Rituali di disumanizzazione, nelle famiglie borghesi, per essere capaci di praticare il crimine su scala industriale. Come dimostrato dalla Storia e dai recenti documenti Usa sulle torture da praticare su presunti terroristi e sull’attentato ad Evo Morales presidente della Bolivia.
Andrea Montella
La tomba del capo Apache profanata nel 1918, nove anni dopo la morte, da aderenti all'esclusiva confraternita Skull & Bones.
di Giuliano Capecelatro
Anche Roland Hedley, reporter virtuale ma tra i più famosi degli Stati Uniti, se ne occupa. Davvero Prescott, nonno di George W. Bush, e i suoi accoliti novant'anni fa trafugarono il teschio di Geronimo? Lo svagato protagonista della striscia di Garry Trudeau rilancia il quesito che da anni stuzzica l'immaginario nordamericano e conquista uno spazio crescente su giornali e canali televisivi. Spinto da una petizione presentata al Congresso degli Usa dai discendenti dell'indiano, che vorrebbero restituita la reliquia dell'avo famoso.
Inoltre, sono giusto cento anni che il legittimo proprietario di quel teschio, l'impavido e tenace Goyathlay, è passato a miglior vita. Espressione non retorica, viste le condizioni in cui trascorse i suoi ultimi anni. Era il 1909, ventesimo secolo appena iniziato, e novant'anni compiuti dal capo Apache. Che, nella prigione di Fort Sill, non ce la fece a resistere all'assalto di una polmonite. Lui che fino all'ultimo aveva dato filo da torcere a quei bianchi rapaci e fedifraghi, ed era passato incolume tra le loro pallottole, al punto da essere considerato sacro dai suoi compagni.
Nel 1918, mentre il primo conflitto mondiale sta per concludersi, il fattaccio. Presunto. In circolazione da anni. Rilanciato nel 2005 da uno storico, che si imbatte in una lettera di quegli anni in cui uno dei complici di Prescott Bush parla appunto del teschio e di alcuni ammennicoli asportati nottetempo da una tomba a Fort Sill, Oklahoma. Un furto rituale. Per una confraternita segreta, amante del macabro e a fortissima vocazione elitaria: Skull & bones (Teschio & ossa). Nata nel 1832, nel clima esclusivo dell'università di Yale. Qualcosa a metà tra i Rosacroce e la massoneria. Un vago ricordo degli Illuminati tedeschi. E, nel nuovo secolo, un progressivo slittamento verso simpatie naziste.
Roba da figli di papà, insomma. Ansiosi di fingere, anche con se stessi, di avere uno scopo superiore, trascendente, nella vita. Prima di sistemarsi; e, infatti, dalla Skull & bones sono usciti capi di stato, uomini d'affari, alti funzionari, leader di ogni genere. Adepti entusiasti della setta, nascosti dietro un marchio ufficiale, la Russel Trust Association, proprietaria della sede della confraternita. Dal nome significativo, The Tomb (la Tomba), un inquietante edificio assolutamente privo di finestre al numero 64 di High Street, a New Haven, nel Connecticut.
La trafila prevedeva un reclutamento annuale: quindici matricole di Yale da affiliare. Un corredo liturgico abbondantemente necrofilo, in un misto di satanismo da avanspettacolo e omosessualità latente. Il tutto con l'idea di creare un network mondiale di "ragazzi" in gamba. Visitare cimiteri e profanare tombe era una missione e un'attrazione irresistibile. E Goyathlay finì nella rete di questo gruppo di invasati eccellenti.
Il nome gutturale sta per "colui che sbadiglia". Forse il piccolo Geronimo, figlio di un pellerossa senza attribuzioni, non aveva preso troppo sul serio quella faccenda della nascita, sia pure in mezzo alla valorosa nazione Apache, a No-Doyohn, odierna Arizona, poca distanza dalle sorgenti del fiume Gila. Doveva mostrare a chiare lettere, spalancando e richiudendo la giovane bocca, la propria indifferenza. Così la mamma decise di registrare, attraverso l'anagrafe dei suoni, la disincantata attitudine del neonato. Che, comunque, tra uno sbadiglio e un altro, a otto anni già si occupava di caccia, a diciassette veniva cooptato nel consiglio dei guerrieri, e intanto coronava il suo sogno d'amore impalmando la giovane Alope, che avrebbe messo al mondo tre figli.
