La borsa, il welfare, l'industra: nei due recenti libri di Ronald Dore e Luciano Gallino, un racconto di quel che è appena successo e di quel che può avvenire.
Ora che i buoi sono scappati dalla stalla, le librerie sono piene di dotte riflessioni sui danni della finanziarizzazione sull’economia mondiale. Non sono però molti gli analisti che possono rivendicare coerenza di pensiero nella interpretazione dei fatti che hanno condotto alla attuale crisi.
Ronald Dore e Luciano Gallino sono tra quelli che, in tempi non sospetti, mentre prevaleva ancora il pensiero unico del liberismo dominante, avevano lucidamente messo in evidenza le distorsioni che si stavano determinando nella organizzazione delle economie e dei sistemi sociali, per effetto della prevalenza di un modello di capitalismo basato sulla deregolamentazione, sullo smantellamento degli istituti di welfare e sulla dominanza della rendita finanziaria rispetto all’industria.
Proprio per questa ragione, leggere i loro recenti contributi può essere un utile esercizio, non solo per approfondire l’analisi sui fattori fondamentali alla base della crisi economica in corso, ma anche per cercare di capire quale ricetta venga proposta ora da parte di chi, con maggiore credibilità rispetto ad altri, aveva colto i segni di una condizione di insostenibilità nascosta tra le pieghe della globalizzazione a senso unico.
Ronald Dore, nelle sue analisi sui diversi modelli di capitalismo, aveva già da tempo evidenziato le debolezze strutturali del sistema anglosassone, fondato sulla instabilità di meccanismi finanziari fortemente deregolamentati, rispetto al sistema europeo di welfare, proprio negli anni in cui, a cavallo tra il vecchio ed il nuovo secolo, si operava una sistematica demolizione delle reti di protezione sociale che sono state alla base del capitalismo ben temperato, tipico dell’approccio sociale dell’Europa continentale. Tra capitalismo di borsa e capitalismo di welfare, Dore chiedeva di scegliere la seconda opzione, quando invece il pensiero dominante esprimeva la convinzione di una irreversibile deriva verso il modello anglosassone.
Nel suo recente libro ("Finanza pigliatutto", Il Mulino, 2009, 9 euro) Ronald Dore torna su questi temi, partendo da una analisi delle ragioni strutturali che hanno condotto, nei passati decenni, ad una prevalenza della finanza sull’industria. Innanzitutto, occorre sottolineare che le attività finanziarie hanno assicurato, per diversi decenni, un livello di redditività tale da attrarre investimenti e risorse, in un processo di causazione cumulativa che è stato poi alla base della bolla finanziaria, alimentata dalla creazione di prodotti finanziari a rischio così elevato da non poter essere nemmeno dimensionato.
Analizzando la serie storica del reddito nazionale statunitense, Ronald Dore mostra che, fino al 1950, la quota dei profitti delle imprese finanziarie sul totale dei profitti era pari in media al 9,5%. Da allora è cominciata una accelerazione, sino a raggiungere il valore massimo nel 2002 (45%), con una successiva stabilizzazione ed un leggero arretramento negli anni più recenti, dovuto al manifestarsi dei primi segni della crisi finanziaria internazionale.
Si è affermata, nel capitalismo anglosassone prima e poi nel sistema economico internazionale, una cultura azionaria fondata sul profitto di breve periodo, sulla ricerca di opportunità di arricchimento rapido, sulla capacità di cogliere opportunità tattiche di massimizzazione della redditività rispetto a progetti di investimenti industriale a redditività differita. Gli stessi governi hanno promosso questa tendenza verso una apparente democratizzazione dell’azionariato, nella convinzione che un’offerta abbondante di capitale azionario avrebbe promosso l’innovazione e quindi la competitività. Nelle scelte delle imprese hanno cominciato a contare in modo decisivo le pressioni degli investitori istituzionali, che muovevano masse enormi di capitali alla continua ricerca della migliore redditività, schiacciando la prospettiva temporale del profitto atteso, sino a far governare in modo indiscusso il rendiconto trimestrale rispetto persino al bilancio annuale dell’impresa.
