fronte difficile della frontiera con l'Est. E piano piano eravamo ovunque: Maquis in Francia, partigiani nella pianura belga e olandese o sulle montagne greche.
Tanti di noi si erano "fatti le ossa" nella guerra di Spagna, affrontando le armate franchiste, i legionari fascisti e i bombardamenti tedeschi. Con l'immagine delle rovine di Guernica negli occhi, abbiamo resistito oltre ogni limite, lasciati soli dalle democrazie europee che temevano il nazifascismo ma temevano ancora di più la rivoluzione popolare e l'onda lunga dell'ottobre sovietico. Quando finì la guerra non eravamo tutti convinti che fosse finita veramente. In Emilia-Romagna – come dice Vitaliano che fu partigiano e vietcong - non consentimmo ai fascisti di cavaresela a buon mercato e in Grecia resistemmo con le armi in pugno contro gli inglesi e gli americani che ci volevano, noi che avevamo combattuto contro i tedeschi e gli italiani, servi di un nuovo padrone. I Resistenti di Euskadi non considerano ancora chiusa la partita con gli eredi del franchismo in Spagna. Vi meravigliate ancora perchè in Italia, in Spagna e in Grecia ci sono ancora i movimenti di lotta più forti e decisi d'Europa?
Ma noi Resistenti ci siamo diffusi in tutto il mondo. Eravamo Umkomto We Sizwe, la Lancia della Nazione che i negri sudafricani hanno impugnato per decenni contro il regime razzista, siamo stati i Mau Mau e i fratelli di Lumumba, abbiamo saputo essere poeti come Amilcare Cabral, colpendo, subendo e vincendo il dominio coloniale degli inglesi, dei portoghesi e dei belgi. Ce l'hanno fatta pagare lasciandoci un continente devastato dalle epidemie, dalla fame, dai saccheggi delle nostre risorse, ma nelle terre dell'Africa siamo arrivati dopo, ci prenderemo tutto il tempo che ci serve e poi ci riprenderemo tutto ciò che é nostro, a cominciare dalla dignità.
E poi avete cominciati a vederci ovunque, noi Resistenti. L'arrivo della televisione ci ha mostrato come "barbudos" a Cuba, con la kefija dei feddayn in Palestina e in Libano, piccoli e veloci contro i giganteschi marines, il loro napalm e i loro B 52 nelle giungle del Vietnam. L'immagine del piccolo Truong che scorta prigioniero un marines grande come una montagna ha tormentato i sonni degli uomini della Casa Bianca per decenni. I Resistenti non hanno mai molte cose a loro disposizione, ma per noi, come dice Truong Son "il poco diviene molto, la debolezza si trasforma in forza e un vantaggio si moltiplica per dieci".
Per cancellare questa immagine sono quindici anni che gli americani scatenano guerre contro avversari immensamente più deboli e vincono guerre facili.
Ad Al Karameh, nel 1965, eravamo molti di meno e peggio armati dei soldati israeliani ma li abbiamo sconfitti perchè noi Resistenti siamo fortemente motivati e loro non lo erano. Non lo erano neanche gli eserciti arabi messi in piedi da governi indecisi e spesso corrotti che riuscirono perdere due guerre in sette anni.
A Beirut, ad esempio, nonostante le cannonate della corazzata americana New Jersey abbiamo resistito e abbiamo cacciato via prima gli israeliani e poi gli americani, i francesi e gli italiani e poi lo hanno fatto quelli di noi che erano a Mogadiscio. In Nicaragua eravamo giovanissimi e stavamo mangiando carne di scimmia quando abbattemmo un elicottero e prendemmo prigioniero il consigliere della CIA Hasenfus rivelando al mondo l'aggressione statunitense contro un piccolo e coraggioso paese.
E poi sono arrivate le nuove generazioni di Resistenti, come quelli che hanno cacciato dal Libano del sud gli israeliani o che hanno animato la prima e la seconda Intifada. Le loro pietre pesano come macigni sull'occupazione israeliana e sulla cattiva coscienza dell'occidente. C'erano dei giovani e giovanissimi Resistenti nelle giornate di Napoli e di Genova, uno di essi, Carlo Giuliani, è caduto ma il suo volto da ragazzo si è moltiplicato su quelli di migliaia di ragazzi come lui, nuovi Resistenti che hanno bisogno di sapere, di conoscere, di mettere fine agli inganni e alle rimozioni che li circondano, che sfidano i potenti con la determinazione di Rachel Corrie.
Infine, ed è straordinario, sono sorti dei Resistenti anche in Iraq. Hanno sorpreso molti, soprattutto i loro nemici. Il vecchio Pietro ha riscattato in dieci righe la sua vita di tentennamenti scrivendo che la "Resistenza contro l'invasione è la prima condizione per la pace". I Resistenti sono ormai dovunque, sono diffusi in questo mondo reso più piccolo dalla globalizzazione e più insicuro dall'imperialismo e dalla guerra. E' arrivato il momento di unirli, di dargli una identità comune e condivisa, di riconoscerli e farli riconoscere a chi - da Bogotà a Manila, da Nablus a Salonicco, da Seattle a Durban - si è rimesso in marcia per rendere possibile un altro mondo. Fin quando ha agito la legalità formale delle democrazie è stato possibile disobbedire, ma alla guerra e all'imperialismo occorre resistere, improvvisare e disobbedire non basta più, oltre ai corpi serve la testa e una visione aggiornata della nostra storia. Alla democrazia fondata sulle bombe noi opponiamo il regno della libertà, all’idea di libertà fondata sull’homo economicus noi proponiamo all’umanità il passo avanti della liberazione. Per noi, il poco sta diventando molto, la debolezza si sta trasformando in forza, un vantaggio si sta moltiplicando per dieci. L'epoca delle Resistenze è cominciata.

I Resistenti

sabato 25 aprile 2009

”Quel” 25 aprile

di Maria Rosa Calderoni
No. Per conto mio, mi metto fuoririga e fuoriluogo. Il 25 Aprile non è di tutti, e noi non siamo tutti uguali, non ancora; l’antifascismo non è uguale o simile al fascismo e nemmeno il fascismo è uguale o simile all’antifascismo. No, non ancora. Sono diversi. restano diversi.

E anche noi siamo “diversi”, restiamo diversi, ci piace di esserlo e di restarlo, in questi tempi di orizzonte piatto, dove valori ruoli partiti nomi e cognomi tendono a mescolarsi, a confondersi, a rimpicciolire le distanze, a farsi contigui. All’insegna volgare dell’uno che vale l’altro (o quasi). No. «L’unità morale del nostro popolo? Una comune e serena riflessione»? La verità di Fiuggi « che tutti i democratici erano antifascisti, ma non tutti gli antifascisti erano democratici»? No. Non vediamo dove due visioni e due concezioni (non solo della politica, ma della storia, del mondo, dello spirito,
della cultura) che non hanno niente in comune possano incontrarsi; né dove né perché. L’ecumenismo, a volte, può far rima con il nullismo; o peggio, con la resa. Può servire a far dimenticare chi siamo, da dove veniamo, quanto è costato. A introiettare le parole altrui, magari avversarie, e a non trovare più le nostre. Ci congratuliamo con il presidente della Camera, se alla fine l’ha capita pure lui, che l’idea “giusta” di nazione (e non solo di nazione...) era la nostra, meglio tardi che mai. Ma per favore, non facciamo finta che oggi tutto si equivale e che l’ambivalenza è il “nuovo” valore che conta. Nessuno può appropriarsi della storia che non ha avuto, e l’equiparazione, nonostante i tempi grigi che corrono, resta quella che è: un falso.
Con il nostro cuore “allegro e veloce” - è l’espressione di un poeta - ce ne infischiamo degli alti pensieri di tanti accidiosi revisionismi; per conto nostro - con tutte le nostre bandiere e tutti i nostri ideali - continuiamo a salutare quel 25 Aprile in cui abbiamo creduto e continuiamo a credere.
Quello in cui hanno creduto i nostri padri combattenti, i nostri fratelli e i nostri compagni che hanno dato la vita. Siamo generosi - lo siamo sempre stati - ma non immemori.
Tutto ciò che di grande e importante e duraturo c’è in questo Paese, lo si deve a “quello”, al nostro 25 Aprile, così come l’abbiamo conquistato e difeso: la Costituzione che oggi tutti lodano (anche Fini, meglio tardi che mai), la libertà, la democrazia, l’emancipazione sociale.
Conquistato con le armi, in una lotta che - non dimentichiamolo - è stata dura, sanguinosa e spietata. Conquistato e poi difeso tenacemente, giorno per giorno, in tutti questi lunghi anni, con l’impegno, l’intelligenza, la dedizione, il sacrificio di milioni di persone (i nostri compagni, nell’accezione larga del termine).
No, state tranquilli; quando diciamo noi, non intendiamo dire solo «noi comunisti», no; nella Resistenza hanno combattuto con noi socialisti, liberali, cattolici; ma di questa lotta noi comunisti - sissignori, è storia documentata - siamo stati una parte grande, e ci piace ricordarlo. Questo fa parte della nostra antropologia, ci piace ricordarlo. E questo, questo “nostro” 25 Aprile, col suo sogno di riscatto della politica, del popolo, della società, nessuno può oscurarlo né confonderlo.
Siamo imperfetti, non siamo riusciti a raggiungere tutto ciò che volevamo e che anche avevamo promesso, una società più giusta e civile.
Per questo resistiamo ancora, per questo siamo qui ancora. Siamo imperfetti, abbiamo anche commesso errori e abbiamo subito sconfitte. Ma siamo qui, e abbiamo le nostre buone ragioni.
Perché, è questo forse il tempo in cui l’Italia può guardare «con fiducia al futuro e con serenità al passato», come ci vengono a dire, con l’alibi antico della sempre invocata “unità dell’Italia”, l’alibi
buono per tutte le stagioni, e tutti i misfatti, disgraziate guerre incluse? L’unità su che cosa, di grazia. Sui mille morti del lavoro all’anno?; sui 200 milioni (di euro) di buonuscita per Romiti e i 1000 mensili scarsi dello stipendio operaio?; sulla “privatizzazione dei profitti e la socializzazione delle perdite” in vigore oggi ancor più che ai tempi del vecchio Marx (come la global crisi insegna)?
Macché. Non siamo uguali.
Siamo diversi.