Ci penserà l'uomo bianco, sempre avido di fregare qualcosa agli altri, a scuoterlo dalla sua proclamata inerzia. Aveva circa trent'anni quando i soldati messicani penetrarono nel suo villaggio. Lui era assente, chiamato altrove da alcune trattative commerciali. Al ritorno trovò una di quelle scene raccapriccianti che propongono i film western dalla parte degli indiani. Devastato il villaggio, un ammasso di rovine fumanti. La madre, Alope e i tre piccoli trucidati. Ce n'era abbastanza per uscire dal torpore.
Goyathlay smise di sbadigliare. E rese insonni, per quanto poteva, con mezzi e uomini limitati, le notti degli uomini bianchi, pronti a rimangiarsi parole e a calpestare patti, con l'unico intento di arraffare. Il giovane Apache entrò in una banda e prese parte ad una accanita guerriglia contro un invasore tanto potente quanto spietato. Che si era già macchiato di numerosi eccidi, con i Lakota, i Cheyenne e con quante tribù capitavano a tiro di cannone.
Implacabile, Goyathlay. Quando incontrò gli odiati messicani sfidò la morte per placare la sete di vendetta. Durò quasi due ore il primo scontro. Pochi messicani sopravvissero per raccontarlo. E il giovane guerriero fu proclamato senz'altro capo. La guerra proseguì per oltre vent'anni. Geronimo, nome che gli avevano affibbiato i messicani, guidava razzie sul territorio messicano, crudele, inflessibile. Si alleò con Mangas Coloradas e Cochise. Sulle sue orme si era lanciato il colonnello Crook. Per qualche tempo Geronimo si adattò a vivere nella riserva. Morto Cochise, di fronte a una situazione insostenibile di diritti calpestati e violazioni, imboccò ancora una volta l'unica strada possibile per non vedere umiliata la propria dignità, quella delle armi.
Tornò a combattere americani e messicani. Con un pugno di uomini irriducibili. Fu aggirato, nel 1877, dall'agente della riserva di San Carlos, John Cium, che gli aveva assicurato di portarlo ad una trattativa. In realtà venne disarmato e spedito in prigione. Da cui uscì dopo quattro mesi. Con un'altra pattuglia di disperati, nel 1881 si rifugiava in Messico. L'anno successivo tornava a seminare il terrore negli Stati Uniti. Incursioni, rapide fughe, stratagemmi anche geniali di strateghi naturali. Capaci, come Loco, di aggirare e tener poi impegnato per ore un contingente di quattrocento uomini.
Goyathlay era diventato una spina nel fianco del governo statunitense. Che inopinatamente decise di affidare la partita a Crook, nel frattempo promosso generale. Non aveva certo brillato, Crook, nella campagna contro Sioux e e Cheyenne. Forse per questo pensò di giocare la carta della trattativa con quel Geronimo che definiva una "tigre in veste d'uomo". Tra i due si stabilì un'intesa; al capo Apache piaceva la ruvida onestà di Crook. Accettò quindi di tornare nella riserva di San Carlos con trecentocinquanta apache e i grandi capi Loco, Nana e Mangas Coloradas.
Ai bianchi, però, quella soluzione non andava giù. Il potere dei media era notevole anche nel diciannovesimo secolo. Si scatenò una virulenta campagna di stampa, che vedeva sul banco degli accusati il "morbido" Crook, colpevole di essersi fatto abbindolare dal demoniaco Goyathlay, di cui si chiedeva senz'altro la morte. Ancora una volta Geronimo e i suoi abbandonarono la riserva. Ancora una volta misero a dura prova le nutrite ed equipaggiatissime truppe messicane ed americane. Ancora una volta il moderato Crook riuscì a convincerlo: due anni di carcere in Florida, poi il ritorno alla riserva; questa la promessa con cui lo attirò.
