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lunedì 4 maggio 2009

Afghanistan: soldati italiani sparano contro auto. Muore una bambina di 13 anni

Una bambina afghana di 13 anni è stata uccisa da una pattuglia italiana a Herat che ha aperto il fuoco contro un’automobile che non si sarebbe fermata come richiesto: una pattuglia di militari italiani composta da tre mezzi che stava procedendo lungo la strada ha incrociato un'autovettura civile che procedeva in senso opposto a ‘forte velocità’.
Il comando delle truppe occupanti italiane nella regione ha reso noto che alle 11 locali, (le 8,30 in Italia), una Toyota Corolla sw bianca "si lanciava a forte velocità verso una pattuglia dell'Omlt (operation mentoring laison team) che opera nella zona di Herat". La morte della bambina è stata confermata dal ministro degli Esteri, Franco Frattini, che ha espresso le ‘lacrime di coccodrillo’ di rito mentre nel pomeriggio si è appreso che la procura di Roma ha aperto un fascicolo per chiarire la dinamica di quanto accaduto a Herat.
Tempestiva la giustificazione dei propri militari da parte del comando: "i militari hanno prontamente e correttamente attuato tutte le procedure di segnalazione previste dalle procedure di impiego" e i colpi sparati contro l'auto hanno ucciso uno degli occupanti e ferito altri tre. "Dato che la vettura continuava la propria corsa, nonostante i segnali luminosi ed i colpi di avvertimento, i militari hanno fatto fuoco sul vano motore" si legge in una nota, "nello scontro è deceduto un cittadino afghano ed altri tre risultano essere feriti".
Media e comandi militari hanno prontamente parlato prima dei sospetti suscitati da un modello di automobile che sarebbe ritenuta la preferita per attentati e azioni kamikaze, mentre le agenzie di stampa nel presentare la notizia parlano addirittura di uno ‘scontro a fuoco’ mai avvenuto.
Un altro effetto collaterale della presenza nel paese di truppe straniere.

mercoledì 29 aprile 2009

All'ombra del virus

Un grande affare per le case farmaceutiche. La strana natura del virus. I piani di emergenza Usa
di Enrico Piovesana
L'influenza suina continua a mietere vittime in Messico e a seminare il panico in tutto il mondo, non solo tra la popolazione, ma anche sui mercati azionari che, nel timore di un blocco delle frontiere e delle attività commerciali ed economiche globali, registrano forti perdite in tutte le borse.
Grandi profitti per le case farmaceutiche. Gli unici che festeggiano sono i dirigenti e gli azionisti delle due multinazionali farmaceutiche, la svizzera Roche e la britannica GlaxoSmithKline, produttrici dei farmaci antinfluenzali di cui tutti i governi del pianeta stanno facendo incetta in questi ultimi giorni: il Tamiflu (Roche) e il Relenza (Glaxo).
Mentre tutti i titoli di borsa sono in calo, le quotazioni della Roche e della Glaxo stanno guadagnando su tutte le piazze mondiali. Per non parlare delle due aziende che detengono i brevetti dei due farmaci, la californiana Gilead (Tamiflu) - che ha tra i suoi principali azionisti l'ex capo del Pentagono, Donald Rumsfeld - l'australiana Biota (Relenza), i cui indici azionari sono schizzati alle stelle negli ultimi giorni.
Festeggiano anche le multinazionali farmaceutiche che hanno già preso accordi con l'Organizzazione mondiale per la sanità (Oms) per lo studio e la produzione di vaccini contro l'influenza suina: la francese Sanofi Aventis - che a inizio marzo aveva annunciato l'apertura, proprio in Messico, di uno stabilimento per la fabbricazione di un vaccino contro eventuali influenze pandemiche - la statunitense Baxter - recentemente coinvolta in un grave scandalo: aveva distribuito, in diciotto paesi, vaccini antinfluenzali contaminati dal virus dell'influenza aviaria - e la svizzera Novartis.
Un virus ibrido così strano da sembrare artificiale. Non sarà molto facile trovare un vaccino per questa influenza. Gli scienziati del Centro per il controllo delle malattie (Cdc) di Atlanta, il principale istituto epidemiologico statunitense hanno dichiarato che questo ceppo virale contiene una combinazione unica, mai vista prima, di sequenze genetiche di due diversi virus influenzali suini (uno di origine nordamericane e uno eurasiatico), del noto virus dell'influenza aviaria e della familiare influenza umana. Un ‘riassortimento' genetico così particolare, da far addirittura sorgere dubbi sull'origine naturale di questo nuovo supervirus.
Negli ultimi anni i riassortimenti artificiali di virus sono diventati una pratica comune nei più avanzati centri di ricerca epidemiologica di tutto il mondo, e soprattutto negli Stati Uniti.
Nel 2005, ad esempio, i bioingegneri del Cdc di Atlanta hanno creato in laboratorio un virus pandemico artificiale combinando il ceppo dell'influenza aviaria con quello della normale influenza umana. Lo stesso hanno fatto gli scienziati della già citata Baxter. Esperimenti, questi, giudicati molto pericolosi, ma considerati necessari per studiare le modalità di contagio e i possibili vaccini.
Analoghi virus artificiali ibridi vengono prodotti, ma a scopi ben diversi (la guerra batteriologica), anche nei laboratori militari dell'Istituto di medicina per le malattie infettive dell'esercito Usa (Usamriid) di Fort Detrick, in Maryland, lo stesso da cui proveniva l'antrace usato negli attacchi bioterroristici del 2001.
Usa: in caso di emergenza potrebbe intervenire l'esercito. In attesa che venga scoperto un vaccino contro questa pandemia influenzale, i governi di mezzo mondo, oltre a fare scorta di Tamiflu e Relenza, si preparano al peggio. In particolare il governo degli Stati Uniti: i più vicini al focolaio influenzale, dove da tempo sono pronti appositi piani di emergenza che prevedono addirittura l'utilizzo delle forze armate per mettere in quarantena la popolazione infettata, compiere evacuazioni forzate e mantenere l'ordine pubblico. Sulla base delle linee guida della ‘Strategia nazionale per l'influenza pandemica', elaborata dall'amministrazione Bush nel novembre 2005, il Pentagono ha preparato nell'agosto 2006 un ‘Piano di implementazione per l'influenza pandemica' in cui si legge: "Al fine di bloccare la diffusione del virus, il dipartimento della Difesa può essere chiamato a intervenire per assistere le autorità civili nell'isolare e quarantenare singoli individui o popolazioni, anche contro la loro volontà (...) e per ristabilire e mantenere l'ordine pubblico in caso di disordini".

lunedì 27 aprile 2009

Paragona olocausto a dramma palestinese....licenziato

Itamar Shapira, docente dell’Istituto di studi sulla Shoah annesso al museo-memoriale Yad Vashem di Gerusalemme, è stato licenziato per aver paragonato il dramma vissuto dagli ebrei durante il periodo nazista a quello di centinaia di migliaia di palestinesi costretti ad abbandonare le loro terre e le loro case a partire dal 1948.
La notizia, ripresa da tutti media israeliani, è stata confermata sia dalla dirigenza del museo - dove Shapira svolgeva anche il ruolo di guida – oltre che dal diretto interessato. Dal resoconto fatto dal quotidiano ‘Haaretz’ sembra che ad aver suscitato l’ira dei datori di lavoro di Shapira sia stato il parallelo fatto tra la shoah e le violenze commesse dagli israeliani nel villaggio palestinese di Deir Yassin, le cui rovine sono ancora visibili proprio all’esterno del memoriale.
A Deir Yassin, nel 1948, furono alcune centinaia - secondo diverse fonti anche israeliane - le vittime palestinesi di un attacco di formazioni paramilitari ebraiche; da quel momento, partirono concretamente la formazione dell’attuale stato israeliano e la fuga di centinaia di migliaia di palestinesi tuttora confinati – insieme ai loro discendenti – in decine di campi profughi costruiti in Cisgiordania, a Gaza e nei paesi arabi vicini come Siria, Giordania e Libano in particolare. Giustificando la decisione presa, la dirigenza del museo ha sostenuto che l’olocausto non può essere paragonato a nessun altro evento.

venerdì 24 aprile 2009

Scontri a Kfar Qassem, ancora ordini di demolizioni per abitazioni di palestinesi. Oggi nuova manifestazione a Bil'in