Sulla stessa lunghezza d’onda si colloca la riflessione di Luciano Gallino, in "Con i soldi degli altri", (Einaudi, 2009, euro 17). I dati del processo di finanziarizzazione sono impressionanti: alla fine del 2007 il Pil del mondo ha superato i 54 trilioni di dollari, mentre la capitalizzazione delle borse mondiali ammontava a 61 trilioni e le obbligazioni pubbliche e private superavano i 60 trilioni. A giugno del 2008 il valore nominale della quota di derivati trattati nelle borse toccavano gli 80 trilioni di dollari, mentre quelli scambiati fuori mercato sfiorava i 684 trilioni: la somma dei derivati era quindi complessivamente pari a 764 trilioni di dollari, pari a 14 volte il Pil del mondo.
Il gioco della finanziarizzazione ha tracimato verso l’economia reale, influenzando le strategie delle imprese in modo decisivo e spostando la struttura dei risparmi degli individui verso scelte fortemente rischiose, spesso senza informare correttamente i cittadini sulle conseguenze di questi cambiamenti nelle strategie di portafoglio. I piani pensionistici sono passati su larga scala da schemi a beneficio definito a piani a contributo definito: mentre nel primo caso il contribuente sa di poter contare su un valore certo del proprio corrispettivo pensionistico, nel secondo tutto dipende dalla volatilità dei rendimenti assicurati dai fondi pensione.
Si è innescata in questo modo una ulteriore spirale perversa di avvitamento che oggi incide fortemente sulla crisi delle imprese industriali. Basti citare il caso della General Motors, la quale si è trovata nel 2009 ad avere solo 85.000 occupati negli Stati Uniti, mentre ai suoi fondi pensione fanno capo un milione di ex-dipendenti. Nel 1962 la GM aveva 460.000 dipendenti, la maggior parte in Usa, ed appena 40.000 pensionati. Nella previdenza privata di stampo anglosassone, l’incrocio tra squilibrio strutturale di dipendenti attivi e numero dei pensionati, unito alla volatilità al ribasso dei rendimenti delle attività finanziarie costituisce una mina vagante i cui effetti non sono ancora pienamente dispiegati.
Mentre cambiava radicalmente la struttura dei mercati finanziari, non si sono introdotte regole adeguate a fronteggiare con disciplina le trasformazioni intervenute. E oggi le banconote e le monete costituiscono solo il 3% del denaro circolante, mentre il restante 97% è interamente simbolico, a cominciare da quello depositato nei conti correnti o sui libretti di risparmio. Siamo in presenza di una mutazione genetica del sistema bancario in assenza di un tessuto di norme a protezione degli altissimi rischi che sono stati assunti in nome solo del profitto di brevissimo periodo. Scrive Gallino: “La funzione originaria del sistema bancario stava nel prendere in prestito da molti clienti piccole somme a un dato tasso di interesse, al fine di prestare grosse somme a pochi a un tasso di interesse più alto – contando sul fatto che è improbabile che i molti accorrano tutti assieme, nello stesso momento, a ritirare i loro depositi. Da tempo, per vari aspetti, tale funzione è caduta in secondo piano a fronte della possibilità assai più lucrosa di trasformare i prestiti in titoli commerciabili”.
Luciano Gallino propone una ricetta che consiste nell’indirizzare i capitali nelle mani degli investitori istituzionali verso investimenti socialmente responsabili, ed innanzitutto nella produzione di beni pubblici, a cominciare da infrastrutture di vario genere, dalle scuole ai trasporti. Inoltre, dovrebbero essere privilegiati investimenti produttivi a lungo termine, impiegando in questo modo ingenti risorse per migliorare la condizione del lavoro nel mondo, per farla uscire progressivamente dal percorso di mercificazione e di precarizzazione che ha caratterizzato la storia del lavoro negli ultimi decenni.
Insomma, dalle analisi di Ronald Dore e di Luciano Gallino torna di attualità la questione delle riforme di struttura, che per lungo tempo sono state messe in soffitta ipotizzando che il capitalismo della finanza e del profitto di breve periodo fossero l’unica opzione possibile. Ora, con la crisi squadernata davanti a noi, si tratta di tornare a disegnare forme di organizzazione economica maggiormente attente ai bisogni collettivi.
