giovedì 16 aprile 2009

"Riforma" del modello contrattuale: Un NO per ripartire

di Giorgio Cremaschi
È prima di tutto un pessimo accordo per le lavoratrici e i lavoratori quello sottoscritto ieri tra Cisl, Uil, Ugl e Confindustria. Si abbassano matematicamente le paghe nel contratto nazionale, sostituendo all’inflazione programmata la cosiddetta “Ipca”, cioè un’altra inflazione programmata, decisa invece che dal governo da un’autorità terza. Da qui viene poi tolto il costo dell’energia importata, mentre la paga di riferimento per gli aumenti non è più quella di fatto, ma quella minima tabellare. Si rende così impossibile il semplice adeguamento dei salari rispetto all’inflazione reale, mentre si rinuncia definitivamente alla possibilità che i contratti nazionali possano aumentare le retribuzioni per recuperare quanto perso nel passato. Mentono quindi quei dirigenti sindacali che dicono che questo accordo serve ad aumentare le paghe. Questo accordo serve invece a ridurre il salario certo in cambio di quello variabile e aleatorio, legato alla produttività e all’andamento delle aziende. E’ la stessa operazione che vent’anni fa fu compiuta ai danni della scala mobile. Oggi essa viene compiuta contro il salario garantito dal contratto nazionale.
Si aggiungono poi due aggravanti. La prima è la clausola di dissolvenza del contratto nazionale, che viene affermata con la possibilità per le aziende di derogare, con accordo sindacale locale, alle paghe e alle normative del contratto. Una clausola di questo tipo in un momento di crisi economica è una pistola alla tempia nei confronti di ogni lavoratore. L’altra aggravante è il sistema autoritario che governerà tutta la futura contrattazione. Altro che allargamento degli spazi. Il sistema che viene varato con le norme applicative dell’accordo del 22 gennaio è una sorta di catalogo dei delitti e delle pene per sindacati, rappresentanti aziendali, lavoratori. Con questo sistema qualsiasi delegato di fabbrica, prima di andare a chieder qualcosa alla direzione, farà bene a munirsi di un buon avvocato. Perché tutto è controllato dai vertici, fino alle commissioni confederali. Nella sostanza né il contratto nazionale, né quello aziendale ci sono davvero più. Rimane solo un sistema barocco pieno di rinvii e istanze, nel quale il confronto continuo tra burocrazie delle imprese e burocrazie sindacali giustificherà entrambe.
Ma se questo è il giudizio, la ovvia domanda è: “perché Cisl e Uil sottoscrivono quell’intesa?”. Innanzitutto per due ragioni. La prima è la rassegnazione. L’idea che nulla si può ottenere con il conflitto, il totale cedimento all’ideologia nazionale del “siamo tutti nella stessa barca” – a cui segue spesso il corollario: “e lasciamo in pace l’uomo solo che è al timone” – l’accettazione dell’idea della complicità sindacale, teorizzata dal Ministro del Lavoro Sacconi. Un’altra ragione è dovuta all’idea di guadagnarci. Dal riconoscimento del governo, delle imprese, dagli enti bilaterali, dalla gestione di interessi esterni a quelli della contrattazione. Ma entrambe queste ragioni sono solo una parte della verità. Il cedimento della Cisl e della Uil è anche il punto di arrivo dopo vent’anni di una strategia confederale che, nel nome della compatibilità e della concertazione, ha progressivamente portato lontano dalla realtà del lavoro il mestiere istituzionale del sindacato. Questo accordo si firma oggi, in tempi di crisi, quando qualsiasi ragionamento di mero buon senso dovrebbe far contrattare altro a sindacati e imprese. Ma l’avvio del negoziato è di più di un anno fa e la discussione confederale su di esso ancora precedente. La Cisl e la Uil hanno accelerato e rotto il passo, ma anche la Cgil deve interrogarsi su come siamo arrivati fin qui. Se siamo entrati nella crisi con i sindacati organizzativamente più forti d’Europa e con le paghe e i diritti dei lavoratori tra i più bassi del continente, vuol dire che qualcosa di fondo non ha funzionato negli anni della concertazione.
Dietro quell’accordo c’è l’idea di un regime sindacale autoritario verso i lavoratori, per questo la Cgil dovrà organizzare la resistenza e l’alternativa ad esso. Ma questo si può fare solo mettendo in discussione la pratica e la cultura del sindacato della concertazione.
Il no della Cgil può essere allora una grandissima opportunità. La scelta costituente di un sindacalismo democratico in grado di rappresentare i più avanzati interessi del mondo del lavoro. L’arroganza della Confindustria, di Cisl e Uil sono anche determinate dalla convinzione che la Cgil possa dire oggi no, ma si prepari domani a dire dei sommessi sì. Bisogna toglier loro anche il barlume di questa speranza. Occorre dunque una nuova piattaforma sindacale, molto più avanzata di quella degli anni della concertazione, ma anche una nuova pratica sindacale, che azienda per azienda, contratto per contratto, renda vano l’accordo separato e lo trasformi in un totale fallimento.
A chi obietta che questa linea distrugge l’unità sindacale, non solo si deve rispondere che sono gli accordi separati ad averla liquidata, ma che un’unità dei sindacati fondata sull’unione degli intenti con il governo e con le imprese non è l’unità dei lavoratori. E’ l’unità delle burocrazie contrapposta alla frantumazione e alla sfiducia dei lavoratori. Se vogliamo ricostruire l’unità delle lavoratrici e dei lavoratori, dobbiamo aprire un conflitto di fondo con il modello sindacale che propongono Confindustria, Cisl e Uil.

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