lunedì 27 aprile 2009

Campania: diossina e arsenico nell’acqua potabile

di Giorgio Trasarti
Solventi chimici, diossina e persino arsenico nelle acque dei comuni campani. I risultati dei test effettuati dalla US Navy in 166 abitazioni, prese in affitto dalle famiglie dei militari Usa di stanza nel napoletano e nel casertano, delineano un gravissimo scenario di contaminazione chimica e biologica delle risorse idriche locali. "Sono altissime le concentrazioni di componenti organiche volatili in undici abitazioni di Casal di Principe", scrive il Comando della Marina che ha ordinato lo sgombero immediato del personale ivi ospitato ed il suo trasferimento nella base di Gricignano. Mentre Casal di Principe viene dichiarata "off limits", l'accertata presenza di agenti chimici
in "quantità inferiori" nelle abitazioni occupate dai militari USA ad Arzano, Marcianise e Villa Literno ha determinato la "sospensione temporanea degli affitti" in questi tre comuni.
Il composto inquinante rilevato nelle acque è il tetracloroetene, anche noto come tetracloroetilene o PCE, utilizzato come solvente e per la produzione di pesticidi. Scarsamente biodegradabile, è assai
nocivo per l'uomo e per l'ambiente. Inalato, deprime il sistema nervoso centrale e produce sintomi simili a quelli dell'ubriacatura da alcolici: mal di testa, confusione, difficoltà nella coordinazione motoria, riduzione delle percezioni tattili. L'esposizione a grandi percentuali di solventi volatili
organici clorati (denominati VOC) può compromettere le capacità di risposta immunitaria e, nel caso di una gravidanza, il corretto sviluppo del feto. Esposizioni prolungate possono inoltre condurre al danneggiamento dei tessuti epatici, renali e del sistema nervoso centrale. Il tetracloroetilene è considerato oltretutto un agente cancerogeno.
In che modo il PCE sia finito nei rubinetti di alcuni comuni campani è cosa tutta da accertare. Per i medici statunitensi l’inquinamento sarebbe legato principalmente alla combustione illegale dei rifiuti nelle strade e nelle discariche della Campania. Gli "inaccettabili livelli" del solvente riscontrati dalla US Navy hanno imposto immediatamente l'allontanamento da Casal di Principe di undici famiglie statunitensi. Una misura che non ha preoccupato invece minimamente gli amministratori locali: la popolazione civile continua infatti ad essere rifornita di acqua contaminata. Il rilevamento di pericolose quantità di componenti chimiche nell’acqua e nel suolo di alcuni comuni, era stato preannunciato dal Comando USA già nell’autunno 2008 sul settimanale Panorama
distribuito tra il personale militare. Sembra invece che della questione non siano state informate le autorità sanitarie italiane, e gli amministratori locali si sarebbero guardati bene dal richiedere copia dei dati dell’indagine.
Omessa anche la notizia del rilevamento di un altro pericolosissimo veleno: si tratta dell'arsenico, particolarmente utilizzato in agricoltura come pesticida, erbicida ed insetticida. A rivelare che nelle acque campane scorre arsenico è stata la moglie di un ufficiale statunitense, Maria Ortiz, che ha ottenuto nel mese di giugno di essere trasferita con la famiglia in un nuovo alloggio della base USA di Gricignano. Qualche mese prima il Comando di Napoli aveva comunicato verbalmente al marito che i test effettuati nella sua residenza a Villa Literno avevano evidenziato la presenza di "alti livelli di arsenico e altri pericolosi agenti chimici". Un esame successivo confermò i "risultati del
campione preliminare con una presenza consistente di tetracloroetene", senza però fare più cenno all'arsenico. Maria Ortiz decise allora di rendere pubblico quanto riscontrato nel test originario. “I valori di arsenico dispersi nel suolo nella mia abitazione – ha dichiarato Maria Ortiz - erano 40 volte più grandi di quelli che l'Agenzia per la Protezione dell'Ambiente degli Stati Uniti, considera come una minaccia potenziale in caso di un periodo espositivo di trent'anni. I risultati delle analisi dell'acqua erano ancora peggiori. L'arsenico eccedeva il limite di ben 180 volte”.