È di cinque agenti israeliani contusi e diversi dimostranti arrestati il bilancio degli scontri verificatisi nel cuore della notte di ieri nel villaggio arabo-israeliano di Kfar Qassem, dove le forze di polizia erano arrivate per eseguire un ordine di demolizione della magistratura di un edificio in costruzione ritenuto abusivo. Secondo Ynet, l'agenzia online del giornale israeliano Yediot Ahronot, 400 abitanti del villaggio, armati di sassi e bottiglie molotov hanno atteso l'arrivo delle forze dell'ordine. Quattro dimostranti sono stati arrestati sul posto, mentre altri fermi sono in corso in queste ore in base alle identificazioni effettuate dopo gli scontri.
"Sono venuti di notte come ladri, ma eravamo pronti ad accoglierli", ha detto un abitante a Ynet, contestando come un pretesto il richiamo alle norme edilizie dietro l'ordine di demolizione. Le autorità israeliane sono impegnate in una serie di procedure di demolizione in aree contese - in particolare nella zona di Gerusalemme est, a maggioranza araba - denunciate dai palestinesi come altrettanti tentativi di modifica degli equilibri etnici e che hanno suscitato preoccupazioni anche da parte di Usa e Ue.
“Oggi come ogni venerdì la gente di Bil’in protesterà pacificamente davanti il muro costruito dagli israeliani, ma questa volta ricorderà Bassem che la scorsa settimana è stato ucciso dai soldati per la sola colpa di rivendicare in maniera pacifica la terra espropriata del suo villaggio”: la vice-presidente del parlamento europeo, Luisa Morgantini, raggiunta dalla MISNA a Bil’in, racconta la storia di questo villaggio che ha perso il 65% delle sue terre coltivabili a causa della costruzione di un muro di separazione da parte di Israele. “C’è anche una sentenza della Corte israeliana che ha dato ragione agli abitanti ma che è stata finora disattesa da esercito e governo” continua la Morgantini sottolineando come ciononostante la reazione della gente sia sempre stata affidata a manifestazioni di protesta pacifiche.
“Purtroppo non è così dall’altra parte del muro - dice - tanto che la scorsa settimana Bassem, un palestinese molto noto a Bil’in e da sempre animatore di parecchie iniziative, è stato colpito a morte da un candelotto lacrimogeno sparato da brevissima distanza”. A Bil’in sarà una giornata speciale in suo ricordo, ma anche per la presenza di numerose delegazioni straniere venute qui in occasione della IV Conferenza annuale della resistenza non violenta all’occupazione israeliana. “Delegati pervenuti da ogni continente – ha detto ancora la vice-presidente del parlamento europeo – stanno discutendo di forme di lotta non violenta e popolare. Noi stessi, nell’ambito del parlamento, stiamo cercando di evitare che l’Unione Europea potenzi gli accordi attualmente in vigore con lo stato israeliano”. Boicottaggi e proteste pacifiche, oggi anche a nome di Bassem, le cui immagini stampate in grandi poster campeggiano per le strade di Bil’in accanto alla bandiera palestinese.

Palestina: Israele uccide un manifestante a Bil'in
Quando ancora non si sono sopite le polemiche internazionali sorte intorno alla conferenza di Durban2, giunge, già vecchia di qualche giorno, questa nuova, orribile testimonianza dei metodi "democratici" dello stato d'Israele: l'uccisone di un palestinese (pacifista!).
Dal solo filmato ora visibile si vede chiaramente e senza ombra di dubbio che: tutti i manifestanti dimostravano in modo assolutamente non violento urlando slogan. Bassem Abu Rahme (questo il suo nome)è in prima fila visibilissimo e senza intenzioni di lanciare pietre o qualsiasi altro oggetto i soldati sparano i candelotti sembra di nuova fattura ad altezza d'uomo al punto da colpire in pieno petto Bassem.
La protesta di Bil'in - che vede palestinesi insieme a pacifisti israeliani ed internazionali - si batte da anni contro il Muro della vergogna voluto da Sharon. Muro che, in data 9 luglio 2004, è stato dichiarato illegale dalla corte internazionale dell'aja. ( è comunque legittima indipendentemente dal giudizio del tribunale in quanto opposizione ad un'occupazione straniera). Muro nche serve solo a permettere l'annessione di nuovi territori alla popolazione palestinese per darla ai coloni che si insediano violando così la quarta convenzione di ginevra.
Tutto questo le potenze occidentali non solo non lo condannano ma continuano ad appoggiare permettendo ad israele di fare il bello e il cattivo tempo. Boicottare i prodotti israeliani disdire gli accordi con quelle università israeliane che hanno programmi di ricerca nel campo militare o artisti che appoggiano la politica del loro governo è una necessità inderogabile.

Video dell'ennesimo omicidio di stato:


giovedì 23 aprile 2009

Waterboarding: emergono le responsabilità dirette di Condoleeza Rice nelle torture

di Giorgio Trasarti
In un rapporto mostrato ieri dalla Commissione per l’Intelligence del Senato degli Stati Uniti d’America vengono riportati, nel dettaglio, i passaggi con cui le pratiche più dure e crudeli utilizzate dalla Cia durante gli interrogatori furono ideate e approvate ai più alti livelli della Casa Bianca nell’era di George W. Bush. Il documento, rilanciato dalla Associated Press, testimonia il ruolo di primo piano occupato dall’allora consigliere per la Sicurezza nazionale, Condoleeeza Rice. Nel luglio del 2002 la Rice approvò verbalmente la richiesta della Cia di utilizzare utilizzare la tecnica del waterboarding (annegamento simulato) sul presunto terrorista di al Qaida Abu Zubaydah. Pochi giorni dopo, il Dipartimento di Giustizia approvò l’utilizzo di questa tecnica, come riportano i memo segreti che l’amministrazione Obama ha reso pubblici, tra mille polemiche, la scorsa settimana.
Lo scorso autunno, in una testimonianza scritta presentata alla Commissione armamenti del Senato, l’ex Segretario di Stato sostenne di aver solo preso parte a riunioni in cui si era discusso sulle richieste di interrogatorio della Cia, ma si decise poi di chiedere una valutazione legale al ministro della Giustizia. La Rice aveva inoltre detto di non ricordare i dettagli delle riunioni. Contrariamente a quanto affermato, il braccio destro di Bush ebbe invece un ruolo diretto nella vicenda dando per prima il via libera all’allora direttore della Cia George Tenet. Pochi giorni dopo, e dopo l’approvazione del ministero della Giustizia, come si legge nel memorandum segreto del 1 agosto 2002, il detenuto Zubaydah veniva sottoposto a waterboarding almeno 83 volte nel solo mese di agosto.
Il waterboarding consiste nell'immobilizzare un individuo e versare acqua sulla sua faccia per simulare l'annegamento facendo credere al soggetto che la morte sia imminente, benché non causi danni fisici permanenti. "La minaccia di morte imminente" è una delle definizioni legali di tortura secondo la legge statunitense.
Nel documento reso pubblico ieri appare oltretutto evidente come i pareri negativi di alcuni legali dell’amministrazione Bush su queste pratiche furono repentinamente accantonati. Un portavoce della Rice, contattato dalla Associated Press, si è rifiutato di commentare la notizia. Per avere un’ idea di cosa si provi all’essere sottoposti al waterboarding, definito da Dick Cheney, vicepresidente durante l'amministrazione di George W. Bush, "un tuffo in acqua", non una forma di tortura, ma piuttosto "uno strumento molto importante" per gli interrogatori:

Israele: "Papa non riceva sindaco palestinese". Avvocati norvegesi intentano causa contro governo Olmert