Ora che i buoi sono scappati dalla stalla, le librerie sono piene di dotte riflessioni sui danni della finanziarizzazione sull’economia mondiale. Non sono però molti gli analisti che possono rivendicare coerenza di pensiero nella interpretazione dei fatti che hanno condotto alla attuale crisi.
Ronald Dore e Luciano Gallino sono tra quelli che, in tempi non sospetti, mentre prevaleva ancora il pensiero unico del liberismo dominante, avevano lucidamente messo in evidenza le distorsioni che si stavano determinando nella organizzazione delle economie e dei sistemi sociali, per effetto della prevalenza di un modello di capitalismo basato sulla deregolamentazione, sullo smantellamento degli istituti di welfare e sulla dominanza della rendita finanziaria rispetto all’industria.
Proprio per questa ragione, leggere i loro recenti contributi può essere un utile esercizio, non solo per approfondire l’analisi sui fattori fondamentali alla base della crisi economica in corso, ma anche per cercare di capire quale ricetta venga proposta ora da parte di chi, con maggiore credibilità rispetto ad altri, aveva colto i segni di una condizione di insostenibilità nascosta tra le pieghe della globalizzazione a senso unico.
Ronald Dore, nelle sue analisi sui diversi modelli di capitalismo, aveva già da tempo evidenziato le debolezze strutturali del sistema anglosassone, fondato sulla instabilità di meccanismi finanziari fortemente deregolamentati, rispetto al sistema europeo di welfare, proprio negli anni in cui, a cavallo tra il vecchio ed il nuovo secolo, si operava una sistematica demolizione delle reti di protezione sociale che sono state alla base del capitalismo ben temperato, tipico dell’approccio sociale dell’Europa continentale. Tra capitalismo di borsa e capitalismo di welfare, Dore chiedeva di scegliere la seconda opzione, quando invece il pensiero dominante esprimeva la convinzione di una irreversibile deriva verso il modello anglosassone.
Nel suo recente libro ("Finanza pigliatutto", Il Mulino, 2009, 9 euro) Ronald Dore torna su questi temi, partendo da una analisi delle ragioni strutturali che hanno condotto, nei passati decenni, ad una prevalenza della finanza sull’industria. Innanzitutto, occorre sottolineare che le attività finanziarie hanno assicurato, per diversi decenni, un livello di redditività tale da attrarre investimenti e risorse, in un processo di causazione cumulativa che è stato poi alla base della bolla finanziaria, alimentata dalla creazione di prodotti finanziari a rischio così elevato da non poter essere nemmeno dimensionato.
Analizzando la serie storica del reddito nazionale statunitense, Ronald Dore mostra che, fino al 1950, la quota dei profitti delle imprese finanziarie sul totale dei profitti era pari in media al 9,5%. Da allora è cominciata una accelerazione, sino a raggiungere il valore massimo nel 2002 (45%), con una successiva stabilizzazione ed un leggero arretramento negli anni più recenti, dovuto al manifestarsi dei primi segni della crisi finanziaria internazionale.
Si è affermata, nel capitalismo anglosassone prima e poi nel sistema economico internazionale, una cultura azionaria fondata sul profitto di breve periodo, sulla ricerca di opportunità di arricchimento rapido, sulla capacità di cogliere opportunità tattiche di massimizzazione della redditività rispetto a progetti di investimenti industriale a redditività differita. Gli stessi governi hanno promosso questa tendenza verso una apparente democratizzazione dell’azionariato, nella convinzione che un’offerta abbondante di capitale azionario avrebbe promosso l’innovazione e quindi la competitività. Nelle scelte delle imprese hanno cominciato a contare in modo decisivo le pressioni degli investitori istituzionali, che muovevano masse enormi di capitali alla continua ricerca della migliore redditività, schiacciando la prospettiva temporale del profitto atteso, sino a far governare in modo indiscusso il rendiconto trimestrale rispetto persino al bilancio annuale dell’impresa.