Per far fronte a quella che è a tutti gli effetti una vera e propria emergenza idrica, il Comando di
Napoli, contemporaneamente alla sospensione degli affitti in quattro comuni campani, ha richiesto ai proprietari dei circa 2.000 immobili che ospitano militari USA di farsi carico dell'installazione di contenitori d'acqua e potabilizzatori, pena la rescissione dei contratti già stipulati. Nel frattempo
ad ogni singolo membro delle famiglie statunitensi sono distribuiti giornalmente 4 litri di acqua minerale in bottiglia, intervento che solo negli ultimi due mesi è costato al Dipartimento della Difesa 263.000 dollari. Il Comando dell’US Navy ha deciso di avviare una seconda fase di analisi che interesserà altre 210 abitazioni del personale statunitense sparse tra la provincia di Napoli e quella di Caserta. La lista dei comuni sotto osservazione è lunghissima e l’esito dei test di laboratorio è previsto per la fine del 2009. In Italia, la legge considera i rifiuti contenenti tetracloroetene come "rifiuti pericolosi". Tali rifiuti, recita il Decreto legislativo del 2006 in
merito alle norme in materia ambientale ( DL 3 aprile 2006, n.152 - art.184), non devono essere smaltiti in fognatura. È lecito a questo punto chiedersi quale trattamento verrà riservato anche in futuro al resto della popolazione civile campana, che continua ad utilizzare inconsapevolmente acqua al tetracloroetene.

Paragona olocausto a dramma palestinese....licenziato

Itamar Shapira, docente dell’Istituto di studi sulla Shoah annesso al museo-memoriale Yad Vashem di Gerusalemme, è stato licenziato per aver paragonato il dramma vissuto dagli ebrei durante il periodo nazista a quello di centinaia di migliaia di palestinesi costretti ad abbandonare le loro terre e le loro case a partire dal 1948.
La notizia, ripresa da tutti media israeliani, è stata confermata sia dalla dirigenza del museo - dove Shapira svolgeva anche il ruolo di guida – oltre che dal diretto interessato. Dal resoconto fatto dal quotidiano ‘Haaretz’ sembra che ad aver suscitato l’ira dei datori di lavoro di Shapira sia stato il parallelo fatto tra la shoah e le violenze commesse dagli israeliani nel villaggio palestinese di Deir Yassin, le cui rovine sono ancora visibili proprio all’esterno del memoriale.
A Deir Yassin, nel 1948, furono alcune centinaia - secondo diverse fonti anche israeliane - le vittime palestinesi di un attacco di formazioni paramilitari ebraiche; da quel momento, partirono concretamente la formazione dell’attuale stato israeliano e la fuga di centinaia di migliaia di palestinesi tuttora confinati – insieme ai loro discendenti – in decine di campi profughi costruiti in Cisgiordania, a Gaza e nei paesi arabi vicini come Siria, Giordania e Libano in particolare. Giustificando la decisione presa, la dirigenza del museo ha sostenuto che l’olocausto non può essere paragonato a nessun altro evento.