di Gabriele Paglino
Tel Aviv ha invitato la Santa Sede a cancellare l'incontro in Vaticano tra il Papa e il sindaco di Sakhnin, una città araba nel nord di Israele abitata da una minoranza di cristiani. Il primo cittadino, che domenica prossima dovrebbe incontrare il Papa a Roma, a detta del governo ultra sionista sarebbe "un guerrafondaio sostenitore dei terroristi". La richiesta arriva dal portavoce del ministro del Turismo ed esponente dell'estrema destra sionista di Yisrael Beiteinu nonchè responsabile del viaggio di Benedetto XVI a maggio in Israele e Cisgiordania, Stas Misezhnikov. Il sindaco di Sakhnin, Mazen Ghanaim, sarebbe "reo" di aver organizzato, durante il massacro operato da Israele nella Striscia di Gaza, una manifestazione in cui sostenne la resistenza palestinese contro la crudele e oppressiva occupazione israeliana. E proprio la presunta scarsa fedeltà degli arabi israeliani allo Stato e' stata proprio la piattaforma di Yisrael Beiteinu. Chissà cosa risponderà la "diplomatica" diplomazia d'oltre Tevere?
In Norvegia intanto un gruppo di avvocati ha depositato una denuncia per "crimini di guerra" e "attacco terroristico su vasta scala" ai danni dei maggiori esponenti dell'ex governo israeliano: Ehud Olmert, Tzipi Livni, Ehud Barak e sette ufficiali dell'esercito israeliano. L'accusa riguarda le loro palesi responsabilità nell'operazione 'Piombo fuso' contro la Striscia di Gaza, tra dicembre 2008 e lo scorso gennaio. Gli avvocati, rappresentanti di alcuni cittadini norvegesi di origine palestinese "che hanno subito la perdita di propri cari durante le operazioni militari", sostengono che "non esiste alcun dubbio sul fatto che i soggetti accusati fossero a conoscenza, ordinarono o approvarono le azioni commesse a Gaza, e che avessero valutato le conseguenze di tali azioni". Il procuratore generale Siri Frigaard ha confermato di aver ricevuto la denuncia: "Procederemo a esaminarla e valutarla prima di trasmetterla alla polizia alla quale spetterebbe condurre un'inchiesta" ha detto, precisando che il codice penale norvegese autorizza i tribunali a giudicare casi relativi a crimini di guerra e altre violazioni dei diritti umani. Proprio ieri, il quotidiano israeliano 'Jerusalem post' ha pubblicato gli esiti di un'indagine interna all'esercito israeliano sulle operazioni condotte a Gaza. Respinte tutte le accuse (aver violato la convenzione di Ginevra sui crimini di guerra; aver sparato contro strutture mediche palestinesi e delle Nazioni Unite; aver ucciso civili innocenti; usato armi al fosforo bianco e bombardato infrastrutture e zone densamente abitate). Lo stato maggiore di Tel Aviv risponde infatti che i soldati "hanno tenuto un alto profilo morale" operando "in accordo con le leggi internazionali". Secondo il generale Dan Harel, capo di stato maggiore aggiunto, le inchieste condotte hanno rivelato "un certo numero di incidenti" causati da errori dei servizi di informazione "sfortunatamente inevitabili", come il caso di un bombardamento di un immobile nel quartiere di Zeitoun, a sud di Gaza, considerato un sito di stoccaggio di armi da parte di Hamas e rivelatosi invece un'abitazione civile, costato la vita a 21 membri di una stessa famiglia. Per questi "errori", comunque, non sarà avviata alcuna inchiesta poiché "non ci sono responsabilità da accertare". Alcune organizzazioni peri i diritti umani, che già in passato avevano manifestato dubbi sull'imparzialità delle indagini condotte all'interno dell'esercito si sono dette "totalmente insoddisfatte" delle conclusioni pubblicate, rinnovando l'invito ad avviare procedimenti extra-militari. Ma si sa "criticare Israele - come dice il premio Pulitzer, Seymour Hersh - è difficile, impossibile e praticamente inutile. Non ti ascoltano".

mercoledì 22 aprile 2009

Vertice Mediterraneo e ONU: “No a nuove colonie israeliane in Palestina”

Nel giorno in cui il mondo si concentrava sulle polemiche intorno alla Conferenza dell’ONU di Ginevra contro il razzismo, boicottata da Israele e dai suoi alleati, due diverse denunce del colonialismo israeliano hanno riportato l’attenzione sulle condizioni del popolo palestinese.
Porre fine alla costruzione di insediamenti coloniali israeliani in Cisgiordania per far ripartire il processo di pace in Medio Oriente: è questo uno dei punti più significativi della Dichiarazione di Cordova, la città spagnola dove si è conclusa ieri la VII riunione dei ministri degli Esteri del Mediterraneo occidentale. “I ministri – si legge nel documento – ribadiscono l’esigenza di un congelamento completo e immediato delle attività di colonizzazione contrarie al diritto internazionale… in tutti i territori palestinesi occupati, inclusa Gerusalemme Est”. Un assunto fatto proprio dal ministro degli Esteri spagnolo Miguel Angel Moratinos che ha presieduto l’incontro insieme al collega marocchino Tayyeb Fassi-Fihri: “I nostri paesi - ha detto Moratinos – lanciano un appello urgente per garantire e rendere possibile la soluzione di due stati, Israele e Palestina, che vivano in pace e sicurezza”. Una prospettiva, quella dei due stati, rigettata apertamente dal nuovo governo di Tel Aviv ormai su posizioni esplicitamente oltranziste. Co-presieduto da Marocco e Spagna, il vertice si è inoltre concentrato sulle prospettive delle relazioni tra le due sponde del Mediterraneo e sulla possibilità di rendere più concreto il progetto di una Unione del Mediterraneo lanciato lo scorso luglio a Parigi in antagonismo con il progetto del ‘Grande Medio Oriente’ caro a Washington e basato invece sul ruolo centrale di Tel Aviv e dei governi di Egitto e Giordania. A Cordova erano rappresentati Marocco, Mauritania, Algeria, Tunisia e Libia per l’Africa, Spagna, Portogallo, Francia, Italia e Malta per l’Europa.
La necessità di giungere in tempi brevi a una pace tra palestinesi e israeliani - e in tutto il Medio oriente - è stata ribadita anche in una relazione di Lynn Pascoe, Segretario generale aggiunto per gli affari politici, al Consiglio di sicurezza dell’Onu. Facendo riferimento all’ultima vasta operazione militare israeliana, che tra Dicembre e Gennaio scorsi ha causato la morte di oltre 1400 abitanti della Striscia di Gaza, in gran parte civili, Pascoe ha passato in rassegna i numerosi aspetti di una situazione che invece di procedere nella direzione di una pace definitiva e giusta sembra complicare ulteriormente un quadro già molto complesso. Pascoe ha in particolare sottolineato che la costruzione israeliana di unità abitative, strade e altre infrastrutture in Cisgiordania sta creando ulteriori ostacoli alla possibilità di avere in futuro uno stato palestinese territorialmente contiguo. Il diplomatico ha puntato il dito anche contro il proseguimento del blocco dei confini attuato da Tel Aviv ai danni della Striscia di Gaza – dal 2007 controllata da Hamas – e contro le incursioni aeree israeliane tuttora in corso.

martedì 21 aprile 2009

Si chiama sete l'ultima tortura per la Palestina

di Michele Giorgio
La distribuzione dell'acqua tra israeliani e palestinesi, decisa con gli accordi di Oslo II del 1995, deve essere modificata immediatamente se si vuole mettere fine ad una discriminazione che sta per provocare una catastrofe nei Territori occupati. A raccomandarlo con forza è la Banca mondiale che in un rapporto diffuso ieri riferisce che un israeliano ha a disposizione una quantità d'acqua quattro volte superiore a quella di un palestinese. L'accordo siglato dalle due parti ha messo in ginocchio i palestinesi, vittime di intese di 14 anni fa, frutto delle imposizioni della parte più forte, Israele, sulla debole Anp dello scomparso Arafat.
E' la prima volta che la Banca mondiale produce un rapporto sulla distribuzione dell'acqua tra israeliani e palestinesi. Lo studio sottolinea che la divisione ineguale delle risorse idriche e la mancanza di informazioni precise sulle riserve di acqua, ha impedito ai palestinesi di poter accedere a nuove fonti. I palestinesi hanno diritto soltanto a un quinto delle riserve dell'acqua potabile. Il resto finisce nel sistema di distribuzione israeliano senza che il comitato congiunto incaricato dagli accordi di Oslo abbia la possibilità di riconsiderare l'assegnazione delle quote. In sostanza Tel Aviv si preoccupa di tenere la quantità d'acqua per la sua popolazione sugli standard stabiliti internazionalmente, senza preoccuparsi delle conseguenze per i palestinesi. E' da considerare anche il fatto che i rari nuovi pozzi che i palestinesi hanno potuto scavare nei 42 anni di occupazione, hanno garantito modeste quantità di acqua a differenza degli israeliani che, grazie alla loro tecnologia, possono arrivare a profondità maggiori. I problemi sono resi più acuti dall'inefficienza delle istituzioni dell'Anp.
Israele ha respinto il rapporto sostenendo che il suo apparato industriale, ampiamente superiore a quello palestinese, richiede maggiore quantità d'acqua. Dopo l'occupazione di Cisgiordania e Gaza nel 1967, l'esercito israeliano trasferì il controllo delle risorse idriche palestinesi alla società Mekorot. Da allora i palestinesi hanno un controllo molto limitato delle proprie risorse idriche che, in buona parte, finiscono in Israele. Diversi villaggi della Cisgiordania inoltre non hanno acqua potabile per gran parte dell'anno e gli abitanti, paradossalmente, sono costretti in non pochi casi a comprarla dai coloni israeliani che occupano la loro terra.

Ginevra. La Conferenza dell'ONU sul razzismo rivela l'isolamento dell'Europa e di Israele.