Sulla stessa lunghezza d’onda si colloca la riflessione di Luciano Gallino, in "Con i soldi degli altri", (Einaudi, 2009, euro 17). I dati del processo di finanziarizzazione sono impressionanti: alla fine del 2007 il Pil del mondo ha superato i 54 trilioni di dollari, mentre la capitalizzazione delle borse mondiali ammontava a 61 trilioni e le obbligazioni pubbliche e private superavano i 60 trilioni. A giugno del 2008 il valore nominale della quota di derivati trattati nelle borse toccavano gli 80 trilioni di dollari, mentre quelli scambiati fuori mercato sfiorava i 684 trilioni: la somma dei derivati era quindi complessivamente pari a 764 trilioni di dollari, pari a 14 volte il Pil del mondo.
Il gioco della finanziarizzazione ha tracimato verso l’economia reale, influenzando le strategie delle imprese in modo decisivo e spostando la struttura dei risparmi degli individui verso scelte fortemente rischiose, spesso senza informare correttamente i cittadini sulle conseguenze di questi cambiamenti nelle strategie di portafoglio. I piani pensionistici sono passati su larga scala da schemi a beneficio definito a piani a contributo definito: mentre nel primo caso il contribuente sa di poter contare su un valore certo del proprio corrispettivo pensionistico, nel secondo tutto dipende dalla volatilità dei rendimenti assicurati dai fondi pensione.
Si è innescata in questo modo una ulteriore spirale perversa di avvitamento che oggi incide fortemente sulla crisi delle imprese industriali. Basti citare il caso della General Motors, la quale si è trovata nel 2009 ad avere solo 85.000 occupati negli Stati Uniti, mentre ai suoi fondi pensione fanno capo un milione di ex-dipendenti. Nel 1962 la GM aveva 460.000 dipendenti, la maggior parte in Usa, ed appena 40.000 pensionati. Nella previdenza privata di stampo anglosassone, l’incrocio tra squilibrio strutturale di dipendenti attivi e numero dei pensionati, unito alla volatilità al ribasso dei rendimenti delle attività finanziarie costituisce una mina vagante i cui effetti non sono ancora pienamente dispiegati.
Mentre cambiava radicalmente la struttura dei mercati finanziari, non si sono introdotte regole adeguate a fronteggiare con disciplina le trasformazioni intervenute. E oggi le banconote e le monete costituiscono solo il 3% del denaro circolante, mentre il restante 97% è interamente simbolico, a cominciare da quello depositato nei conti correnti o sui libretti di risparmio. Siamo in presenza di una mutazione genetica del sistema bancario in assenza di un tessuto di norme a protezione degli altissimi rischi che sono stati assunti in nome solo del profitto di brevissimo periodo. Scrive Gallino: “La funzione originaria del sistema bancario stava nel prendere in prestito da molti clienti piccole somme a un dato tasso di interesse, al fine di prestare grosse somme a pochi a un tasso di interesse più alto – contando sul fatto che è improbabile che i molti accorrano tutti assieme, nello stesso momento, a ritirare i loro depositi. Da tempo, per vari aspetti, tale funzione è caduta in secondo piano a fronte della possibilità assai più lucrosa di trasformare i prestiti in titoli commerciabili”.
Luciano Gallino propone una ricetta che consiste nell’indirizzare i capitali nelle mani degli investitori istituzionali verso investimenti socialmente responsabili, ed innanzitutto nella produzione di beni pubblici, a cominciare da infrastrutture di vario genere, dalle scuole ai trasporti. Inoltre, dovrebbero essere privilegiati investimenti produttivi a lungo termine, impiegando in questo modo ingenti risorse per migliorare la condizione del lavoro nel mondo, per farla uscire progressivamente dal percorso di mercificazione e di precarizzazione che ha caratterizzato la storia del lavoro negli ultimi decenni.
Insomma, dalle analisi di Ronald Dore e di Luciano Gallino torna di attualità la questione delle riforme di struttura, che per lungo tempo sono state messe in soffitta ipotizzando che il capitalismo della finanza e del profitto di breve periodo fossero l’unica opzione possibile. Ora, con la crisi squadernata davanti a noi, si tratta di tornare a disegnare forme di organizzazione economica maggiormente attente ai bisogni collettivi.
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