Perchè il 25 aprile non può essere una festa di tutti. Il caso Romualdi

La storia è uscita fuori dagli archivi per merito di un regista e documentarista parmense, Giancarlo Bocchi e racconta la triste storia di Giordano Cavestro su “Alias”, il supplemento del “Manifesto”. Il giovane partigiano comunista fu fucilato a Bardi il 4 agosto 1944, dopo che una telefonata fra Mussolini e il futuro deputato al Parlamento italiano ed europeo Pino Romualdi (allora vice-segretario del partito fascista di Salò) ne decise la sorte.
Romualdi si adoperò alacremente, come era abituato a fare, per spezzare la vita del giovane patriota e di altri antifascisti Raimondo Pelinghelli, Vito Salmi, Nello Venturini ed Erasmo Venusti. L’infame eccidio fu compiuto per rappresaglia dopo l’uccisione di quattro fascisti repubblichini.
La telefonata di Mussolini a Romualdi fu intercettata da un “gruppo di ascolto”, composto, fra gli altri, da due antifascisti che lavoravano alla “Timo”, come si chiamava in quel tempo la compagnia telefonica. I due – nomi di battaglia Otto e Vladimiro – intercettavano le telefonate per scoprire in anticipo le rappresaglie e gli agguati dei nazi-fascisti e mettere così al sicuro la popolazione e gli antifascisti. Furono denunciati e torturati dalla Gestapo e soltanto Otto e Vladimiro sopravvissero e ora hanno raccontato le loro drammatiche vicende.
“La telefonata era una storia sepolta della Resistenza, una delle tante che ancora oggi attendono di essere conosciute. E’ importante che venga raccontata perché Romualdi fu un personaggio di primo piano della politica italiana del dopoguerra, uno dei padri fondatori del Movimento sociale italiano, deputato nazionale ed europeo. E’ importante perché dimostra che chi intende farsi beffa della storia deve stare attento, prima o poi la storia esce nella sua verità” dice ora Bocchi ed aggiunge: “Credo che questa sia la migliore risposta a chi fa bieco revisionismo e a chi, come il ministro La Russa, vuole equiparare i militari di Salò ai martiri per la Libertà”.
Non solo Romualdi ma numerosi leader del disciolto Movimento Sociale Italiano, fra cui Giorgio Almirante, ancora osannato dagli attuali post-fascisti, si resero responsabili di rappresaglie e fucilazioni di antifascisti. Sarebbe il caso di ricordarsene, soprattutto il 25 aprile, “festa condivisa”.

Conseguenze della crisi: il centrosinistra al governo per portare l’Islanda nell’euro e nell’UE

La coalizione dei partiti di centro sinistra in Islanda ha ottenuto una vittoria storica nelle elezioni legislative anticipate: i socialdemocratici ed i verdi hanno ottenuto per la prima volta la maggioranza assoluta con 34 seggi sui 63 totali del Parlamento. Il partito socialdemocratico ha conquistato il 29,8% dei consensi (20 seggi) mentre gli alleati il 21,7% (14 seggi). Il partito dell'Indipendenza di centrodestra, all'opposizione dopo 18 anni di governo, ha invece incassato il peggior risultato dal 1944: sulla scia della crisi economica che ha fatto cadere l'esecutivo sull'onda delle proteste di piazza, il partito ha ottenuto il 23,7% (16 seggi). Nel maggio 2007, aveva ottenuto il 36,6% dei voti, contro il 26,8% dei socialdemocratici ed il 14,3% dei verdi.
E così sarà Johanna Sigurdardottir, diventata il 1° febbraio scorso la prima donna a guidare il governo del Paese nordico e considerata la personalità politica più amata d'Islanda, ad essere riconfermata capo di governo. Socialdemocratica, nata a Rejkyavik il 4 ottobre del 1942, Johanna è stata chiamata nel governo del premier conservatore Geir Haarde nel 2007 dove ha svolto l'incarico di ministro degli Affari sociali, ruolo già ricoperto dal 1987 al 1994. Veterana della politica, Johanna è stata per tre volte presidente del Parlamento, l'ultima dal 2003 al 2007. È stata vice presidente del Partito socialdemocratico dal 1984 al 1993. Prima di entrare in politica nel 1978, la premier islandese ha lavorato dal 1962 al 1971 come hostess per la Icelandair, la compagnia di bandiera islandese. E per sette anni ha fatto parte del comitato direttivo del sindacato degli assistenti di volo. Dichiaratamente omosessuale, madre di due figli nati in un precedente matrimonio, Johanna si è legata con una unione civile nel 2002 alla giornalista e scrittrice Jonina Leosdottir, 54 anni. Della loro unione si parla anche sul sito ufficiale del governo islandese. Conosciuta per il suo impegno a favore degli anziani, dei disabili e, più in generale, dei bisognosi è stata soprannominata dalla stampa islandese 'Santa Johanna'. Nella campagna elettorale appena conclusasi, Johanna non ha fatto mistero delle sue intenzioni: portare l'Islanda nell'Unione europea e adottare l'euro nei quattro anni del suo mandato.