I delegati della maggioranza del pianeta applaudono il discorso del presidente iraniano

Sono le 15 e 30 passate da poco quando l’attacco del presidente iraniano Amadinejhad a Israele, mai nominato, va a segno, sia pure con toni meno veementi che in passato (nessun auspicio alla sua «cancellazione dalle carte geografiche»). Nel suo intervento alla Conferenza delle Nazioni Unite sul razzismo, il capo dello Stato iraniano ha infatti nuovamente attaccato Israele: «Dopo la fine della Seconda guerra, loro (gli alleati, ndr) hanno fatto ricorso all'aggressione militare per privare una nazione intera delle sue terre, prendendo come pretesto la sofferenza ebraica», ha affermato. «Hanno mandato degli emigranti dall'Europa e dagli Stati Uniti per creare un governo razzista nella Palestina occupata», ha sottolineato Ahmadinejad. I rappresentanti dei 23 Paesi dell’Unione europea che avevano scelto di non boicottare la Conferenza (fra loro Francia, Gran Bretagna e Spagna) si alzano e abbandonano l’Assemblea, come avevano annunciato in caso di attacchi a Israele da parte del presidente iraniano. Ahmadinejad, interrompe il discorso. Aspetta il silenzio e riprende: «È necessario mettere fine agli abusi dei sionisti e di chi li sostiene», dice leggendo dal testo, adesso. Ma è quando accusa «gli Stati occidentali di essere rimasti in silenzio di fronte ai crimini commessi a Gaza» che gran parte dell’assemblea - composta ormai in maggioranza dai rappresentanti dei paesi arabi, africani, asiatici e dell'America Latina - applaude in modo visibile e scrosciante rivelando al mondo che i paesi europei non sono più i "rappresentanti del mondo" ma solo una parte di esso e neanche più quella principale.

Israele. I sopravvissuti ai lager nazisti vivono in miseria e dimenticati dal governo

Migliaia di sopravvissuti dell'Olocausto che vivono in Israele devono ancora ricevere gli aiuti garantiti loro dallo Stato, nonostante siano state introdotte nuove leggi negli ultimi due anni per migliorare le loro condizioni di vita. Lo riporta il sito web del Jerusalem Post. Secondo le statistiche fornite ieri dal ministero del Welfare israeliano, poco più della meta dei 243mila sopravvissuti che vivono in Israele hanno ricevuto finora aiuti da parte dello Stato. Il Jerusalem Post ha inoltre appreso che appena 2.300 persone hanno beneficiato degli aiuti addizionali previsti da una legge del marzo 2008, che avrebbe dovuto aiutare circa 8mila sopravvissuti, in gran parte immigrati della ex Unione Sovietica. Per i gruppi no-profit oltre un terzo dei sopravvissuti della Sohah vive al di sotto della soglia di povertà. Oggi in Israele si celebra la Giornata della Memoria, in cui vengono ricordati i sei milioni di ebrei sterminati dai nazisti. Ieri sera, nel corso della cerimonia di apertura, il premier Benjamin Netanyahu ha promesso ai sopravvissuti che il suo governo si impegnerà a fornire la massima assistenza possibile.

lunedì 20 aprile 2009

Connessioni inquietanti tra i mercenari neutralizzati in Bolivia e le reti terroristiche attive in Europa

La storia di Eduardo Rosza Flores, uno dei tre mercenari uccisi dalle forze di sicurezza boliviane dopo un violentissimo scontro a fuoco, è rivelatrice di scenari inquietanti che collegano i gruppi eversivi in America Latina con reti analoghe anche in Europa.
Eduardo Rosza Flores nasce in Bolivia nel ’60 da padre ebreo comunista ungherese e madre cattolica boliviana, dopo un passaggio in Cile e uno in Svezia, a 14 anni ritorna in Ungheria. A Budapest finisce gli studi e si arruola. Si specializza militarmente in Unione Sovietica, ma dopo meno di due anni si dimette. «Niente di più noioso che fare il soldato in tempo di pace», spiegherà. Vivrà per un periodo in Israele «alla ricerca delle radici».
Nel ’91 Flores era corrispondente per il quotidiano spagnolo Vanguardia e il giornale di Barcellona lo mandò a seguire gli albori del conflitto yugoslavo. Osservò due cose. «Che mi trovavo meglio con i soldati croati che con i miei colleghi» e che «i serbi sparavano deliberatamente sui giornalisti».Si licenziò con un telegramma, si arruolò direttamente nell’esercito croato, fondò la Brigata internazionale (Piv): una sorta di legione straniera di cui, col grado di colonnello, divenne il capo. Rosza Flores organizzò la fuga degli ebrei albanesi da un paese ormai in disfacimento. Operazione di certo gradita al Mossad. Più di recente, fu avvistato in Iraq; si presume col ‘gradimento’ della Cia. Di passaporti ne aveva diversi.
Eduardo Rosza Flores è anche il protagonista del film "Chico. Una storia di guerra croata, ungherese ed ebrea" che ricevette alcuni premi nella Repubblica Ceca ed è il frutto di una coproduzione cilena, ungherese, croata, francese.
"Nel ’94, trascorsi un paio di giorni con lui - racconta sul Quotidiano Nazionale il giornalista italiano Andrea Cangini - e dopo l’uscita dell’intervista, fummo abbordati da un fotoreporter. Ci mise in guardia. Considerava Flores responsabile dell’assassinio di due giornalisti che indagavano su un traffico d’armi".
Il coinvolgimento di mercenari europei, già attivi nelle milizie di destra all’interno della guerre che hanno dilaniato la Jugoslavia negli anni Novanta, rivelano all’opinione pubblica internazionale l’esistenza di una rete terrorista neofascista ancora attiva e che trova nelle forze reazionarie ancora dominanti in alcune regioni boliviane, un inquietante centro di complicità. Lo scenario disegnato dagli attentati contro il Presidente e il Vicepresidente della Bolivia e contro il cardinale di Santa Cruz appare estremamente grave e preoccupante non solo per la Bolivia ma per tutte le forze democratiche e progressiste dell’America Latina e del mondo.
I democratici e i progressisti italiani non possono rimanere indifferenti di fronte alla gravità dei fatti accaduti in Bolivia. Non solo per la simpatia e la solidarietà verso il primo presidente indigeno nella storia recente dell’America Latina e della Bolivia o per il processo democratico e popolare che la nuova Costituzione boliviana sta realizzando. Quanto accaduto in Bolivia concretizza agli occhi dell’opinione pubblica l’esistenza ancora attiva di quella rete terroristica neofascista che ha insanguinato con attentati e stragi anche la storia recente dell’Italia e che ha trovato storicamente rifugio e complicità proprio negli ambienti della destra boliviana che oggi si oppone violentemente al cambiamento democratico in corso in Bolivia. Non è irrilevante ricordare che il fascista italiano Stefano Delle Chiaie collaborò insieme al nazista tedesco Klaus Barbie nel golpe militare del 1980 in Bolivia e assunse incarichi di consigliere nel regime emerso dal golpe o che - molto più recentemente - un altro fascista italiano rifugiatosi in Bolivia, Marco Marino Diodato, è coinvolto nella strage degli indios sostenitori di Evo Morales avvenuto a Pando nel settembre 2008 e fondatore nel '94 dell'organizzazione paramilitare FRIE, la Fuerza de Reacion Immediata del Ejercito.
Esprimendo la nostra piena solidarietà al Presidente Evo Morales, al suo governo e al popolo boliviano intendiamo esprimere anche la nostra determinazione nel combattere in ogni angolo del mondo il terrorismo neofascista che intende sbarrare la strada al protagonismo popolare nei processi di cambiamento democratico, in Bolivia come in Europa.

la redazione di Contropiano - Giornale della Rete dei Comunisti
la redazione di Nuestra America
www.contropiano.org; www.nuestra-america.org