venerdì 24 aprile 2009

Il rischio del fascismo ci faccia rialzare la testa

di Alberto Burgio
Pare che Silvio Berlusconi abbia deciso di presenziare alle celebrazioni ufficiali del 25 aprile quest’anno per la prima volta da quando «scese in campo» nel ’94. È suo preciso dovere, un dovere disatteso in tutto questo tempo per ragioni che crediamo vadano ben oltre l’opportunismo di cui parla il senatore Macaluso. Lo fischieranno?
È possibile, e in questo caso dovrà farsene una ragione, il presidente del Consiglio. Ne trarrebbe spunti di riflessione, se la prepotenza gliene lasciasse il tempo. Giustificazioni, quegli eventuali fischi, ne avrebbero sin troppe, come ricorda ancora oggi il «Guardian» ripercorrendo la gloriosa carriera politica di Berlusconi tra editti bulgari, leggi razziste e ad personam. Chissà se il corrispondente del giornale londinese le ha viste quelle recenti immagini del Cavaliere con il berretto da ferroviere e il casco da vigile del fuoco. Sembrava Topo Gigio, ma avrebbe voluto rinverdire gli statuari fasti del Duce trebbiatore, sciatore e manovale. A volte ritornano, o perlomeno ci provano.
Chi proprio non cambia musica è il ministro La Russa. L’8 settembre approfittò della festa in ricordo della difesa di Roma per celebrare i suoi eroi, i «militi» repubblichini del battaglione “Nembo”. Oggi straparla di partigiani indegni di memoria perché «sognavano di imporre in Italia un regime stalinista». Anche questo turpiloquio dobbiamo a Berlusconi. Del resto, non è un fascista di Franco e di Salò anche il Venerabile Gelli, che tesserò lui e il fedele Cicchitto per la P2 e che non perde occasione per sottolineare le analogie tra l’azione del governo e il progetto piduista di «rinascita democratica»? Altro che passato immacolato, caro Macaluso! Piuttosto c’è da domandarsi perché, invece di mimetizzarsi, i La Russa, i Gasparri, gli Alemanno sfruttino ogni opportunità per ribadire il proprio credo. E perché lo facciano proprio oggi, mentre si rinnovano le violenze fasciste nelle strade, gli agguati squadristi, i cori razzisti negli stadi.
La partita è politica e non riguarda soltanto – come qualcuno pensa – la competizione con la Lega per l’egemonia sulla destra radicale e razzista. C’è un progetto che tira in ballo la Costituzione, come si evince agevolmente dagli elzeviri di Ernesto Galli Della Loggia sul «Corriere della sera». L’idea è che la Costituzione del ’48 abbia fatto il suo tempo e vada spedita in archivio. L’Italia dev’essere, per dir così, de-antifascistizzata. Bisogna voltare pagina, cominciare una storia post-costituzionale. Fare tabula rasa del Novecento e dei suoi conflitti. In apparenza si tratta di cancellare il passato. In realtà, l’intento è di legittimarlo. Quel che non merita di essere rimosso cessa d’incanto di essere una colpa.
Così la destra mette a frutto la vera anomalia italiana, l’assenza di cesure tra il fascismo e l’età repubblicana, la mancanza di una Norimberga, il sistematico rifiuto di una riflessione seria sul massacro degli oppositori, gli orrori del colonialismo, il razzismo di Stato contro ebrei, africani e slavi, le nefandezze dei repubblichini, l’incomparabile vergogna dell’alleanza con Hitler. Ma a chi dobbiamo questo revanscismo?
Di certo, contro il revisionismo storico non si è combattuto con la necessaria determinazione. In taluni casi lo si è persino favorito. Hanno pesato molte ragioni, e tra queste anche il difficile rapporto della sinistra con la propria storia. Sta di fatto che non si è stati all’altezza di uno scontro che, nell’investire il passato, coinvolgeva il presente; nel trattare di storia, produceva politica. Dice giustamente il «Guardian» che Berlusconi deve gran parte del proprio successo «alla profonda debolezza dei suoi avversari». Il punto è che questo successo lo paghiamo noi, lo paga il Paese, lo pagano le istituzioni della democrazia italiana costate la vita a migliaia di quei giovani partigiani sulla cui memoria oggi un ministro della Repubblica si permette di sputare. Bisogna saperlo. Bisogna guardare in faccia i rischi che corriamo. Bisogna, finalmente, rialzare la testa.

La finanza pigliatutto con i soldi degli altri

La borsa, il welfare, l'industra: nei due recenti libri di Ronald Dore e Luciano Gallino, un racconto di quel che è appena successo e di quel che può avvenire.

Ora che i buoi sono scappati dalla stalla, le librerie sono piene di dotte riflessioni sui danni della finanziarizzazione sull’economia mondiale. Non sono però molti gli analisti che possono rivendicare coerenza di pensiero nella interpretazione dei fatti che hanno condotto alla attuale crisi.
Ronald Dore e Luciano Gallino sono tra quelli che, in tempi non sospetti, mentre prevaleva ancora il pensiero unico del liberismo dominante, avevano lucidamente messo in evidenza le distorsioni che si stavano determinando nella organizzazione delle economie e dei sistemi sociali, per effetto della prevalenza di un modello di capitalismo basato sulla deregolamentazione, sullo smantellamento degli istituti di welfare e sulla dominanza della rendita finanziaria rispetto all’industria.
Proprio per questa ragione, leggere i loro recenti contributi può essere un utile esercizio, non solo per approfondire l’analisi sui fattori fondamentali alla base della crisi economica in corso, ma anche per cercare di capire quale ricetta venga proposta ora da parte di chi, con maggiore credibilità rispetto ad altri, aveva colto i segni di una condizione di insostenibilità nascosta tra le pieghe della globalizzazione a senso unico.
Ronald Dore, nelle sue analisi sui diversi modelli di capitalismo, aveva già da tempo evidenziato le debolezze strutturali del sistema anglosassone, fondato sulla instabilità di meccanismi finanziari fortemente deregolamentati, rispetto al sistema europeo di welfare, proprio negli anni in cui, a cavallo tra il vecchio ed il nuovo secolo, si operava una sistematica demolizione delle reti di protezione sociale che sono state alla base del capitalismo ben temperato, tipico dell’approccio sociale dell’Europa continentale. Tra capitalismo di borsa e capitalismo di welfare, Dore chiedeva di scegliere la seconda opzione, quando invece il pensiero dominante esprimeva la convinzione di una irreversibile deriva verso il modello anglosassone.

Nel suo recente libro ("Finanza pigliatutto", Il Mulino, 2009, 9 euro) Ronald Dore torna su questi temi, partendo da una analisi delle ragioni strutturali che hanno condotto, nei passati decenni, ad una prevalenza della finanza sull’industria. Innanzitutto, occorre sottolineare che le attività finanziarie hanno assicurato, per diversi decenni, un livello di redditività tale da attrarre investimenti e risorse, in un processo di causazione cumulativa che è stato poi alla base della bolla finanziaria, alimentata dalla creazione di prodotti finanziari a rischio così elevato da non poter essere nemmeno dimensionato.
Analizzando la serie storica del reddito nazionale statunitense, Ronald Dore mostra che, fino al 1950, la quota dei profitti delle imprese finanziarie sul totale dei profitti era pari in media al 9,5%. Da allora è cominciata una accelerazione, sino a raggiungere il valore massimo nel 2002 (45%), con una successiva stabilizzazione ed un leggero arretramento negli anni più recenti, dovuto al manifestarsi dei primi segni della crisi finanziaria internazionale.
Si è affermata, nel capitalismo anglosassone prima e poi nel sistema economico internazionale, una cultura azionaria fondata sul profitto di breve periodo, sulla ricerca di opportunità di arricchimento rapido, sulla capacità di cogliere opportunità tattiche di massimizzazione della redditività rispetto a progetti di investimenti industriale a redditività differita. Gli stessi governi hanno promosso questa tendenza verso una apparente democratizzazione dell’azionariato, nella convinzione che un’offerta abbondante di capitale azionario avrebbe promosso l’innovazione e quindi la competitività. Nelle scelte delle imprese hanno cominciato a contare in modo decisivo le pressioni degli investitori istituzionali, che muovevano masse enormi di capitali alla continua ricerca della migliore redditività, schiacciando la prospettiva temporale del profitto atteso, sino a far governare in modo indiscusso il rendiconto trimestrale rispetto persino al bilancio annuale dell’impresa.