Non aveva fatto i conti con l'incessante campagna d'odio. La sua parola venne sconfessata dal generale Sheridan, suo superiore. Geronimo riuscì a rendersi di nuovo uccel di bosco e Crook, a malpartito, dovette cedere il passo a Nelson Miles. Con una trentina di guerrieri, Goyathlay resistette fin quando gli fu possibile. Poi, circondato, fu costretto ad arrendersi a Miles. Era l'agosto 1886. Lo attendeva la prigione di Fort Pickens, in Florida. Otto anni di inferno e umiliazioni per tutti gli apache, separati dalle loro famiglie, recluse a Fort Marion. Otto anni dopo Geronimo arriva a Fort Sill. Dove dettò la propria biografia all'apache Asa Daklugie, tradotta poi da un ispettore scolastico e pubblicata fra mille imbarazzi. E qui moriva il 17 febbraio 1909.
Ma la storia proseguiva. Con i seguaci di Skull & bones che violano la tomba e portano via il teschio, delle briglie d'argento e pezzi di staffa. Tra questi Prescott. Il nipote, George W. Bush, futuro presidente degli Usa, si sarebbe iscritto anche lui alla setta. Il teschio, feticcio della confraternita, racchiuso in una teca di vetro passerà di mano in mano. Anni fa il fratello dell'ex presidente, Jonathan Bush, incontrò alcuni discendenti degli apache cui tentò di rifilare un teschio, con ogni probabilità falso. La petizione degli eredi di Goyathlay, "inorriditi", ha raccolto più di ottomila adesioni. Ma il mistero resta.
E c'è da pensare che non si risolverà. «Davvero il nonno di Bush rubò il teschio di Geronimo per la sua confraternita?», si chiede un annoiato Roland Hedley. E informa: «Varie ricerche su blog e social network non sono riuscite a dare prove significative». E' così. E quando gli viene proposto di fare un'inchiesta, ribatte seccato: «Come ai vecchi tempi? Per favore, è roba da giornali».
Andrea Montella
La tomba del capo Apache profanata nel 1918, nove anni dopo la morte, da aderenti all'esclusiva confraternita Skull & Bones.
di Giuliano Capecelatro
Anche Roland Hedley, reporter virtuale ma tra i più famosi degli Stati Uniti, se ne occupa. Davvero Prescott, nonno di George W. Bush, e i suoi accoliti novant'anni fa trafugarono il teschio di Geronimo? Lo svagato protagonista della striscia di Garry Trudeau rilancia il quesito che da anni stuzzica l'immaginario nordamericano e conquista uno spazio crescente su giornali e canali televisivi. Spinto da una petizione presentata al Congresso degli Usa dai discendenti dell'indiano, che vorrebbero restituita la reliquia dell'avo famoso.
Inoltre, sono giusto cento anni che il legittimo proprietario di quel teschio, l'impavido e tenace Goyathlay, è passato a miglior vita. Espressione non retorica, viste le condizioni in cui trascorse i suoi ultimi anni. Era il 1909, ventesimo secolo appena iniziato, e novant'anni compiuti dal capo Apache. Che, nella prigione di Fort Sill, non ce la fece a resistere all'assalto di una polmonite. Lui che fino all'ultimo aveva dato filo da torcere a quei bianchi rapaci e fedifraghi, ed era passato incolume tra le loro pallottole, al punto da essere considerato sacro dai suoi compagni.
Nel 1918, mentre il primo conflitto mondiale sta per concludersi, il fattaccio. Presunto. In circolazione da anni. Rilanciato nel 2005 da uno storico, che si imbatte in una lettera di quegli anni in cui uno dei complici di Prescott Bush parla appunto del teschio e di alcuni ammennicoli asportati nottetempo da una tomba a Fort Sill, Oklahoma. Un furto rituale. Per una confraternita segreta, amante del macabro e a fortissima vocazione elitaria: Skull & bones (Teschio & ossa). Nata nel 1832, nel clima esclusivo dell'università di Yale. Qualcosa a metà tra i Rosacroce e la massoneria. Un vago ricordo degli Illuminati tedeschi. E, nel nuovo secolo, un progressivo slittamento verso simpatie naziste.