Perù, indios bloccano fiume contro le compagnie petrolifere

Stella Spinelli - Peacereporter
Un numeroso gruppo di Indiani ha bloccato uno dei più importanti affluenti del Rio delle Amazzoni, il fiume Napo, per protestare contro le violazioni dei loro diritti perpetrate dalle compagnie petrolifere e dal governo peruviano. Per impedire alle imbarcazioni delle compagnie di risalire il fiume, i manifestanti hanno sbarrato il Napo con le loro canoe e con un cavo. Secondo le fonti, due barche, di cui una di proprietà della compagnia anglo-francese Perenco, sono riuscite a forzare il blocco. Pare siano stati sparati tre colpi contro gli Indiani che, in seguito agli spari, si sono dati alla fuga.
Il blocco del fiume Napo è solo una delle tante proteste che si stanno verificando nell'Amazzonia peruviana. Coordinate dall'Aidesep, l'organizzazione degli Indiani amazzonici del Perù, le manifestazioni sono la risposta alle politiche del governo giudicate discriminatorie ed estremamente dannose per le loro terre. L'Audesep sta esercitando pressioni per ottenere l'abrogazione di numerose leggi che violano i diritti degli indigeni e per la creazione di nuove riserve per gli Indiani isolati. Il governo ha inviato polizia e militari nelle aree dove si stanno svolgendo le proteste.
L'Aidesep ha criticato queste misure definendole "intimidatorie" e sottolineando che le manifestazioni degli Indiani sono pacifiche. La Perenco sta lavorando in una parte dell'Amazzonia dove vivono due delle ultime tribù di Indiani isolati del mondo. La compagnia non riconosce nemmeno l'esistenza di questi gruppi. Stephen Corry, direttore generale di Survival International, la organizzazione che difende i diritti degli indigeni del mondo, ha dichiarato: "In tutto il mondo i popoli indigeni sono stati obbligati a ripristinare l'uso delle barricate per cercare di proteggere quanto resta delle loro terre. Lo stiamo vedendo accadere in India, in Malesia così come in tutto il Sud America. Le proteste continueranno a crescere finché le leggi internazionali e la dichiarazione Onu non verranno realmente applicate. Usare la forza contro gli indigeni che cercano di proteggere le loro terre è una forma di colonialismo e non dovrebbe essere tollerato in alcun modo."

Il Manifesto dei Resistenti

La nostra storia non è cominciata adesso. Un Manifesto comune per tutti i Resistenti.