Sulla stessa lunghezza d’onda si colloca la riflessione di Luciano Gallino, in "Con i soldi degli altri", (Einaudi, 2009, euro 17). I dati del processo di finanziarizzazione sono impressionanti: alla fine del 2007 il Pil del mondo ha superato i 54 trilioni di dollari, mentre la capitalizzazione delle borse mondiali ammontava a 61 trilioni e le obbligazioni pubbliche e private superavano i 60 trilioni. A giugno del 2008 il valore nominale della quota di derivati trattati nelle borse toccavano gli 80 trilioni di dollari, mentre quelli scambiati fuori mercato sfiorava i 684 trilioni: la somma dei derivati era quindi complessivamente pari a 764 trilioni di dollari, pari a 14 volte il Pil del mondo.
Il gioco della finanziarizzazione ha tracimato verso l’economia reale, influenzando le strategie delle imprese in modo decisivo e spostando la struttura dei risparmi degli individui verso scelte fortemente rischiose, spesso senza informare correttamente i cittadini sulle conseguenze di questi cambiamenti nelle strategie di portafoglio. I piani pensionistici sono passati su larga scala da schemi a beneficio definito a piani a contributo definito: mentre nel primo caso il contribuente sa di poter contare su un valore certo del proprio corrispettivo pensionistico, nel secondo tutto dipende dalla volatilità dei rendimenti assicurati dai fondi pensione.
Si è innescata in questo modo una ulteriore spirale perversa di avvitamento che oggi incide fortemente sulla crisi delle imprese industriali. Basti citare il caso della General Motors, la quale si è trovata nel 2009 ad avere solo 85.000 occupati negli Stati Uniti, mentre ai suoi fondi pensione fanno capo un milione di ex-dipendenti. Nel 1962 la GM aveva 460.000 dipendenti, la maggior parte in Usa, ed appena 40.000 pensionati. Nella previdenza privata di stampo anglosassone, l’incrocio tra squilibrio strutturale di dipendenti attivi e numero dei pensionati, unito alla volatilità al ribasso dei rendimenti delle attività finanziarie costituisce una mina vagante i cui effetti non sono ancora pienamente dispiegati.
Mentre cambiava radicalmente la struttura dei mercati finanziari, non si sono introdotte regole adeguate a fronteggiare con disciplina le trasformazioni intervenute. E oggi le banconote e le monete costituiscono solo il 3% del denaro circolante, mentre il restante 97% è interamente simbolico, a cominciare da quello depositato nei conti correnti o sui libretti di risparmio. Siamo in presenza di una mutazione genetica del sistema bancario in assenza di un tessuto di norme a protezione degli altissimi rischi che sono stati assunti in nome solo del profitto di brevissimo periodo. Scrive Gallino: “La funzione originaria del sistema bancario stava nel prendere in prestito da molti clienti piccole somme a un dato tasso di interesse, al fine di prestare grosse somme a pochi a un tasso di interesse più alto – contando sul fatto che è improbabile che i molti accorrano tutti assieme, nello stesso momento, a ritirare i loro depositi. Da tempo, per vari aspetti, tale funzione è caduta in secondo piano a fronte della possibilità assai più lucrosa di trasformare i prestiti in titoli commerciabili”.
Luciano Gallino propone una ricetta che consiste nell’indirizzare i capitali nelle mani degli investitori istituzionali verso investimenti socialmente responsabili, ed innanzitutto nella produzione di beni pubblici, a cominciare da infrastrutture di vario genere, dalle scuole ai trasporti. Inoltre, dovrebbero essere privilegiati investimenti produttivi a lungo termine, impiegando in questo modo ingenti risorse per migliorare la condizione del lavoro nel mondo, per farla uscire progressivamente dal percorso di mercificazione e di precarizzazione che ha caratterizzato la storia del lavoro negli ultimi decenni.
Insomma, dalle analisi di Ronald Dore e di Luciano Gallino torna di attualità la questione delle riforme di struttura, che per lungo tempo sono state messe in soffitta ipotizzando che il capitalismo della finanza e del profitto di breve periodo fossero l’unica opzione possibile. Ora, con la crisi squadernata davanti a noi, si tratta di tornare a disegnare forme di organizzazione economica maggiormente attente ai bisogni collettivi.

martedì 21 aprile 2009

L’ombra del fascismo in Italia

The Guardian del 21/04/2009
L’obiettivo centrale di Silvio Berlusconi, il primo ministro italiano, è da tempo apparso chiaro e spudoratamente evidente. Fin da quando si è mosso nel vuoto politico creato nel 1993 dai simultanei scandali di corruzione del governo da un lato, ed il crollo del comunismo italiano, a sinistra dall’altro. Il signor Berlusconi ha usato la sua carriera politica e il potere per proteggere se stesso e il suo impero mediatico dalla giustizia. Durante il più lungo dei suoi tre periodi come primo ministro, il signor Berlusconi non solo ha consolidato la sua già forte presa sul settore italiano dei media - di cui ora possiede circa la metà - ma nella passata legislatura si è anche concesso l’immunità dai suoi procedimenti giudiziari. Poi, quando tale legge è stata dichiarata incostituzionale, il neo rieletto Presidente Berlusconi l’ha portata in una nuova veste lo scorso anno e l’ha avuta firmata con successo.
Il Signor Berlusconi deve il successo alla sua audacia e in gran parte per alla profonda debolezza dei suoi avversari. La sinistra italiana, in particolare, non è riuscita a montare una efficace opposizione. Eppure, l’ultima azione del signor Berlusconi - la fusione nel suo nuovo blocco del Popolo della Libertà, completato ieri, della sua Forza Italia con Alleanza Nazionale che deriva direttamente dalla tradizione fascista di Benito Mussolini - può lasciare un segno più duraturo nella vita politica italiana di quello lasciato da qualunque altro magnate populista.
A differenza della Germania postbellica, l’Italia del dopoguerra non si è mai adeguatamente confrontata con la propria eredità fascista. Come risultato, mentre i neofascisti in Germania non sono mai seriamente riemersi, in Italia, invece, vi sono state importanti continuità - tra cui leggi e funzionari ereditati dall’era Mussolini e la rinascita nel dopoguerra del ribattezzato partito fascista tra di loro - a dispetto di una cultura pubblica italiana ufficialmente antifascista. Quelle continuità sono ora diventate più forti. È il giorno della vergogna per l’Italia.
Tuttavia, AN ha percorso una lunga strada in 60 anni. Il suo leader, Gianfranco Fini, ha rigettato i vecchi arnesi politici ed ha portato il suo partito verso il centro. Ha lavorato per più di 15 anni come alleato di Berlusconi. Egli parla della necessità di un dialogo con l’Islam, denuncia l’antisemitismo, e auspica una Italia multietnica - posizioni che il Presidente Berlusconi, con il suo populismo anti-zingari, le campagne anti-immigrati e la sua predilezione per un razzismo soft, dovrebbe sforzarsi di avvicinare.
Nonostante le sue lontane origini liberali, l’Italia moderna è storicamente un paese di destra. Eppure è molto scioccante pensare che vi sarà un capo di governo tra i 20 leader del mondo al vertice economico di Londra questa settimana, che ha ricostruito la sua base politica sulle fondamenti gettate dai fascisti e che sostiene che la destra probabilmente rimarrà al potere per generazioni, come risultato.

guardian.co.uk

domenica 19 aprile 2009

Chi rubò i resti di Geronimo? C'è chi giura che fu il nonno di Bush

Rituali di disumanizzazione, nelle famiglie borghesi, per essere capaci di praticare il crimine su scala industriale. Come dimostrato dalla Storia e dai recenti documenti Usa sulle torture da praticare su presunti terroristi e sull’attentato ad Evo Morales presidente della Bolivia.
Andrea Montella


La tomba del capo Apache profanata nel 1918, nove anni dopo la morte, da aderenti all'esclusiva confraternita Skull & Bones.

