mercoledì 29 aprile 2009

Salta il lavoro a 60 ore. Per ora

Parlamento europeo e Consiglio non si mettono d'accordo. Sfuma per ora l'ipersfruttamento dell'orario di lavoro e dei lavoratori
di Alberto D'Argenzio
«Duri come il cemento», usa queste parole l'eurodeputata socialdemocratica tedesca Mechtild Rothe per descrivere l'attitudine negoziale dei 27, e in particolare di Regno unito, Germania, Polonia e Bulgaria, sulla direttiva orario di lavoro. E difatti non s'è fatta molta strada: Parlamento e Consiglio non hanno trovato l'intesa e il procedimento di conciliazione tra i due organi legislativi Ue è andato a farsi friggere nella notte tra lunedì e martedì. È la prima volta dall'entrata in vigore del Trattato di Amsterdam nel 1999 che gli Stati membri e l'Eurocamera non si mettono d'accordo. Una prima volta importante, anche a livello simbolico, per un dossier che è sul tavolo comunitario da un lustro abbondante.
Al di là della primizia istituzionale, la battuta di arresto di inizio settimana segna l'apice di un braccio di ferro giocato sulla pelle dei lavoratori. Il 9 giugno scorso i ministri del lavoro dei 27 - anche grazie al determinante cambio di governo in Italia - trovavano un'intesa che permetteva di portare l'orario di lavoro dalle 48 ore attuali, fissate nel lontano 1919 come tetto massimo settimanale dall'Organizzazione mondiale del lavoro, fino a 60 ore, allungabili a 65 ore calcolando le guardie e ulteriormente ampliabili a 78 sfruttando tutte le possibili pieghe delle legislazione proposta. Il meccanismo per allungare la settimana lavorativa è l'opt out, o rinuncia individuale e volontaria (che poi non è quasi mai volontaria) al tetto massimo fissato per legge. La vecchia direttiva del 1993 prevedeva l'uso dell'opt out da parte di un paese per un massimo di 10 anni, un limite ampliamente superato dal Regno unito, che lo usa fin dal 1993, ma non solo: ora sono ben 14 i paesi Ue che lo usano. Nella nuova versione del testo, gli Stati membri volevano un opt out perenne. Oltre a ciò i ministri decidevano di non conteggiare più le ore di guardia inattive (quelle in cui uno è a disposizione dormendo o mangiando) nell'orario finale, escludendole quindi dal computo totale. Una posizione presa anche per aggirare diverse sentenze della Corte europea di giustizia, che impongono il calcolo delle ore di guardia all'interno del tetto settimanale.
Questi i due punti più discussi, due punti voluti dai ministri e bocciati dal Parlamento Ue lo scorso 17 dicembre, con una maggioranza chiara e anche bipartisan (il Pdl si spaccava, con Forza Italia che seguiva la linea del governo, mentre contro si schieravano An e Lega nord). Per Strasburgo l'opt out deve avere vita breve, limitato nel tempo, e le guardie inattive non vanno escluse dal conteggio dell'orario di lavoro, anche se magari le si possono pagare meno. Da qui lo scontro, culminato nel fallimento di lunedì notte. «È molto triste che non siamo riusciti a raggiungere un'intesa - commenta Alejandro Cercas, eurodeputato socialista spagnolo e relatore del rapporto del Parlamento sulla direttiva - ma è anche vero che un cattivo accordo avrebbe peggiorato la situazione dei lavoratori e in particolare quella del personale medico. Abbiamo lasciato il futuro aperto e speriamo di riuscire a trovare una soluzione migliore con il nuovo Parlamento e la nuova Commissione».
La palla passa alla prossima legislatura con il nuovo esecutivo Ue che sarà chiamato a presentare una nuova proposta di direttiva. Intanto rimane in vigore il testo del 1993 mentre, in attesa della fine del suo mandato, questa Commissione potrebbe decidere di portare avanti le procedure di infrazione bloccate nel 2004. Al momento i ricorsi si contano a decine e riguardano tutti i paesi Ue. «Un altro effetto di questo blocco dei negoziati - avverte una fonte comunitaria - è che altri paesi che erano rimasti alla finestra decideranno di applicare l'opt out. La vittoria del Parlamento rischia di essere una vittoria di Pirro, molto simbolica e poco pratica».

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