venerdì 17 aprile 2009

Israele, siluro sull'inchiesta Onu

«Commissione non imparziale», Tel Aviv chiude la porta a Goldstone Nessuna collaborazione con gli ispettori che indagheranno su Piombo fuso.
di Michelangelo Cocco
Tel Aviv non collaborerà con l'inchiesta delle Nazioni Unite sull'operazione «Piombo fuso», l'offensiva delle truppe israeliane che tra il 27 dicembre 2008 e il 18 gennaio 2009 ha causato la morte di oltre 1.417 palestinesi (la maggior parte dei quali civili) nella Striscia di Gaza. «Israele ha informato il Consiglio dei diritti umani dell'Onu che non coopererà con un'indagine basata su una risoluzione non imparziale» ha dichiarato alla France presse un funzionario dello Stato ebraico che ha chiesto di restare anonimo. Hamas al contrario - riferisce il quotidiano Ha'aretz - ha fatto sapere di essere pronta a cooperare con la squadra guidata da Richard Goldstone, il giudice sudafricano (ex procuratore dei tribunali per i crimini di guerra commessi in Ruanda ed Ex Yugoslavia) che guiderà gli investigatori attesi tra qualche settimana nella regione e il cui rapporto al Consiglio è previsto per il luglio prossimo.
La lettera che ufficializza il diniego è stata spedita, attraverso l'ambasciata israeliana a Ginevra, a Goldstone e alla sede dell'Agenzia dell'Onu che si occupa dei diritti umani. Senza la collaborazione da parte delle autorità israeliane, per gli investigatori di Goldstone sarà più difficile raccogliere prove sulle armi utilizzate contro Gaza, su condotte criminali da parte dei soldati e su eventuali ordini che le hanno causate. Già da qualche giorno si era capito che i responsabili dei massacri di Gaza avevano intenzione di mettere il bastone tra le ruote all'iniziativa del Consiglio, di cui fanno parte 47 paesi: «L'indagine non ha alcuna base morale, perché già prima di essere iniziata ha deciso chi è colpevole e di cosa» aveva tagliato corto qualche giorno fa Yigal Palmor, il portavoce del ministero degli esteri.
All'allora governo Olmert proprio non era andata giù la risoluzione, adottata dal Consiglio dei diritti umani il 12 gennaio scorso, che condannava l'offensiva militare e chiedeva la fine dei bombardamenti. Eppure Goldstone, che si era detto «scioccato» per l'incarico affidatogli - a causa della sua collaborazione con istituzioni israeliane (tra cui l'università ebraica di Gerusalemme) - aveva fatto di tutto per non suscitare il sospetto delle autorità israeliane. Mentre il mandato gli chiede d'indagare sulla condotta delle truppe di Tel Aviv nei 22 giorni di attacco a Gaza, il giudice aveva dichiarato di voler prendere in esame tutte le presunte violazioni (anche i lanci di razzi da parte di Hamas) e di voler estendere il raggio temporale dell'inchiesta al periodo precedente l'attacco, per spiegarne il contesto.
Le organizzazioni non governative palestinesi e internazionali - tra cui Amnesty international e Human rights watch - hanno raccolto indizi che accusano l'esercito di aver bombardato aree densamente popolate, utilizzato munizioni al fosforo bianco su zone abitate, impiegato palestinesi come scudi umani, aver effettuato esecuzioni extragiudiziali. Anche Hamas è stata accusata per il lancio di razzi in territorio israeliano e di aver utilizzato scudi umani.
Per le stesse accuse il procuratore della Corte penale internazionale (Icc) Luis Moreno Ocampo sta tuttora valutando se sussiste la possibilità di aprire un'indagine contro Tel Aviv in base alle denunce presentate da decine di ong.
Intanto continua l'opera di sdoganamento di Hamas, considerata «organizzazione terroristica» dalla Comunità internazionale ma con cui sempre più governi iniziano a intavolare trattative. Ieri il leader palestinese Khaled Meshaal, a capo dell'ufficio politico del movimento islamico in esilio, ha incontrato a Damasco una nuova delegazione parlamentare britannica, nel terzo meeting del genere nell'arco di un mese. In un comunicato, Hamas precisa che la delegazione guidata dall'onorevole Roger Godsiff ha incontrato Meshaal e altri rappresentanti di Hamas.
«È una visita che s'inserisce nel quadro degli sforzi europei per aprire canali di dialogo con Hamas al fine di comprendere nel profondo, attraverso un dialogo diretto col movimento, la nostra causa», si legge nel testo. Hamas figura dal 2003 nella lista dell'Unione europea delle organizzazioni terroristiche, eppure Meshaal aveva già incontrato a Damasco nel marzo scorso deputati europei. «I membri della delegazione britannica - prosegue il comunicato - hanno espresso la loro convinzione che nella regione non si può arrivare alla pace senza un dialogo con Hamas che si è conquistato la fiducia del popolo palestinese in modo democratico trasparente».

La Germania potrebbe boicottare la conferenza dell'ONU contro il razzismo

Conferenza che si terrà a Ginevra la prossima settimana. Lo ha detto un esponente del ministero degli Esteri tedesco alla agenzia stampa Dpa. «La Germania, come alcuni altri Paesi dell'Ue, molto probabilmente non parteciperà alla conferenza», ha detto il responsabile dei Diritti umani del ministero Guenter Nooke. La Germania, ancora una volta subalterna a Israele, teme che l'incontro possa venire utilizzato da alcuni per slogan anti-israeliani. Fra gli ospiti più rilevanti, dice l'agenzia, è annunciato il presidente dell'Iran Mahmud Ahmadinejad, noto per le esternazioni anti-israeliane. La decisione definitiva della Germania potrebbe essere resa nota venerdì: sarebbe la prima volta, da decenni, che il Paese è assente a un importante incontro dell'Onu.

Freddezza nei colloqui tra l'inviato USA e il nuovo governo israeliano. Oggi incontra Abu Mazen a Ramallah

I resoconti delle principali agenzie di stampa internazionali e le sintesi pubblicate dalla stampa israeliana concordano nel dipingere uno scenario di cortese freddezza tra i protagonisti degli incontri avuti ieri dall'inviato speciale USA Mitchell con il presidente israeliano, il ministro degli Esteri e il primo ministro e di notevole distanza delle posizioni politiche. Ad allontanare le politiche dei due stretti alleati soprattutto la via del “due Popoli due Stati”, ribadita con fermezza e a più riprese da Mitchell, ma non raccolta dai suoi interlocutori israeliani. Se l’inviato statunitense, al termine dell’incontro con il ministro degli Esteri Avigdor Lieberman, ha detto chiaramente ai giornalisti che “la politica degli Stati Uniti è di perseguire due Stati per due popoli (…) e ci comporteremo di conseguenza”, Lieberman si è limitato (attraverso una nota) a invocare “formule nuove” per trovare una soluzione dal momento che “il processo di pace è giunto a un punto morto e che gli approcci tradizionali finora non hanno portato ad alcuna soluzione o alcun risultato”. Altrettanto fredda la reazione del primo ministro Benjamin Netanyahu che, secondo indiscrezioni fatte circolare da un suo collaboratore, avrebbe detto a Mitchell che “Israele si aspetta che i palestinesi riconoscano lo Stato d’Israele”. Oggi nella sede dellAutorità Nazionale Palestinese (Anp), Mitchell incontrerà i massimi esponenti di Fatah e dell’Anp, al quale probabilmente ribadirà la volontà dell’attuale amministrazione Usa di rilanciare i negoziati di pace seguendo il principio di “due Popoli due Stati”.

lunedì 13 aprile 2009

Crimini di guerra israeliani a Gaza

dal Forum Palestina: Il video con l'inchiesta di Rainews 24

Prima parte


Seconda parte

USA: La «contro-insurrezione a bassa intensità» e alta mortalità (degli altri)


di Manlio Dinucci
Robert Gates, il segretario alla difesa passato dall'amministrazione Bush a quella Obama, ha annunciato una «profonda riforma» della spesa militare statunitense. Non si tratta di risparmiare: il presidente ha chiesto, per l'anno fiscale 2009, altri 83 miliardi di dollari per le guerre in Iraq e Afghanistan e, nel 2010, il budget del Pentagono supererà i 670 miliardi. Si tratta di usare meglio questo colossale esborso di denaro pubblico che, con altre voci di carattere militare, ammonta a circa un quarto del bilancio federale. La riforma, spiega Gates, consiste nel ridimensionare i programmi dei maggiori sistemi d'arma e accrescere i fondi per la guerra «controinsurrezione».
Le «lezioni apprese in Iraq e Afghanistan» hanno dimostrato che occorrono veicoli militari più resistenti a mine e ordigni improvvisati. Verranno quindi destinati grossi fondi alla loro realizzazione. Ma questa è solo una parte del programma Future Combat Systems, destinato a potenziare le capacità delle brigate di combattimento: i soldati saranno sempre più integrati in una rete high-tech, con comunicazioni satellitari e veicoli telecomandati. Saranno invece ridimensionati programmi come quello del caccia F-22 Raptor della Lockheed Martin, pensato per scenari da guerra fredda, che si fermerà a 187 esemplari (da 140 milioni di dollari ciascuno). La Lockheed, in compenso, riceverà maggiori fondi per il caccia F-35 Lightning II (Joint Strike Fighter), più adatto per la «controinsurrezione» (c'è anche una versione a decollo corto o verticale per i marine).
Tirano un sospiro di sollievo gli azionisti delle società italiane (Avio, Piaggio, Galileo avionica, Oto Melara e altre) che costruiranno le ali del caccia e lo assembleranno.
Il Pentagono punta soprattutto sugli Uav (veicoli aerei senza equipaggio), telecomandati: in particolare il Predator («predatore») e il Reaper («mietitore», ovviamente di vite umane). Il perché lo spiega lo stesso Gates: questi aerei, già impiegati in Iraq, Afghanistan e Pakistan, hanno cominciato a soppiantare, in alcune missioni, quelli con equipaggio a bordo. I vantaggi sono molteplici: maggiore raggio d'azione (3.500 miglia del Reaper in confronto a 500 dell'F-16), minore costo (una unità di 4 aerei, 55 milioni di dollari) e, soprattutto, nessun rischio per l'equipaggio (un pilota e un addetto ai sensori). Esso è seduto comodamente a una consolle in una base negli Stati uniti, a 12mila km di distanza. Il Predator ha la funzione primaria di individuare gli obiettivi da colpire, che vengono segnalati ai piloti dei caccia, ma è anche armato di due missili Hellfire («fuoco dell'inferno»). Il Reaper ha la funzione primaria di hunter/killer (cacciatore/uccisore): trasporta un carico bellico di oltre una tonnellata e mezzo, composto di missili, bombe a guida laser e satellitare. Spesso gli stessi operatori alla consolle la mattina «volano» sull'Iraq, dopo il lunch sull'Afghanistan o il Pakistan. E, lanciato qualche missile su presunti «terroristi» e aver magari fatto strage di civili, tornano a casa dalla famiglia.
Uccidere manovrando con un joystick un aereo a 12mila km di distanza è l'ultima frontiera delle tecnologie belliche, su cui si basa la riforma del Pentagono. Grossi investimenti permetteranno di potenziare non solo gli Uav dell'aeronautica, attualmente circa 200 Predator e 30 Reaper, ma l'intero sistema dei droni militari, compresi i veicoli terrestri teleguidati, passati da 170 nel 2001 a 5.500. Essi serviranno a condurre la guerra «controinsurrezione», che gli strateghi definiscono «a bassa intensità».