di Giuliano Capecelatro
Anche Roland Hedley, reporter virtuale ma tra i più famosi degli Stati Uniti, se ne occupa. Davvero Prescott, nonno di George W. Bush, e i suoi accoliti novant'anni fa trafugarono il teschio di Geronimo? Lo svagato protagonista della striscia di Garry Trudeau rilancia il quesito che da anni stuzzica l'immaginario nordamericano e conquista uno spazio crescente su giornali e canali televisivi. Spinto da una petizione presentata al Congresso degli Usa dai discendenti dell'indiano, che vorrebbero restituita la reliquia dell'avo famoso.
Inoltre, sono giusto cento anni che il legittimo proprietario di quel teschio, l'impavido e tenace Goyathlay, è passato a miglior vita. Espressione non retorica, viste le condizioni in cui trascorse i suoi ultimi anni. Era il 1909, ventesimo secolo appena iniziato, e novant'anni compiuti dal capo Apache. Che, nella prigione di Fort Sill, non ce la fece a resistere all'assalto di una polmonite. Lui che fino all'ultimo aveva dato filo da torcere a quei bianchi rapaci e fedifraghi, ed era passato incolume tra le loro pallottole, al punto da essere considerato sacro dai suoi compagni.
Nel 1918, mentre il primo conflitto mondiale sta per concludersi, il fattaccio. Presunto. In circolazione da anni. Rilanciato nel 2005 da uno storico, che si imbatte in una lettera di quegli anni in cui uno dei complici di Prescott Bush parla appunto del teschio e di alcuni ammennicoli asportati nottetempo da una tomba a Fort Sill, Oklahoma. Un furto rituale. Per una confraternita segreta, amante del macabro e a fortissima vocazione elitaria: Skull & bones (Teschio & ossa). Nata nel 1832, nel clima esclusivo dell'università di Yale. Qualcosa a metà tra i Rosacroce e la massoneria. Un vago ricordo degli Illuminati tedeschi. E, nel nuovo secolo, un progressivo slittamento verso simpatie naziste.
Roba da figli di papà, insomma. Ansiosi di fingere, anche con se stessi, di avere uno scopo superiore, trascendente, nella vita. Prima di sistemarsi; e, infatti, dalla Skull & bones sono usciti capi di stato, uomini d'affari, alti funzionari, leader di ogni genere. Adepti entusiasti della setta, nascosti dietro un marchio ufficiale, la Russel Trust Association, proprietaria della sede della confraternita. Dal nome significativo, The Tomb (la Tomba), un inquietante edificio assolutamente privo di finestre al numero 64 di High Street, a New Haven, nel Connecticut.
La trafila prevedeva un reclutamento annuale: quindici matricole di Yale da affiliare. Un corredo liturgico abbondantemente necrofilo, in un misto di satanismo da avanspettacolo e omosessualità latente. Il tutto con l'idea di creare un network mondiale di "ragazzi" in gamba. Visitare cimiteri e profanare tombe era una missione e un'attrazione irresistibile. E Goyathlay finì nella rete di questo gruppo di invasati eccellenti.
Il nome gutturale sta per "colui che sbadiglia". Forse il piccolo Geronimo, figlio di un pellerossa senza attribuzioni, non aveva preso troppo sul serio quella faccenda della nascita, sia pure in mezzo alla valorosa nazione Apache, a No-Doyohn, odierna Arizona, poca distanza dalle sorgenti del fiume Gila. Doveva mostrare a chiare lettere, spalancando e richiudendo la giovane bocca, la propria indifferenza. Così la mamma decise di registrare, attraverso l'anagrafe dei suoni, la disincantata attitudine del neonato. Che, comunque, tra uno sbadiglio e un altro, a otto anni già si occupava di caccia, a diciassette veniva cooptato nel consiglio dei guerrieri, e intanto coronava il suo sogno d'amore impalmando la giovane Alope, che avrebbe messo al mondo tre figli.
Ci penserà l'uomo bianco, sempre avido di fregare qualcosa agli altri, a scuoterlo dalla sua proclamata inerzia. Aveva circa trent'anni quando i soldati messicani penetrarono nel suo villaggio. Lui era assente, chiamato altrove da alcune trattative commerciali. Al ritorno trovò una di quelle scene raccapriccianti che propongono i film western dalla parte degli indiani. Devastato il villaggio, un ammasso di rovine fumanti. La madre, Alope e i tre piccoli trucidati. Ce n'era abbastanza per uscire dal torpore.
Goyathlay smise di sbadigliare. E rese insonni, per quanto poteva, con mezzi e uomini limitati, le notti degli uomini bianchi, pronti a rimangiarsi parole e a calpestare patti, con l'unico intento di arraffare. Il giovane Apache entrò in una banda e prese parte ad una accanita guerriglia contro un invasore tanto potente quanto spietato. Che si era già macchiato di numerosi eccidi, con i Lakota, i Cheyenne e con quante tribù capitavano a tiro di cannone.
Implacabile, Goyathlay. Quando incontrò gli odiati messicani sfidò la morte per placare la sete di vendetta. Durò quasi due ore il primo scontro. Pochi messicani sopravvissero per raccontarlo. E il giovane guerriero fu proclamato senz'altro capo. La guerra proseguì per oltre vent'anni. Geronimo, nome che gli avevano affibbiato i messicani, guidava razzie sul territorio messicano, crudele, inflessibile. Si alleò con Mangas Coloradas e Cochise. Sulle sue orme si era lanciato il colonnello Crook. Per qualche tempo Geronimo si adattò a vivere nella riserva. Morto Cochise, di fronte a una situazione insostenibile di diritti calpestati e violazioni, imboccò ancora una volta l'unica strada possibile per non vedere umiliata la propria dignità, quella delle armi.
Tornò a combattere americani e messicani. Con un pugno di uomini irriducibili. Fu aggirato, nel 1877, dall'agente della riserva di San Carlos, John Cium, che gli aveva assicurato di portarlo ad una trattativa. In realtà venne disarmato e spedito in prigione. Da cui uscì dopo quattro mesi. Con un'altra pattuglia di disperati, nel 1881 si rifugiava in Messico. L'anno successivo tornava a seminare il terrore negli Stati Uniti. Incursioni, rapide fughe, stratagemmi anche geniali di strateghi naturali. Capaci, come Loco, di aggirare e tener poi impegnato per ore un contingente di quattrocento uomini.
Goyathlay era diventato una spina nel fianco del governo statunitense. Che inopinatamente decise di affidare la partita a Crook, nel frattempo promosso generale. Non aveva certo brillato, Crook, nella campagna contro Sioux e e Cheyenne. Forse per questo pensò di giocare la carta della trattativa con quel Geronimo che definiva una "tigre in veste d'uomo". Tra i due si stabilì un'intesa; al capo Apache piaceva la ruvida onestà di Crook. Accettò quindi di tornare nella riserva di San Carlos con trecentocinquanta apache e i grandi capi Loco, Nana e Mangas Coloradas.
Ai bianchi, però, quella soluzione non andava giù. Il potere dei media era notevole anche nel diciannovesimo secolo. Si scatenò una virulenta campagna di stampa, che vedeva sul banco degli accusati il "morbido" Crook, colpevole di essersi fatto abbindolare dal demoniaco Goyathlay, di cui si chiedeva senz'altro la morte. Ancora una volta Geronimo e i suoi abbandonarono la riserva. Ancora una volta misero a dura prova le nutrite ed equipaggiatissime truppe messicane ed americane. Ancora una volta il moderato Crook riuscì a convincerlo: due anni di carcere in Florida, poi il ritorno alla riserva; questa la promessa con cui lo attirò.
Non aveva fatto i conti con l'incessante campagna d'odio. La sua parola venne sconfessata dal generale Sheridan, suo superiore. Geronimo riuscì a rendersi di nuovo uccel di bosco e Crook, a malpartito, dovette cedere il passo a Nelson Miles. Con una trentina di guerrieri, Goyathlay resistette fin quando gli fu possibile. Poi, circondato, fu costretto ad arrendersi a Miles. Era l'agosto 1886. Lo attendeva la prigione di Fort Pickens, in Florida. Otto anni di inferno e umiliazioni per tutti gli apache, separati dalle loro famiglie, recluse a Fort Marion. Otto anni dopo Geronimo arriva a Fort Sill. Dove dettò la propria biografia all'apache Asa Daklugie, tradotta poi da un ispettore scolastico e pubblicata fra mille imbarazzi. E qui moriva il 17 febbraio 1909.
Ma la storia proseguiva. Con i seguaci di Skull & bones che violano la tomba e portano via il teschio, delle briglie d'argento e pezzi di staffa. Tra questi Prescott. Il nipote, George W. Bush, futuro presidente degli Usa, si sarebbe iscritto anche lui alla setta. Il teschio, feticcio della confraternita, racchiuso in una teca di vetro passerà di mano in mano. Anni fa il fratello dell'ex presidente, Jonathan Bush, incontrò alcuni discendenti degli apache cui tentò di rifilare un teschio, con ogni probabilità falso. La petizione degli eredi di Goyathlay, "inorriditi", ha raccolto più di ottomila adesioni. Ma il mistero resta.
E c'è da pensare che non si risolverà. «Davvero il nonno di Bush rubò il teschio di Geronimo per la sua confraternita?», si chiede un annoiato Roland Hedley. E informa: «Varie ricerche su blog e social network non sono riuscite a dare prove significative». E' così. E quando gli viene proposto di fare un'inchiesta, ribatte seccato: «Come ai vecchi tempi? Per favore, è roba da giornali».


venerdì 17 aprile 2009

La Gran Bretagna: avanguardia del moderno fascismo‏

George Orwell in “1984” lo aveva previsto... E più passa il tempo e più sono false le parole della critica letteraria di ogni tempo su quel libro.
Orwell, nel libro, non parlava dell’URSS... Ma dei Paesi occidentali in particolare di quelli anglosassoni, con il capitalismo più avanzato.