Roba da figli di papà, insomma. Ansiosi di fingere, anche con se stessi, di avere uno scopo superiore, trascendente, nella vita. Prima di sistemarsi; e, infatti, dalla Skull & bones sono usciti capi di stato, uomini d'affari, alti funzionari, leader di ogni genere. Adepti entusiasti della setta, nascosti dietro un marchio ufficiale, la Russel Trust Association, proprietaria della sede della confraternita. Dal nome significativo, The Tomb (la Tomba), un inquietante edificio assolutamente privo di finestre al numero 64 di High Street, a New Haven, nel Connecticut.
La trafila prevedeva un reclutamento annuale: quindici matricole di Yale da affiliare. Un corredo liturgico abbondantemente necrofilo, in un misto di satanismo da avanspettacolo e omosessualità latente. Il tutto con l'idea di creare un network mondiale di "ragazzi" in gamba. Visitare cimiteri e profanare tombe era una missione e un'attrazione irresistibile. E Goyathlay finì nella rete di questo gruppo di invasati eccellenti.
Il nome gutturale sta per "colui che sbadiglia". Forse il piccolo Geronimo, figlio di un pellerossa senza attribuzioni, non aveva preso troppo sul serio quella faccenda della nascita, sia pure in mezzo alla valorosa nazione Apache, a No-Doyohn, odierna Arizona, poca distanza dalle sorgenti del fiume Gila. Doveva mostrare a chiare lettere, spalancando e richiudendo la giovane bocca, la propria indifferenza. Così la mamma decise di registrare, attraverso l'anagrafe dei suoni, la disincantata attitudine del neonato. Che, comunque, tra uno sbadiglio e un altro, a otto anni già si occupava di caccia, a diciassette veniva cooptato nel consiglio dei guerrieri, e intanto coronava il suo sogno d'amore impalmando la giovane Alope, che avrebbe messo al mondo tre figli.
Ci penserà l'uomo bianco, sempre avido di fregare qualcosa agli altri, a scuoterlo dalla sua proclamata inerzia. Aveva circa trent'anni quando i soldati messicani penetrarono nel suo villaggio. Lui era assente, chiamato altrove da alcune trattative commerciali. Al ritorno trovò una di quelle scene raccapriccianti che propongono i film western dalla parte degli indiani. Devastato il villaggio, un ammasso di rovine fumanti. La madre, Alope e i tre piccoli trucidati. Ce n'era abbastanza per uscire dal torpore.
Goyathlay smise di sbadigliare. E rese insonni, per quanto poteva, con mezzi e uomini limitati, le notti degli uomini bianchi, pronti a rimangiarsi parole e a calpestare patti, con l'unico intento di arraffare. Il giovane Apache entrò in una banda e prese parte ad una accanita guerriglia contro un invasore tanto potente quanto spietato. Che si era già macchiato di numerosi eccidi, con i Lakota, i Cheyenne e con quante tribù capitavano a tiro di cannone.
Implacabile, Goyathlay. Quando incontrò gli odiati messicani sfidò la morte per placare la sete di vendetta. Durò quasi due ore il primo scontro. Pochi messicani sopravvissero per raccontarlo. E il giovane guerriero fu proclamato senz'altro capo. La guerra proseguì per oltre vent'anni. Geronimo, nome che gli avevano affibbiato i messicani, guidava razzie sul territorio messicano, crudele, inflessibile. Si alleò con Mangas Coloradas e Cochise. Sulle sue orme si era lanciato il colonnello Crook. Per qualche tempo Geronimo si adattò a vivere nella riserva. Morto Cochise, di fronte a una situazione insostenibile di diritti calpestati e violazioni, imboccò ancora una volta l'unica strada possibile per non vedere umiliata la propria dignità, quella delle armi.