Il Grande gioco non serve

La politica dell'escalation non porterà alla pace in Afghanistan e nel resto della regione.
di Noam Chomsky
Fin dall'antichità la regione che oggi chiamiamo Afghanistan è stata d'importanza strategica per i grandi conquistatori, da Alessandro Magno a Gengis Kan e Tamerlano.
Nell'ottocento l'impero russo e quello britannico si contesero l'Asia centrale, affrontandosi nel cosiddetto Grande gioco.
Nel 1893 sir Henry Mortimer Durand, un ufficiale dell'esercito coloniale inglese, tracciò una linea lunga più di duemila chilometri per delimitare il confine occidentale dell'India governata dalla Gran Bretagna.
La Linea Durand tagliava in due le zone abitate dai pashtun, che gli afgani consideravano parte del loro territorio. Nel 1947 l'area nordoccidentale della regione fu di nuovo divisa per creare il Pakistan.
Ancora oggi, nella zona di confine tra Afghanistan e Pakistan, il Grande gioco continua.Questa regione, che si estende da una parte e dall'altra della debole e permeabile Linea Durand, ora è chiamata, in modo appropriato Afpak.
La popolazione non ha mai accettato questa linea di confine e anche lo stato afgano non l'ha riconosciuta.
È un fatto storico incontestabile che gli afgani sono sempre riusciti a cacciare tutti i loro invasori. Ma l'Afghanistan rimane ancora il premio geostrategico del Grande gioco.
Il presidente statunitense Barack Obama ha deciso d'intensificare la guerra nell'Afpak, portando avanti l'escalation dell'amministrazione Bush.Attualmente l'Afghanistan è occupato dagli Stati Uniti e dai loro alleati della Nato.
La presenza militare degli stranieri non fa che aggravare il conflitto, mentre quello che servirebbe è uno sforzo comune delle varie potenze regionali – comprese Cina, India, Pakistan e Russia – per aiutare gli afgani a risolvere i loro problemi interni in modo pacifico.
Alle manovre delle grandi potenze si contrappone un forte movimento per la pace, che sta crescendo anche in Afghanistan. I suoi attivisti chiedono la fine dei combattimenti e l'avvio di negoziati con i taliban.Accettano volentieri l'aiuto degli stranieri per la ricostruzione e lo sviluppo, ma non a scopi militari. Questo movimento sta raccogliendo molti consensi tra la popolazione locale.
Le prossime truppe americane che arriveranno, quindi, non dovranno affrontare solo i taliban. Come ha scritto Pamela Constable sul Washington Post, dovranno fare i conti anche con "un nemico disarmato ma altrettanto pericoloso: l'opinione pubblica del paese".
Molti afgani sono convinti che "invece di aiutare a sconfiggere gli insorti e a ridurre la violenza che dilaga in tutto il paese, l'arrivo di altre truppe straniere peggiorerebbe la situazione".
La maggior parte degli afgani intervistati dalla giornalista ha dichiarato che "preferirebbe un accordo negoziato con gli insorti a un'intensificazione della campagna militare. Molti hanno ricordato che i taliban ribelli sono afgani e musulmani come loro, e che il paese ha sempre risolto i suoi conflitti interni attraverso gli incontri tra le comunità e le tribù".
La prima richiesta del presidente afgano Hamid Karzai a Obama è stata la fine dei bombardamenti contro i civili. Karzai ha anche dichiarato a una delegazione dell'Onu che vorrebbe un piano di ritiro delle forze straniere (cioè statunitensi).
Così facendo ha perso il sostegno di Washington e ha smesso di essere il leader preferito dei mezzi d'informazione occidentali, che ora lo descrivono come "corrotto" e "inaffidabile". Forse è vero, ma se lo è oggi, lo era anche quando lo chiamavano il "nostro uomo" a Kabul.
Secondo la stampa statunitense, Washing­ton e i suoi alleati vogliono metterlo da parte e sostituirlo con un leader scelto da loro.Un corrispondente esperto come Jason Bur­ke del Guardian ha scritto: "Stiamo ancora cercando di costruire non lo stato che vogliono gli afgani, ma quello che secondo noi dovrebbero volere. Se chiedete a un afgano a quale paese si augura che somigli il suo tra qualche decennio, vi risponderà l'Iran".
In questo scenario l'Iran ha un ruolo particolarmente importante. I suoi rapporti con l'Afghanistan sono molto stretti. Teheran si oppone al ritorno dei taliban e ha offerto aiuti sostanziosi al governo di Kabul per combatterli. Come ringraziamento è stata inserita nell'Asse del male.
L'Iran ha più interesse di qualsiasi altro paese ad avere come vicino un Afghanistan stabile e prospero. E, naturalmente, è in buoni rapporti con Pakistan, India, Turchia, Cina e Russia. Se gli Stati Uniti continueranno a impedire a Teheran di avere buoni rapporti con l'occidente, la sua intesa con Mosca e Pechino potrebbe rafforzarsi.
Durante la recente conferenza sull'Afghanistan dell'Aja Karzai ha incontrato alcuni alti funzionari iraniani, che si sono impegnati ad aiutare Kabul nella ricostruzione e nella lotta al fiorente traffico di droga.
La politica dell'escalation non porterà alla pace in Afghanistan e nel resto della regione. La cosa più importante è che gli afgani siano liberi di risolvere da soli i problemi del paese. Senza interferenze da parte di stranieri più o meno coinvolti nel Grande gioco.

venerdì 10 aprile 2009

Obama, 83 milardi di dollari per la guerra

Barack Obama va alla guerra. E sfata il falso mito della discontinuità in politica estera degli Stati Uniti. Dopo aver ottenuto rinforzi dagli alleati, Italia in primis, ha completato l'opera esigendo dalla Camera Usa 83,4 miliardi di dollari extra per la guerra in Iraq e in Afghanistan. Dunque dopo aver attaccato la "logica della guerra" di Bush, chiedendo e promettendo il ritiro delle truppe, ora Obama fa quanto impostogli dai poteri economicamente e politcamente forti made in Usa. La guerra andrà avanti. E la somma servirà a rilanciare la strategia militare in Afghanistan e a stabilizzazione quella in Iraq. Da segnalare come proprio il controllo sui due paesi permetterebbe un maggiore impegno sull'incognita Pakistan, che sta progressivamente sfuggendo al controllo della Casa Bianca.
Il presidente americano ha chiesto al Congresso di autorizzare 83,4 miliardi di dollari per le operazioni militari in Iraq e Afghanistan. "L'obiettivo" (sempre lo stesso): combattere al Qaeda e i talebani

mercoledì 8 aprile 2009

Decine di arresti e uccisi 2 studenti in Turchia. Ora sì che può entrare in Europa...