Andrea Montella

Londra, la paura come strumento di governo

di Angela Corrias
LONDRA - «Questo è il suono di una bomba che non è esplosa in un centro commerciale pieno di gente perché un negoziante ha riferito di una persona che studiava le CCTV». Non è la scena di un film poliziesco, ma uno degli spot della campagna contro il terrorismo che sta imperversando nelle radio, televisioni e cartelloni pubblicitari inglesi.
Dopo l’imposizione di CCTV [telecamere di sicurezza, nda.] in tutta l’Inghilterra, con un’enorme percentuale localizzata nel centro di Londra, la sicurezza britannica ha recentemente divulgato i nuovi spot anti-terrorismo che immediatamente hanno catturato l’attenzione di media e società civile. Non tanto perché spiegano con candore che le persone che si sentono chiacchierare in sottofondo sono ancora vive grazie a un semplice cittadino che ha denunciato un passante che “studiava” le CCTV, ma soprattutto perché nelle ultime settimane sembra di assistere a una escalation di allarmismo e incoraggiamento a diffidare persino del proprio vicino di casa.
«Queste sostanze chimiche non saranno usate per costruire una bomba perché un vicino ha riferito dei contenitori buttati nel cassonetto alla Linea Diretta Anti-terrorismo.» Questo è un altro spot che si può leggere in poster sui muri, in metropolitana e alle fermate di autobus lungo tutta la città.
Come ogni buona campagna antiterrorismo, l’obiettivo è quello di rassicurare la popolazione che la polizia è qui per noi, “for a safer London,” come riportano le stesse pattuglie. Le strategie usate in questa campagna mediatica vertono sulla responsabilizzazione del singolo individuo, sulla collaborazione di tutti per il bene della collettività ma, allo stesso tempo, incita ad agire da solo: «Non dipendere dagli altri. Se hai dei sospetti, riportali».
Già nel 1928, nel suo libro “Propaganda”, Edward Bernays, nipote di Sigmund Freud, scriveva: «La cosciente e intelligente manipolazione delle abitudini organizzate e delle opinioni delle masse è un elemento importante in una società democratica. Quelli che manipolano questo meccanismo invisibile della società costituiscono un governo invisibile che è il vero potere che regola un paese».
Bernays, considerato uno dei padri delle pubbliche relazioni, aveva contribuito alla campagna propagandistica dell’amministrazione Roosevelt per convincere l’opinione pubblica statunitense della necessità di entrare nel secondo conflitto mondiale.
Mentre lavorava per grandi multinazionali e le diverse amministrazioni statunitensi, Bernays contava fra i suoi ammiratori uno dei più importanti gerarchi del Terzo Reich e ministro della propaganda, Joseph Goebbels, che si ispirò proprio alle sue teorie per costruire la campagna mediatica nazista antisemita.
Secondo Bernays, la classe politica doveva necessariamente prendere esempio dal mondo delle imprese nelle loro campagne pubblicitarie, interamente incentrate nella vendita di prodotti al grande pubblico.

Ancora dal suo libro “Propaganda” si può leggere «Siamo governati, le nostre menti sono modellate, i nostri gusti formati, le nostre idee suggerite in gran parte da uomini di cui non abbiamo mai sentito parlare. Questo è il risultato logico del modo in cui la nostra società democratica è organizzata».
Appare subito chiaro quanto queste parole fossero all’avanguardia nell’America degli anni ’30 e ’40 e, allo stesso tempo, quanto siano attuali ancora oggi. La necessità di formare l’opinione pubblica è tanto importante oggi quanto lo era alle soglie della Prime e della Seconda Guerra Mondiale, anche se probabilmente adesso gli strumenti di propaganda sono più sofisticati di allora.
Ancora oggi i consigli di Bernays sono ampiamente seguiti e vengono adattati all’evoluzione della società, soprattutto in paesi come Gran Bretagna e Stati Uniti, dove il supporto dell’opinione pubblica è essenziale per assicurarsi una sorta di legittimità e “autorizzazione a procedere” da parte della popolazione.
Tuttavia, l’escalation di pressione psicologica che la polizia inglese sta attuando recentemente comincia a destare preoccupazione, e una larga parte della popolazione si chiede se stia per caso vivendo in uno Stato di polizia. «Chi sono io per giudicare quando una situazione è sospetta e rischiare di mettere in seri guai qualcuno?», «Come posso denunciare il mio vicino di casa solo perché un giorno butta contenitori di medicinali?» Queste sono solo alcune delle perplessità che i cittadini inglesi stanno avanzando da quando la campagna è iniziata.
L’incoraggiamento a facili denunce e l’indurre a sospettare chiunque abbia un comportamento che arbitrariamente può essere considerato insolito potrebbe avere il rischio di mettere i cittadini uno contro l’altro, creando panico e diffidenza reciproca. L’esperienza del G20, dove la polizia ha colto molti di sorpresa, mettendo in atto una violenza che in un paese democratico e liberale i cittadini non si sarebbero mai aspettati, ha contribuito ad aumentare le incertezze e creare confusione. Se prima infatti i cittadini inglesi erano sicuri che il loro governo agisse nel loro interesse, adesso il dubbio che la loro agenda non sia del tutto trasparente come sembrava si sta insinuando sempre di più.
La concomitanza tra i fatti del G20, che hanno causato la morte di un passante dopo essere stato brutalmente picchiato dalla polizia, sommata alle recenti misure anti-terrorismo emanate dal ministero britannico degli Interni (Home Office), sta assumendo tutte le caratteristiche di una vera e propria strategia del terrore.
Tra le leggi che più hanno destato stupore e sgomento sono il divieto di fotografare agenti di polizia, pena l’arresto con l’accusa di terrorismo, e l’annuncio da parte del ministero degli interni della possibile introduzione di aeroplani telecomandati per spiare le abitazioni private, così da individuare i criminali senza mettere a rischio i poliziotti. Questa escalation di violenza e ostilità nei confronti del singolo individuo sta provocando continue manifestazioni e una sorta di “risveglio” della società civile inglese.

mercoledì 15 aprile 2009

Il nuovo Editto Bulgaro per Santoro

di Tommaso Vaccaro
ROMA - Mancano soltanto cinque giorni al settimo compleanno dell’Editto Bulgaro con cui Silvio Berlusconi operò la prima grande epurazione in casa Rai. Correva l’anno 2002, per la precisione il 18 aprile, quando Enzo Biagi, Michele Santoro e Daniele Luttazzi, venivano accusati dal Cavaliere di fare un “uso criminoso” del servizio pubblico. Soltanto qualche giorno dopo tutti e tre andavano a casa e i loro programmi venivano rapidamente sostituiti dai neo nominati vertici di viale Mazzini.
Poco o niente sembra cambiato da allora. L’occasione per rilanciare un nuovo assalto alla diligenza della tv di Stato è quella del tragico terremoto in Abruzzo. L’oggetto della polemica, la puntata di Annozero dal titolo “Resurrezione”, ospiti in studio Guido Crosetto del Pdl, l'ex magistrato Luigi De Magistris, l'esponente di Sinistra e Libertà Claudio Fava, il direttore del Giornale Mauro Giordano e il presidente dell'Istituto nazionale di geofisica Enzo Boschi.. Ad aprire il fuoco di fila contro la trasmissione di Michele Santoro, in onda ogni giovedì su Raidue, lo stesso Silvio Berlusconi, che durante la visita alla tendopoli di Monticchio, non riesce a trattenersi e afferma: “La tv pubblica non può comportarsi in questo modo”. E ancora: “Non parlo più di questo - precisa - ma mi sembra che i fatti mi abbiano dato ragione”. A fare infuriare Berlusconi e il centrodestra, le perplessità avanzate dalla squadra di giornalisti di Santoro, sull’andamento dei soccorsi.
Durante uno dei collegamenti dall’Aquila, Sandro Ruotolo raccontava: “Siamo nel Comitato operativo misto e a quattro giorni non c'è ancora un coordinatore, un responsabile. Le tende ci sono, ma alcuni paesi non hanno ancora tendopoli e in alcune tendopoli mancano i bagni chimici, le cucine, l'acqua. E' una macchina che si deve mettere ancora in moto, non è a punto”, quando “ci sono paesi in cui la gente continua a dormire in macchina”.
Ipotesi, queste, che nonostante siano state ampiamente motivate e documentate con immagini e racconti diretti, non sono affatto andate giù al governo ed alla maggioranza. E in effetti di un “fulmine a ciel sereno” si è trattato, tenendo conto che l’informazione sulla tragedia abruzzese, è stata affidata in toto al “docile” Bruno Vespa.
Ma l’offensiva contro Santoro e il suo programma, aumenta di proporzioni nel giro di poco. Dopo le accuse mosse dal premier, arrivano quelle del presidente della Camera, Gianfranco Fini. Il numero uno di palazzo Montecitorio bolla la puntata andata in onda il 9 aprile come “semplicemente indecente” e poi come “l’unica cosa stonata in questa tragedia”.
Si unisce al coro anche il solito Maurizio Gasparri. Il capogruppo al Senato del Pdl, raccontando di aver ricevuto la proposta di sostituire nello studio di Annozero il ministro della Difesa, Ignazio La Russa, quest’ultimo impossibilitato a partecipare alla trasmissione, ha riferito di aver declinato l’invito “perché non ho alcuna stima né di Santoro, né di Travaglio né di Vauro, persone con le quali non ho alcun interesse a confrontarmi perché so come fanno le trasmissioni”. Secondo Gasparri: “La capacità di faziosità e di stravolgimento della realtà di Santoro e dei suoi sodali motiva e mobilita i nostri elettori. Grazie a gente come quella noi saremo al governo per sempre. Vauro e Travaglio sono anche peggio di Santoro”. E con la solita sua delicatezza, conclude affermando che “Santoro, e i bassifondi delle città ad alto rischio sono i soli posti che evito”.
Ma anche dal Pd, arrivano nette prese di posizione contro Santoro. Giorgio Merlo, vicepresidente della Commissione di Vigilanza Rai, si associa al fuoco di fila e domanda provocatoriamente: Santoro “può dire e può fare ciò che vuole, contro chi vuole e a danno di chi vuole a prescindere?”. “Sarebbe auspicabile – continua Merlo – che i vertici Rai, di fronte a questo giornalismo, non assumessero una posizione qualunquisticamente pilatesca, ma battessero un colpo”.
Intanto si fa avanti anche l’unica novità di questo ormai collaudato sistema di siluramento della libera informazione: l’indignazione di un alto prelato.
Il vescovo dell’Aquila si spinge, infatti, a dichiarare: “E' vergognoso che si permetta sulla televisione pubblica un dileggio così incivile su un dolore tanto grande affrontato dagli aquilani con molta dignità e un così evidente disprezzo di tutti i soccorritori e i volontari che hanno contribuito con meravigliosa generosità e affrontando gravi rischi a salvare moltissime vite umane”.
Così, mentre il neopresidente e neodirettore generale della Rai, Paolo Garimberti e Mauro Masi, mettono in moto la macchina degli “approfondimenti previsti dalla normativa vigente e dai regolamenti aziendali” (non prima di aver sottolineato il “pieno e forte sostegno alle azioni svolte dalla Protezione civile”), c'è però chi difende l’operato di Santoro. Per Paolo Ferrero, segretario di Rifondazione comunista, "è preoccupante la canea bipartisan che si è scatenata nei confronti di Michele Santoro e della sua trasmissione. Non si manca di rispetto nei confronti delle popolazioni colpite dal terremoto nè dei soccorritori se si cerca di documentare le responsabilità del passato o i limiti della gestione dell'emergenza". Per Ferrero "il servizio pubblico non dovrebbe mai essere plaudente con il potente di turno né al servizio dell'opposizione di sua Maestà, ma fare il suo dovere, quello di informare. Capisco - conclude l'esponente del Prc - che la destra invochi un'informazione irreggimentata che celebri l'efficienza del governo e del premier. Trovo incomprensibile che anche gran parte del PD si associ alla campagna contro Santoro e Anno Zero. Per Vincenzo Vita e Giuseppe Giulietti di Art21 “è davvero grave e preoccupante l'attacco rivolto dal presidente del Consiglio ad Annozero”. Secondo i due esponenti dell’associazione, questo attacco “appare come l'ennesima vocazione della censura contro chi ha opinioni diverse”. Antonio Di Pietro, risponde invece alle accuse avanzate dal presidente della Camera e dal presidente del Consiglio, affermando che “pretendere di mettere il bavaglio a un giornalismo che approfondisce la verità dello svolgimento degli avvenimenti è da criminali”.
Nel frattempo il compleanno dell’Editto Bulgaro è sempre più vicino e chissà che questo nuovo teatrino censorio non riservi qualche bella sorpresa al giornalismo italiano.