Tornò a combattere americani e messicani. Con un pugno di uomini irriducibili. Fu aggirato, nel 1877, dall'agente della riserva di San Carlos, John Cium, che gli aveva assicurato di portarlo ad una trattativa. In realtà venne disarmato e spedito in prigione. Da cui uscì dopo quattro mesi. Con un'altra pattuglia di disperati, nel 1881 si rifugiava in Messico. L'anno successivo tornava a seminare il terrore negli Stati Uniti. Incursioni, rapide fughe, stratagemmi anche geniali di strateghi naturali. Capaci, come Loco, di aggirare e tener poi impegnato per ore un contingente di quattrocento uomini.
Goyathlay era diventato una spina nel fianco del governo statunitense. Che inopinatamente decise di affidare la partita a Crook, nel frattempo promosso generale. Non aveva certo brillato, Crook, nella campagna contro Sioux e e Cheyenne. Forse per questo pensò di giocare la carta della trattativa con quel Geronimo che definiva una "tigre in veste d'uomo". Tra i due si stabilì un'intesa; al capo Apache piaceva la ruvida onestà di Crook. Accettò quindi di tornare nella riserva di San Carlos con trecentocinquanta apache e i grandi capi Loco, Nana e Mangas Coloradas.
Ai bianchi, però, quella soluzione non andava giù. Il potere dei media era notevole anche nel diciannovesimo secolo. Si scatenò una virulenta campagna di stampa, che vedeva sul banco degli accusati il "morbido" Crook, colpevole di essersi fatto abbindolare dal demoniaco Goyathlay, di cui si chiedeva senz'altro la morte. Ancora una volta Geronimo e i suoi abbandonarono la riserva. Ancora una volta misero a dura prova le nutrite ed equipaggiatissime truppe messicane ed americane. Ancora una volta il moderato Crook riuscì a convincerlo: due anni di carcere in Florida, poi il ritorno alla riserva; questa la promessa con cui lo attirò.
Non aveva fatto i conti con l'incessante campagna d'odio. La sua parola venne sconfessata dal generale Sheridan, suo superiore. Geronimo riuscì a rendersi di nuovo uccel di bosco e Crook, a malpartito, dovette cedere il passo a Nelson Miles. Con una trentina di guerrieri, Goyathlay resistette fin quando gli fu possibile. Poi, circondato, fu costretto ad arrendersi a Miles. Era l'agosto 1886. Lo attendeva la prigione di Fort Pickens, in Florida. Otto anni di inferno e umiliazioni per tutti gli apache, separati dalle loro famiglie, recluse a Fort Marion. Otto anni dopo Geronimo arriva a Fort Sill. Dove dettò la propria biografia all'apache Asa Daklugie, tradotta poi da un ispettore scolastico e pubblicata fra mille imbarazzi. E qui moriva il 17 febbraio 1909.
Ma la storia proseguiva. Con i seguaci di Skull & bones che violano la tomba e portano via il teschio, delle briglie d'argento e pezzi di staffa. Tra questi Prescott. Il nipote, George W. Bush, futuro presidente degli Usa, si sarebbe iscritto anche lui alla setta. Il teschio, feticcio della confraternita, racchiuso in una teca di vetro passerà di mano in mano. Anni fa il fratello dell'ex presidente, Jonathan Bush, incontrò alcuni discendenti degli apache cui tentò di rifilare un teschio, con ogni probabilità falso. La petizione degli eredi di Goyathlay, "inorriditi", ha raccolto più di ottomila adesioni. Ma il mistero resta.
E c'è da pensare che non si risolverà. «Davvero il nonno di Bush rubò il teschio di Geronimo per la sua confraternita?», si chiede un annoiato Roland Hedley. E informa: «Varie ricerche su blog e social network non sono riuscite a dare prove significative». E' così. E quando gli viene proposto di fare un'inchiesta, ribatte seccato: «Come ai vecchi tempi? Per favore, è roba da giornali».
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