Mentre in Europa (con Obama come sponsor) si continua a parlare dell'ingresso della Turchia nell'UE, le forze di sicurezza di Ankara continuano ad uccidere.Vista la capacità di stravolgere gli eventi, l'avamposto Nato nel Medio Oriente può ora ritenersi soddisfatto: ha fatto valere le sue ragioni, ed ha fatto capire ai propri alleati in Europa e nel mondo come si possa cucire la bocca alle opposizioni. Contro chi ha a cuore la questione Curda, la questione delle minoranze politiche e religiose, l'importante è affermare l'identità nazionale della Turchia moderna, che tanto ha da condividere con il nazionalismo europeo. La Turchia ed i suoi lupi grigi gridano a gran voce "we can". Il prezzo è alto, ma all'Europa ed agli americani non interessa se a rimetterci è la gente comune, le minoranze, i popoli. L'importante è fermare l'Iran.
Riportiamo il comunicato della delegazione Europa Levante che racconta la repressione contro gli studenti scesi in piazza per denunciare l'uccisone di quattro loro colleghi.
Amed 7 aprile 2009 - Questa mattina gli studenti dell'Universita' di Amed hanno manifestato pacificamente denunciando l'uccisione dei due ragazzi il 4 aprile a Amara e l'arresto, avvenuto ieri durante il primo sit in, di 26 studenti di cui 15 sono ancora in stato di fermo.

Circa un migliaio di giovani dalle 9.00 hanno partecipato al presidio gridando slogan contro la violenza del governo e contro il primo ministro T. Erdoðan. Uno degli studenti uccisi, un giovane di 21 anni, era proprio della "Dicle University". La zona centrale dell'universita' era presidiata da un tank e da numerosi poliziotti in assetto antisommossa che hanno circondato gli studenti fino all'arrivo del sindaco della citta' O. Baydermir, della parlamentare del DTP A. Tuðluk e di S. Demirtaþ che sono intervenuti ed hanno portato il loro sostegno e solidarieta' accompagnati dall'avvocato M. Erbay (presidente IHD Amed) e della sindaca neo-eletta della Municipalita' di Baðlar A. Baran.
La presenza della polizia in borghese che filmava gli studenti mentre O. Baydermir parlava ha creato un momento di forte tensione che e' stato mediato dall'intervento dell'avvocato M. Erbey. La polizia, i militari ed i servizi segreti stanno controllando capillarmente sia gli studenti che i rappresentanti delle istituzioni, l'arresto dei 26 giovani avvenuto ieri e' stato preceduto proprio da una intervista di "giornalisti/agenti" agli studenti.
Delegazione Europa Levante

Turchia/ Dimostrazione pro-Ocalan fuori controllo, due morti
In 3mila verso il paesino del leader curdo per 60esimo compleanno
Ankara, 4 apr. (Ap) - Una dimostrazione di sostenitori del leader del Pkk (Partito dei lavoratori del Kurdistan), Abdullah Ocalan, attualmente detenuto in un supercarcere sull'isola di Imrali, è finita fuori controllo nel sud-est della Turchia, dove sono stati registrati scontri tra polizia e migliaia di manifestanti che tentavano di raggiungere il paese natale del leader dei ribelli curdi per celebrare il suo sessantesimo compleanno. Secondo l'agenzia Dogan, la polizia è ricorsa a idranti e lacrimogeni per disperdere la folla di circa 3mila persone. L'agenzia di Stato turca, Anatolia, ha riferito che nove persone sono rimaste ferite e due di loro sono poi morte in ospedale. Le immagini della tv turca hanno mostrato centinaia di dimostranti che lanciavano pietre contro poliziotti e soldati. Gli agenti in tenuta anti-sommossa hanno preso posizione sulla cima di una collina per impedire ai manifestanti di raggiungere Omerli, il paese dove Ocalan è nato il 4 aprile del 1949.

lunedì 6 aprile 2009

G20: giudizi e bilanci su di un fallimento

Il G20 è finito e tutto quello che ha lasciato dietro di sé è l'incapacità dell'attuale ceto politico delle super-potenze a governare le prime instabilità della crisi (figuriamoci programmarne una fuoriuscita!). Squilibri, Nord-Sud, disparità sociali, crisi economica, tensioni internazionali sono il lascito di un modello di sviluppo mondializzato che ha egemonizzato le partiche e i discorsi degli ultii 30 anni.
Un'egemionia oggi però quantomai in declino... chi sarebbe oggi disposto ad avallare l'indiscutibilità del pensiero e modello unico neoliberista? Sono proprio i capi di stato ed i banchieri a invocare oggi intervento statale... certo per loro, nell'ottica capitalistica di socializazione delle perdite.
I Comunisti e i movimenti anticapitalisti oggi, possono ben dire di aver sempre avuto ragione, di aver intravisto e interpretato tendenza e direzione di questo modello di squilibrio.
Proponiamo a questi links 2 commenti/letture sugli esiti (fondalmente nulli) del recente G20 consumatosi a Londra, per i movimenti il conto da fare con una nuova - e potenziale - composizione sociale del conflitto; per i padroni del mondo, la celebrazione di un'impotenza.
Il primo articolo è un commento di J.Halevi sui global imbalances lasciati inalterati- e come era possibile fare altrimenti?- dal G20 e forieri di cattive notizie sul fronte della situazione economica.


Il summit e i conflitti intercapitalistici
di Joseph Halevi
Sul Financial Times del 31 marzo Martin Wolf aveva stabilito un semplicissimo criterio per valutare le decisioni dei G20. Riusciranno questi paesi a spostare la distribuzione della domanda mondiale dai paesi in deficit a quelli in surplus per farli spendere ed importare? L'ipotesi di Wolf, rivelatasi esatta, era che non avrebbero nemmeno tentato di farlo. Come osserva il New York Times la riunione ha approvato, tramite il Fondo monetario internazionale, dei fondi in caso di crisi di pagamenti da parte dei paesi in via di sviluppo e delle linee di credito per un totale di 1100 miliardi di dollari ma non ha varato alcuna misura diretta di stimolo della domanda. I G20 non erano quindi politicamente in grado di affrontare il nodo cruciale posto da Wolf. Per scioglierlo però bisogna rompere la deflazione salariale in Europa e riorientare le strutture produttive sia del Giappone che della Cina.
La Francia e la Germania non vogliono sentir parlare di stimoli fiscali all'economia. Lo scorso ottobre Angela Merkel affermò che non avrebbe speso un ulteriore euro in favore del resto dell'eurozona per non indebolire le capacità finanziarie della Germania. Nell'intervista rilasciata al Financial Times il 27 marzo, riferendosi alla dipendenza dalle esportazioni della Germania, la cancelliera ha detto "è un fatto che nemmeno intendiamo cambiare." Per il governo e il capitale tedesco l'economia non deve essere rilanciata perché, aumentando le importazioni dal resto dell'Europa, se ne dissiperebbero all'estero gli effetti. In forma più paludata le stesse tesi vengono espresse in Francia: se si stimola, si rilanciano principalmente le importazioni. Quindi, dice Sarkozy, per uscire dalla crisi bisogna aumentare la produttività; ovviamente per esportare di più verso l'Europa. Con l'euro, il perno del neomercantilismo intraeuopeo è oggi la deflazione salariale competitiva che rimpiazza le svalutazioni nei tassi di cambio del passato. La garanzia risiede in una moneta austera, quasi aurea, come il franco francese degli anni Trenta.
Parigi e Berlino sono d'accordo nel proteggere il sistema bancario e di ricondurlo in un alveo istituzionalmente monopolistico con rendite garantite. La Francia ne è un esempio: malgrado le perdite in borsa le banche hanno dichiarato grossi profitti. La crisi è populisticamente vista solo come il prodotto della corrotta finanza Usa che ha esposto le innocenti banche europee alle cartacce del mercato subprime.
A Washington la speranza di rivalutare le cartacce, grazie alle aste truccate di Geithner e Summers, mostra che non ci sono serie intenzioni di riformare il sistema bancario. La volontà di rilancio economico viene abbinata alla difesa delle megabanche ed alla rivalutazione artificiale dei prodotti tossici. Tuttavia gli Usa non si propongono più di agire da importatori globali per via degli squilibri che ciò causa nelle bilance dei pagamenti. Sebbene tale obiettivo sia di difficile attuazione, ha di che preoccupare sia la zona dell'euro che il Giappone. La riduzione del ruolo di importatore mondiale degli Usa comporterebbe una forte svalutazione del dollaro ed un aggravamento della crisi europea dato che Parigi e Berlino non intendono spendere. Il Giappone vorrebbe stimolare, ma non è in grado farlo E' pieno zeppo di capacità produttive eccedentarie ben oltre le possibilità di assorbimento interno. Le strutture industriali del paese sono in sintonia con il ruolo di oligopoli globali delle sue multinazionali. Il Giappone dipende quindi dalla domanda mondiale, cioè dalla Cina e dagli Usa, visto che l'Europa si autocongela nel sistema euro-aureo.
La Cina sta subendo gli effetti più pesanti della crisi: nelle zone esportatrici milioni di persone hanno già perso il posto di lavoro e molti altri milioni li perderanno. Intere aree industriali si svuotano con i macchinari che vengono imballati e/o venduti. Non ci sono delle reali reti di protezione sociale, la sanità è cara, senza lavoro in città non si può vivere. Da un anno venti milioni di operai e operaie sono rientrati nelle campagne assai povere. Anche il governo sollecita i «rimpatri». La Cina intende spendere per mitigare la crisi. Tuttavia le misure adottate finora favoriscono l'industria pesante e quindi aumentano il divario tra consumi ed investimenti.
Ora il problema è l'allargamento del mercato interno del consumo. E' evidente che la Cina si propone di ricalibrare senza abbandonare il modello di crescita attraverso le esportazioni, malgrado questo sia in crisi. Per Pechino diventa impellente affrontare la questione degli attivi in dollari che non rendono, sia per i bassi tassi Usa che per la tendenziale svalutazione del dollaro. Con le esportazioni che non crescono più, il sacrificio inerente alla detenzione di dollari non è compensato da maggiori guadagni nel commercio estero.
La Cina non vuole affondare la barca, bensì porre sul tappeto la governabilità del dollaro e usa il surplus accumulato per aumentare il suo peso politico-legale nel Fondo monetario internazionale. Ma gli Usa non accetteranno ridiscutere il ruolo della loro moneta. Nessuno dei partecipanti al G20 ha un'analisi profonda della crisi ed un relativo schema per discuterne. Ugualmente nessuno tra i cosiddetti economisti ha una visione del futuro come l'ebbe Keynes a Versailles nel 1919, vedendo in maniera lucidissima dove il tutto sarebbe andato a parare.