lunedì 13 aprile 2009

Il Grande gioco non serve

La politica dell'escalation non porterà alla pace in Afghanistan e nel resto della regione.
di Noam Chomsky
Fin dall'antichità la regione che oggi chiamiamo Afghanistan è stata d'importanza strategica per i grandi conquistatori, da Alessandro Magno a Gengis Kan e Tamerlano.
Nell'ottocento l'impero russo e quello britannico si contesero l'Asia centrale, affrontandosi nel cosiddetto Grande gioco.
Nel 1893 sir Henry Mortimer Durand, un ufficiale dell'esercito coloniale inglese, tracciò una linea lunga più di duemila chilometri per delimitare il confine occidentale dell'India governata dalla Gran Bretagna.
La Linea Durand tagliava in due le zone abitate dai pashtun, che gli afgani consideravano parte del loro territorio. Nel 1947 l'area nordoccidentale della regione fu di nuovo divisa per creare il Pakistan.
Ancora oggi, nella zona di confine tra Afghanistan e Pakistan, il Grande gioco continua.Questa regione, che si estende da una parte e dall'altra della debole e permeabile Linea Durand, ora è chiamata, in modo appropriato Afpak.
La popolazione non ha mai accettato questa linea di confine e anche lo stato afgano non l'ha riconosciuta.
È un fatto storico incontestabile che gli afgani sono sempre riusciti a cacciare tutti i loro invasori. Ma l'Afghanistan rimane ancora il premio geostrategico del Grande gioco.
Il presidente statunitense Barack Obama ha deciso d'intensificare la guerra nell'Afpak, portando avanti l'escalation dell'amministrazione Bush.Attualmente l'Afghanistan è occupato dagli Stati Uniti e dai loro alleati della Nato.
La presenza militare degli stranieri non fa che aggravare il conflitto, mentre quello che servirebbe è uno sforzo comune delle varie potenze regionali – comprese Cina, India, Pakistan e Russia – per aiutare gli afgani a risolvere i loro problemi interni in modo pacifico.
Alle manovre delle grandi potenze si contrappone un forte movimento per la pace, che sta crescendo anche in Afghanistan. I suoi attivisti chiedono la fine dei combattimenti e l'avvio di negoziati con i taliban.Accettano volentieri l'aiuto degli stranieri per la ricostruzione e lo sviluppo, ma non a scopi militari. Questo movimento sta raccogliendo molti consensi tra la popolazione locale.
Le prossime truppe americane che arriveranno, quindi, non dovranno affrontare solo i taliban. Come ha scritto Pamela Constable sul Washington Post, dovranno fare i conti anche con "un nemico disarmato ma altrettanto pericoloso: l'opinione pubblica del paese".
Molti afgani sono convinti che "invece di aiutare a sconfiggere gli insorti e a ridurre la violenza che dilaga in tutto il paese, l'arrivo di altre truppe straniere peggiorerebbe la situazione".
La maggior parte degli afgani intervistati dalla giornalista ha dichiarato che "preferirebbe un accordo negoziato con gli insorti a un'intensificazione della campagna militare. Molti hanno ricordato che i taliban ribelli sono afgani e musulmani come loro, e che il paese ha sempre risolto i suoi conflitti interni attraverso gli incontri tra le comunità e le tribù".
La prima richiesta del presidente afgano Hamid Karzai a Obama è stata la fine dei bombardamenti contro i civili. Karzai ha anche dichiarato a una delegazione dell'Onu che vorrebbe un piano di ritiro delle forze straniere (cioè statunitensi).
Così facendo ha perso il sostegno di Washington e ha smesso di essere il leader preferito dei mezzi d'informazione occidentali, che ora lo descrivono come "corrotto" e "inaffidabile". Forse è vero, ma se lo è oggi, lo era anche quando lo chiamavano il "nostro uomo" a Kabul.
Secondo la stampa statunitense, Washing­ton e i suoi alleati vogliono metterlo da parte e sostituirlo con un leader scelto da loro.Un corrispondente esperto come Jason Bur­ke del Guardian ha scritto: "Stiamo ancora cercando di costruire non lo stato che vogliono gli afgani, ma quello che secondo noi dovrebbero volere. Se chiedete a un afgano a quale paese si augura che somigli il suo tra qualche decennio, vi risponderà l'Iran".
In questo scenario l'Iran ha un ruolo particolarmente importante. I suoi rapporti con l'Afghanistan sono molto stretti. Teheran si oppone al ritorno dei taliban e ha offerto aiuti sostanziosi al governo di Kabul per combatterli. Come ringraziamento è stata inserita nell'Asse del male.
L'Iran ha più interesse di qualsiasi altro paese ad avere come vicino un Afghanistan stabile e prospero. E, naturalmente, è in buoni rapporti con Pakistan, India, Turchia, Cina e Russia. Se gli Stati Uniti continueranno a impedire a Teheran di avere buoni rapporti con l'occidente, la sua intesa con Mosca e Pechino potrebbe rafforzarsi.
Durante la recente conferenza sull'Afghanistan dell'Aja Karzai ha incontrato alcuni alti funzionari iraniani, che si sono impegnati ad aiutare Kabul nella ricostruzione e nella lotta al fiorente traffico di droga.
La politica dell'escalation non porterà alla pace in Afghanistan e nel resto della regione. La cosa più importante è che gli afgani siano liberi di risolvere da soli i problemi del paese. Senza interferenze da parte di stranieri più o meno coinvolti nel Grande gioco.

domenica 12 aprile 2009

Film: "Che - l'Argentino"

Dopo mesi di ritardi e slittamenti, è uscito finalmente nelle sale italiane, (distribuito da Bim) l'attesissimo film, Che-L'Argentino (titolo orginale: Che-Part One), prima parte del lungometraggio biografico, che il regista americano Steven Soderbergh, (Traffic, 2000) ha dedicato alla figura di Ernesto Guevara. A circa un anno di distanza dagli applausi commossi del Festival di Cannes, dove il film è stato presentato, e dove Benicio del Toro è stato premiato come miglior attore, il mito del Che torna a vivere sullo schermo.