Il secondo riporta invece i commenti sull'esito delle trattative da parte della stampa anglosassone, come sempre puntuali e non ipocriti, soprattutto sul punto inevaso di cosa fare dei toxic assets e con un episodio alquanto emblematico del nuovo peso della Cina.

Deludente, vago, inadeguato. Il G20 dei media anglosassoni
A leggere la stampa anglosassone, e invece i giornali italiani, sembra che a Londra si siano tenuti due vertici del G20 completamente diversi. Uno, descritto dalla stampa nostrana, avrebbe conseguito successi storici, abolito i paradisi fiscali, imposto nuove norme cogenti al Far west della speculazione finanziaria, iniettato migliaia e migliaia di miliardi nell'economia mondiale: avrebbe posto le basi di un nuovo capitalismo.
Per la stampa americana e inglese il vertice sarebbe stato, se non un insuccesso, certo una delusione. Il più devastante, come al solito, è l'Economist: «L'esito del G20: meglio di niente. Ma può l'Fmi salvare il mondo?» Titolo che non richiede particolari spiegazioni. L'Economist descrive il Fondo monetario internazionale come una sorta di barile in cui sono state scaricate tutte le questioni su cui le diverse parti non trovavano un accordo.
Altrettanto secco il titolo del quotidiano Financial Times: «Le grandi cifre del G20 nascondono profonde divisioni»: «L'enfasi sulle quantità più che sugli accordi concreti serve a mascherare il grande elemento mancante nel comunicato: un nuovo e vincolante impegno a misure specifiche per ripulire gli assets tossici del sistema bancario internazionale», scrive l'organo della City, che prosegue: «I numeri annunciati alla fine di ogni summit internazionale vanno esaminati da vicino, in particolare quelli presentati dal primo ministro britannico che è preceduto dalla sua reputazione d'inflazione numerica e di doppio conteggio».
Altrettanto scettico è l'organo della borsa di New York, il Wall Street Journal: «I leaders delle nazioni del gruppo del G20 hanno annunciato giovedì misure che - hanno detto - aiuteranno a risollevare l'economia mondiale, ma hanno rinviato le decisioni più spinose o le hanno scaricate su istituzioni non abituate a tali responsabilità». E più in là: «Le misure adottate potranno alleviare gli effetti della crisi economica. Ma molte dichiarazioni sono state solo di principio, e dovranno trovare seguito altrove - alcune in un altro vertice G20 più tardi quest'anno». «Il comunicato emesso dal gruppo alla fine dell'incontro non affronta specificamente i problemi che secondo molti sono alla radice della crisi odierna, come il fallimento dei sistemi bancari».
Tutta la stampa anglosassone, in particolare quella americana, insiste sul fatto che Obama non ha ottenuto quasi nulla sul punto che gli premeva di più: «Il gruppo non ha preso nessun impegno su un obiettivo concreto di stimolo, sostenuto dagli Usa. Invece, i leader si sono vagamente impegnati a 'offrire un livello di stimolo fiscale necessario per restaurare la crescita'» (WSJ).
Moderato fallimento è il giudizio del New York Times nel suo editoriale: «In tempi normali non ci aspettiamo molto dai vertici economici. Ma con l'economia mondiale che implode, giovedì i leaders delle maggiori 20 potenze economiche mondiali avevano l'urgente responsabilità di formulare politiche concrete per rimettere in sesto il sistema finanziario globale e rilanciare la crescita. Non ci sono riusciti». E conclude: «Per uscire dalla crisi ci vorrà molto più di quanto è stato fatto a Londra».
Per esemplificare il livello di disaccordo, tutti i giornali citati riportano a lungo un episodio ignorato dalla stampa italiana. Ecco la versione del NYT: «Per più di una tesissima ora, giovedì, Nicholas Sarkozy e il presidente della Cina Hu Jintao si sono scontrati sui paradisi fiscali. Circondati dagli altri 18 leaders, si sono beccati reciprocamente. Sarkozy voleva che il comunicato del G20 nominasse e deplorasse i paradisi fiscali, magari includendo Macao o Hong Kong che sono sotto sovranità cinese. Come ovvio, Hu non ne voleva sapere. Sembrava arrabbiato che Sarkozy stesse di fatto accusando la Cina di lassismo e che il leader francese gli chiedesse di appoggiare sanzioni emanate dall'Ocse (un club di nazioni ricche cui la Cina non partecipa ancora). Secondo il resoconto di funzionari della Casa bianca, Obama ha accompagnato i due a turno, uno alla volta, in un angolo del salone per dirimere la disputa: "Se sostituissimo la parola 'riconosciamo' con il termine 'notiamo'?" ha suggerito Obama. Risultato: nel comunicato finale si legge: "Notiamo che l'Ocse ha oggi pubblicato una lista di paesi che il Global Forum definisce non rispondenti ai criteri internazionali di scambio di informazioni fiscali". Hong Kong e Macao non apparivano nella lista».

venerdì 3 aprile 2009

CIA Report: Israele crollerà nel giro di 20 anni

Uno studio condotto dalla CIA (Central Intelligence Agency) ha sollevato dubbi sulla sopravvivenza di Israele oltre i prossimi 20 anni.
Il documento della CIA pronostica “un movimento inesorabile, che allontana la soluzione a due-stati, verso quella ad un-unico stato come il modello più proficuo fondato su principi di democrazia e di piena eguaglianza, che si sbarazzi dello spettro che si profila preoccupante di una apartheid coloniale e che consenta il ritorno dei profughi del 1947/1948 e del 1967. Quest’ultima è la pre-condizione per una pace sostenibile nella regione.”
Per di più, lo studio, che è stato messo a disposizione solamente di un certo numero selezionato di personaggi, prevede il ritorno di tutti i profughi Palestinesi verso i territori occupati, e l’esodo di due milioni di Israeliani – che dovrebbero migrare negli Stati Uniti nei prossimi quindici anni.
“Vi sono più di 500.000 Israeliani con passaporto Americano e più di 300.000 vivono ora proprio nel territorio della California”: ha affermato il giurista internazionale Franklin Lamb in un’intervista rilasciata a “Press TV” venerdì 6 marzo, aggiungendo che quelli che non sono in possesso di un passaporto Americano od occidentale si sono già azionati al riguardo. Lamb ha sottolineato: “Per questo ritengo che almeno per l’opinione pubblica Israeliana il destino sia segnato…fatto che comporta che prima o poi la storia rigetterà l’avventura coloniale di Israele.”
Egli ha dichiarato che la CIA nel suo documento, alludendo all’inattesa ma rapida caduta del governo di apartheid in Sud Africa e facendo riferimento alla disintegrazione dell’Unione Sovietica nei primi anni Novanta, suggerisce che la fine del sogno di una “terra di Israele” dovrebbe avvenire quanto prima.
Inoltre, lo studio prevede il ritorno di oltre un milione e mezzo di Israeliani verso la Russia e verso altre parti di Europa, e sottolinea con evidenza il declino delle nascite di Israeliani e nel contempo l’aumento progressivo della popolazione Palestinese.
Inoltre Lamb ha sottolineato come, data la condotta di Israele nei confronti dei Palestinesi e della striscia di Gaza in particolare, l’opinione pubblica Americana, che negli ultimi 25 anni non ha mai elevato le sue proteste contro le misure di Tel Aviv, potrebbe ora “non farlo più”. Molti membri della Commissione sui Servizi Informativi del Senato degli USA sono stati messi al corrente del documento.
by Press TV