giovedì 9 aprile 2009

Terremoto in Abruzzo: dove finisce lo Stato e dove inizia il volontariato

di Francesco Fumarola
Gli effetti dolosi del terremoto in Abruzzo ci consegnano le cosiddette “Istituzioni” letteralmente a pezzi (a venti ore dal sisma, lo Stato non aveva ancora piazzato le tende per permettere ai sopravvissuti di Onna di pernottare; e Bertolaso qualche giorno prima aveva addirittura denunciato il fisico che, in qualche modo, aveva messo in guardia da un imminente e rilevante evento sismico) mentre ci mostra una “società civile” che, pur tra mille contraddizioni e conflittualità interne, si esalta ancora una volta come operosa e solidale, offre di tutto, va a donare il sangue, chiede come fare per essere in qualche modo d’aiuto. Da una parte abbiamo dunque lo Stato, costruzione formale borghese, affaccendata a difendere gli interessi dei suoi Grandi Elettori (i padroni d’Italia: palazzinari, speculatori, banchieri, “capitani coraggiosi”) impegnati da sempre a spezzare le reni alla classe dei proletari ed a fare profitti devastando l'ambiente. Dall’altra, dentro la grossa pentola sociale, stanno quest’ultimi, i subalterni (anche) nel terzo millennio, che, pure arrancando e dimenandosi tra i tanti problemi del vivere quotidiano, provano a rintuzzare gli attacchi padronali, a difendere i territori, e talvolta avanzano pure.
Sopra, lo Stato dei padroni e dei suoi ascari, i parassiti del Capitalismo che, in attesa delle Centrali Nucleari come definitivo colpo di grazia socioambientale, continuano imperterriti a sfondare l'Italia (TAV, estrazioni petrolifere, inceneritori, milioni di metri cubi di nuovo cemento “pianoregolato”).
Sotto, i veri produttori di ricchezza, i salariati, che, sebbene privati di una reale rappresentanza parlamentare, nei momenti più critici si stringono ancora più forte. E proprio quando il bubbone affaristico e l’incapacità dello Stato borghese ad offrire prevenzione ambientale e protezione sociale dopo un sisma mortale stanno per essere scoperchiati dall’indignazione di popolo, ecco profilarsi all’orizzonte la Protezione Civile.
Protezione Civile che funziona come bostik per appiccicare, nei momenti di intenso stress borghese, tutti i pezzi impazziti della società civile, espungendo momentaneamente il conflitto dal mondo reale e richiamando l’unità (una e trina) dello Stato. Lo Stato borghese funzionalizza la Protezione Civile a tutela degli interessi della classe dominante, proprio mentre i suoi scellerati comportamenti di sfruttamento dei territori vengono smascherati dalle centinaia di morti che pesano come macigni sulla coscienza dei padroni e dei suoi lacchè.
In che modo lo Stato trasforma la Protezione Civile in Protezione della Civiltà Borghese?
Semplice. Alla Protezione Civile lo Stato delega il compito di propagandare l’immagine di ciò che non esiste ma che è semplicemente incollato artificiosamente: l’Unità dello Stato nell’assenza di conflitto. E così la Protezione Civile finisce per rappresentare tutta la prevenzione che non c’è, tutto l’aiuto di Stato che non c’è, , tutta l’emergenza che c’è ma che non può essere affrontata dalle Istituzioni senza l’intervento di “tutti”, fascisti compresi (lo vedremo più avanti).
La Protezione Civile diventa così la Protezione del furto , della speculazione e dello scempio. Protezione richiesta dalla borghesia in fase tensiva ed ottenuta, paradossalmente, manipolando con il grimaldello della pena, del senso della colpa e della generosità tutta la società civile. In definitiva, lavorando sulla fiorente industria (anche mediatica) della partecipazione al lutto collettivo la borghesia induce i suoi sottoposti a deporre le armi quel tanto che basta affinchè i mezzi di informazione, ridotti comunque al lumicino, “passino la nuttata” della vibrante (si fa per dire) protesta.
L’azzeramento temporaneo del conflitto illumina di sé la Protezione Civile e le Istituzioni si imbellettano in Parlamento ( l’intervento conciliante di Franceschini coglie applausi a destra e a manca).
Così facendo la Protezione Civile, nella società dello liberoscambismo, diventa l’equivalente emergenziale di ciò che Telethon è per la ricerca scientifica e la Caritas per la solidarietà ordinaria, “di tutti i giorni”. Così come le Istituzioni pensano a far fiorire gli affari dei suoi compari (e si pianificano guerre, si costruiscono bombe e mine antiuomo, si sventrano montagne per farci passare treni ad alta velocità, si internano i disperati del terzo mondo negli ex CPT) disinteressandosi completamente della crescita culturale, scientifica e morale della società e delegando alla “beneficenza” ed al volontariato la risoluzione delle problematiche “inutili”, quelle che non offrono un tornaconto economico-finanziario, allo stesso modo le manchevolezze emergenziali statali vengono volutamente rivestite del guscio vuoto della Protezione Civile.
La Protezione civile che non è Ministero ma Dipartimento, quasi-limite tra il politico ed il sociale in senso stretto, ambito più esterno dello Stato ma più prossimo alla società verace, quella della gente viva in carne ed ossa.
Limite di guscio politicamente vuoto, senza denaro nè capacità di autoproduzione, da riempire con l’afflato associazionista (dal sito ufficiale si legge: “al momento, nell'elenco nazionale del Dipartimento della Protezione civile sono iscritte circa duemila cinquecento organizzazioni tra le quali i cosiddetti "gruppi comunali" sorti in alcune regioni italiane, per un totale di oltre un milione e trecentomila volontari disponibili”).
Come Telethon che avvicina e rende partecipi tutti gli italiani a “reti televisive unificate”, così Bertolaso ha la maglietta blu con lo scudetto al braccio, simbolo formale di unità nazionale. Così come Telethon catalizza le donazioni degli Italiani sotto Natale, allo stesso modo fa la Protezione Civile sotto i cataclismi. Stessa tecnica, stessa finalità: raccogliere il denaro per acquistare beni non acquistabili altrimenti e finalizzati ad uno scopo (scientifico con ricadute sociali nel caso di Telethon, sociali nel caso della Protezione Civile).
Per uno Stato che si è disfatto nel tempo di quasi tutta la sua rete produttiva pubblica (in Italia non esiste più la chimica pubblica e quindi non vi sono più ne farmacie né industrie farmaceutiche pubbliche dove poter attingere per prendere tutti i medicinali ed i sanitari di cui lo Stato ha bisogno nei momenti d’emergenza) il ricorso alle “donazioni dei privati” è una vera e propria manna, dalla Protezione Civile usata due volte: la prima per espletare “fenomenicamente” il proprio compito "salvifico" e, la seconda, per assurgere al ruolo di morfizzatore della critica e del conflitto.
E’ allora normale che, mentre l’ex piduista Silvio Berlusconi, tessera n.1816, avanza l’idea di portare i Bronzi di Riace alla Maddalena, in occasione del prossimo G8 di Luglio, e l’imprenditrice gattara Brambilla (quella della defunta “La TV delle Libertà”, ora sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega al Turismo) la sostiene perché il G8 è anche “ una vetrina in cui mostrare tutte le cose per noi più belle'', da parte di Bertolaso sia tutto uno sfavillio di richieste di cose e di beni di prima necessità per alleviare le pene dei cittadini dell’Aquilano. Perché all’Italia svenduta manca di tutto.
Perfino i fascisti di CasaPound, ormai sdoganati dalla parte più marcia del paese, tanto di centrodestra quanto di centrosinistra, tra un’incursione e l’altra sono della partita e comunicano che servono “Coperte, vestiti, pannolini, latte in polvere, casse d’acqua e tutti i beni di prima necessità, che possono servire alle popolazioni gravemente colpite dal terremoto in Abruzzo, verranno raccolti presso i centri di CasaPound Italia presenti su tutto il territorio nazionale, e messi a disposizione delle locali sedi della Protezione Civile.Si invita ulteriormente alla solidarietà fattiva verso i fratelli abruzzesi colpiti dalla tremenda tragedia”.
Sono “gli intrusi del dolore”, come giustamente commenta Maria Grazia Rodotà sul “Corriere”, quelli che sanno cosa significa provocarlo o fiancheggiarlo.
Come Francesco Pazienza, ex ufficiale del SISMI “condannato nel 1988 per aver tentato di depistare le indagini circa la Strage di Bologna, sistemando lo stesso tipo di esplosivo in un treno Milano - Taranto nel 1981. Nel 1990, la sua condanna fu invertita in appello, ma un nuovo processo terminò con una condanna definitiva nel 1995” (fonte Wikipedia), avvistato tra i “volenterosi” (come avrebbe detto il terrorista Bush, l’amico di Berlusconi).
E cosa dire dell’immancabile ed, in questo scenario statale pietoso, meritoria Caritas che, per i versamenti volontari, mette a disposizione i conti correnti con le solite banche private. Nemmeno il popolo di Facebook rimane a guardare e fa a gara per tappare i buchi della disfatta Statale, che non è proprietaria quasi più di niente, figuriamoci di immobili: un’utente scrive che “sono stati messi a disposizione per gli sfollati del terremoto 14 appartamenti, circa 100 posti letto, anche di più forse, in un condominio di Alba Adriatica (TERAMO). Contattate la Sig.ra xxxx”.
Lo Stato svende la propria piattaforma telefonica? Non c’è problema, perché un altro utente Facebook ci fa sapere che “TIM - VODAFONE - WIND - 3 ITA HANNO CREATO IL NUMERO SOLIDALE DOVE MANDARE GLI SMS PER UN GESTO PIU CONCRETO, IL NUMERO E' IL SEGUENTE 48580 UTILIZZATELO.. QUESTO LO POSSIAMO FARE”.
Il terremoto in Abruzzo è tutto questo: viene sancita la ricompattazione straordinaria della società civile a mezzo Protezione Civile. E dopo tutto, perso anche il sentimento della vergogna, che cosa c’è di male se il vanaglorioso Tg1 del riottoso (quasi ex) direttore Riotta ci comunica che ci sono stati “ascolti record in tutte le edizioni del TG1 nella giornata del terremoto in Abruzzo. Il tg1 ha registrato uno share intorno al 30% nelle edizioni delle 6.30, delle 7.00 e delle 8.00 con un picco del 43,1% nell’edizione delle 9.30. La straordinaria delle 11, durata oltre un’ora, ha realizzato uno share del 33%. Nell’edizione delle 13.30 il 32,4% con 5,7 milioni di ascoltatori. La straordinaria dalle 15 alle 16 ha avuto un ascolto del 21%. L’edizione principale delle 20 s’è confermata leader dell’informazione con uno share del 33,9% e con un ascolto medio di 8,7 milioni di ascoltatori e picchi di quasi 10 milioni. Lo speciale TG1 “Porta a Porta” condotto da Bruno Vespa con David Sassoli inviato sulle zone del disastro ha avuto uno share del 27% ed una media di 6,7 milioni di ascoltatori. Record anche per l’edizione on-line del TG1 che raccoglie le offerte di aiuto e di volontariato. Il TG1 è presente in Abruzzo con 8 inviati e 9 operatori dall’alba di lunedì”.
Occorre abbandonare il disgusto andando oltre la semplice partecipazione volontaristica, benché ora necessaria e meritoria. I proletari devono riprendersi lo Stato e lavorare per l’abbattimento dello scarto che divide la società in classi contrapposte. In questo modo non avremo uno Stato più forte ma una società senza la necessità dello Stato. Una società più giusta, più umana, possibilmente con qualche pannolino in proprio.

mercoledì 1 aprile 2009

Fascismo sì fascismo no... In Italia‏

Confrontate le posizioni del Guardian con quelle di Rossana Rossanda uscite in contemporanea su il Manifesto, chi avrà compreso meglio lo stato in cui si trova l'Italia?
31 marzo 2009
Italia: L'Ombra del Fascismo
guardian.co.uk
L'obiettivo centrale di Silvio Berlusconi come Primo Ministro italiano è sembrato a lungo straordinariamente e spudoratamente ovvio. Fin da quando, nel 1993, egli è entrato nel vuoto politico creato simultaneamente dallo scandalo della corruzione del governo a destra e dal collasso del comunismo italiano a sinistra, Berlusconi ha usato la sua carriera e il suo potere politico per proteggere sè stesso e il suo impero mediatico dalla legge. Durante il più lungo dei suoi tre periodi come Primo Ministro, Berlusconi non solo ha consolidato il suo già forte dominio sull'industria italiana dei media - ora ne possiede circa la metà - ma ha approvato una legge che gli garantiva l'immunità dai procedimenti giudiziari. Poi, quando la legge è stata dichiarata incostituzionale, il nuovamente rieletto Berlusconi l'ha ripresentata l'anno scorso con una nuova veste ed è riuscito a renderla effettiva.
Il successo di Berlusconi deve qualcosa alla sua propria audacia e molto alla profonda debolezza dei suoi oppositori. La sinistra italiana, in particolare, non è riuscita a preparare una vera opposizione. Perfino l'ultima azione di Berlusconi - la fusione nel suo nuovo blocco "Popolo delle Libertà", completato ieri, del suo partito personale Forza Italia con Alleanza Nazionale che deriva direttamente dalla tradizione fascista di Benito Mussolini - potrebbe lasciare nella vita pubblica italiana un segno più duraturo di qualsiasi altra cosa il magnate abbia già fatto.
A differenza del dopoguerra tedesco, il dopoguerra italiano non ha mai affrontato del tutto i suoi strascichi fascisti. Il risultato è che, mentre il neofascismo non è mai riuscito a riemergere seriamente in Germania, in Italia ci sono state importanti continuità - leggi ereditate dall'era mussoliniana e la rinascità nel dopoguerra del rinominato Partito Fascista tra gli stessi ufficiali fascisti - nonostante la simbolica cultura anti-fascista italiana. Queste continuità sono semplicemente diventate più forti. E' il giorno della vergogna in Italia.
Tuttavia, AN ha fatto molta strada in 60 anni. Il suo leader, Gianfranco Fini, ha tolto i vecchi panni politici e ha condotto il partito verso il centro. Egli ha lavorato per più di 15 anni come alleato di Berlusconi. Parla della necessità di dialogare con l'Islam, condanna l'anti-semitismo ed è a favore di un'Italia multi-etnica - posizione che Berlusconi, con la sua campagna populista anti-zingari e anti-immigrati e la sua predilezione per il razzismo spinto, si sforzerà di far combaciare.
Nonostante le sue antiche origini liberali, l'Italia moderna è storicamente un paese di destra. E' un pensiero a dir poco sconvolgente che, tra i 20 leader mondiali al summit economico di Londra di questa settimana, ci sia un capo di governo che ha ricostruito la sua base politica su fondamenta messe dai fascisti e che dichiara che la destra resterà probabilmente al potere per generazioni per questo.


il Manifesto
31 marzo 2009
Non occorre il fascismo. In altri termini, perché imporre il dominio se si esercita l’egemonia?
di Rossana Rossanda
Non credo che il fascismo sia alle porte. Se le parole hanno un senso, ed è buon uso lasciarglielo, fascismo è quel che abbiamo conosciuto dal 1922 al ‘43: partito unico che si fa stato, fine delle elezioni e della divisione dei poteri, fine dei sindacati, illegittimità del conflitto di lavoro, fine della libertà di associazione e stampa, razzismo e singolarmente antisemitismo. Un regime del genere è oggi impensabile in Europa. Nell’evocarne golosamente due aspetti, poteri allargati del premier senza il contropotere d’un parlamento e di una magistratura indipendente, Berlusconi ha fatto una gaffe.
Che ne abbia profittato Fini è ovvio. E che lo faccia con l’intenzione di succedergli, tanto più che il Cavaliere non lascia spazio ai suoi, eccezion fatta per Letta, come eminenza grigia capace di tirarlo silenziosamente fuori dai guai, con stile opposto a quello che il boss coltiva per catturare la «gente». E che gli funziona, gli italiani avendo un’antica tendenza a farsi, da popolo, plebe; oggi non più stracciona, ma piccolo e medio borghese, egoista e sorda.
Questa massa sarebbe anche disposta a benedire, come i suoi nonni liberali, un fascismo tale e quale, ma Fini, che è più intelligente, ha capito che non solo sarebbe fuori tempo, ma non è necessario a un muscoloso dominio di classe. Per indebolire partiti e sindacati basta una democrazia elettiva disinnescata da idee forti, un’opinione coltivata con libero zelo dai media all’antipolitica, al decisionismo, ai privilegi e al razzismo; l’antisemitismo, dopo la Shoah e in presenza di Israele, non usa più. Per il resto basta una democrazia presidenziale, tendenzialmente bipolare, tendenzialmente d’opinione, spontaneamente non partecipata con contropoteri più che legittimati ma ridimensionabili in situazioni definite consensualmente di emergenza. Di che altro ha avuto bisogno Bush? Di che ha bisogno Sarkozy, cui de Gaulle ha già fornito nel 1958 quel che Berlusconi vorrebbe, e sta spossessando la magistratura dalla decisione di impostare o archiviare i processi? La democrazia elettiva ha permesso Bevan e Thatcher, Bush e Obama. Può oscillare fra apertura sociale pacifista e repressione sociale bellicista. Senza strappi istituzionali. Dipende dal carattere del presidente.
Fini ha una larga possibilità di farsi strada come più presentabile leader di destra, e Berlusconi ieri lo ha capito. Assisteremo al duello. Almeno finché non si presenterà uno scenario diverso. Oggi non c’è una opposizione capace di imporlo. Non quella moderata, mandata al tappeto da Veltroni e difficilmente resuscitabile dal volonteroso Franceschini e dai suoi modesti secondi ufficiali. Non quella detta radicale, che tutto si propone tranne dare una rappresentatività e qualche ragionevole speranza al blocco sociale dei salariati, dei precari, delle donne più coscienti di sé, dei cattolici non ratzingeriani, dei movimenti. Neppure ora che dentro tutta l’Europa monta la collera dei buttati fuori dal lavoro e dal sostentamento, di una intera generazione di giovani senza prospettiva; una massa che potrà sommarsi o, in mancanza di qualsiasi riferimento, scontrarsi con una immigrazione sicuramente crescente. Mai la sinistra è stata così vergognosamente assente, mai ha così abbandonato la protesta alla sconfitta o a rivolte riducibili a questione di ordine pubblico. Mai davanti a un sistema sociale incastrato nemmeno dalle sue contraddizioni ma dai più sfacciati e, a quanto pare, incontrollabili imbrogli. A tanto siamo a venti anni dal liberatorio 1989.