Noi Resistenti abbiamo cominciato presto a guardare in faccia il nostro vero nemico. Eravamo già attivi nella resistenza spagnola che mise in fuga i mamelucchi di Murat e fece impazzire i generali di Napoleone. Ci riconoscerete dipinti da Goya ne "La fucilazione alla montagna del Principe Pio" e nella urla di gioia che accompagnarono la fuga dei francesi nel 1813. Nasce da qui l'onda lunga che ha portato alla Repubblica del '36 e alla resistenza antifranchista fino ai nostri giorni.
Ci siamo aperti la strada con le armi in pugno insieme a Garibaldi, mentre cadeva la Repubblica romana ed Antonio Brunetti - Ciceruacchio per il suo popolo - insieme al figlio Lorenzo cadeva sotto il plotone di esecuzione. Ma, come fece Gasparazzo contadino indomito, non ci siamo fidati dei garibaldini di Nino Bixio che in Sicilia fucilarono la nostra gente a Bronte, ed insieme a Gasparazzo ci siamo dati alla macchia rendendo per anni la vita difficile ai piemontesi, ai nuovi padroni e ai proprietari terrieri.
A metà dell'ottocento ebbero tanto paura delle nostre barricate che il prefetto Haussman dovette rifare Parigi da capo a piedi. Sventrarono i vicoli e costruirono i grandi boulevard come "strade di una caserma opportunamente ampliata" perché i padroni temevano di incontrare in strade troppo strette i Resistenti come Charles Delescluze o Flourens. Venti anni dopo le barricate infiammarono di nuovo la Parigi della Comune e noi Resistenti fummo conosciuti come "Communards". I soldati del gen. Lacombe furono mandati contro di noi a Montmartre, ma si rifiutarono di sparare sul popolo ed alla fine rivolsero i fucili contro il generale stesso, sono formidabili Resistenti coloro che sanno comprendere chi è il vero nemico.
Ci scatenarono contro altri soldati e i cannoni messi a disposizione dai prussiani, ci fucilarono a migliaia o ci deportarono alla Cayenna. Eppure, come disse l'uomo di Treviri - la testa migliore degli ultimi due secoli - "dopo la Pentecoste del 1871 non ci può essere né pace né tregua tra gli operai francesi e gli appropriatori del prodotto del loro lavoro". Capite adesso perché lo sciopero dei lavoratori in Francia andò così bene anche nel 1995?
Ma noi Resistenti non siamo e non eravamo solo sulle barricate e nelle officine delle grandi metropoli. Nascevamo e crescevamo anche nelle nuove colonie di quello che diventerà l'imperialismo moderno. Eravamo nel deserto algerino e sui Monti dell'Atlante con Abd el Kader che tenne alla larga i turchi e umiliò per anni i legionari del generale francese Bugeaud.
Eravamo nascosti nel pubblico e ci tormentavamo le mani, impotenti in quella occasione, quando gli invasori italiani, nell'ottobre del 1912, fucilarono a Tripoli l'arabo Husein. Ci vollero tre scariche della fucileria del plotone d'esecuzione per vederlo cadere a terra. Husein e i suoi Resistenti avevano fatto impazzire i militari italiani nelle uadi o sulle strade carovaniere. Per rabbia e per rappresaglia gli italiani fucilarono centinaia di persone e ne deportarono 3.053 nelle isole Tremiti, a Ustica, a Favignana, a Ponza e a Gaeta.
"Non ci inganna che si dica un'epoca di progresso. Quel che dicono è invero la peggiore delle menzogne" tuonavano i versi del poeta arabo Macruf ar Rusufi " Non li vedi tra l'Egitto e la Tunisia violare con stragi e massacri il sacro suolo dell'Islam? E non sia addossata la colpa ai soli italiani ma tutto l'occidente sia considerato colpevole".
Nelle colonie pensavano di aver vinto, legando i sepoys alle bocche dei cannoni e facendo fuoco come fecero gli inglesi in India o fucilando e impiccandoci a decine come fecero gli italiani in Libia. Ma gli arabi hanno un cuore indomito e venti anni dopo il Leone del deserto, Omar Al Muktar tornò a seminare il panico tra i soldati e le camicie nere che occupavano la Libia. Il generale fascista Graziani, quello che aveva massacrato con i gas gli etiopi, fece impiccare Omar Al Muktar. Ma il suo fantasma inquieta così tanto gli eredi di Graziani da impedire che in Italia si possa vedere il film che parla della sua storia. Fanno paura anche da morti i Resistenti!!!
Mentre il capitalismo si annunciava con i mercanti, noi Resistenti eravamo già dovunque e da tempo. Avevamo viaggiato sulle loro navi con le catene ai piedi e ai polsi. A cominciare la resistenza furono proprio gli schiavi neri deportati in Brasile che fondarono la loro repubblica a Quilombo e resistettero fino al 1697 contro i colonialisti portoghesi. Cento anni dopo, i nipoti di quegli schiavi, diventati creoli o rimasti neri come i loro antenati, si ribellarono a Bahia, la disinibita città degli incanti e del candomblé cantata dalle pagine di Jorge Amado. Ma eravamo anche più a Nord, eravamo nella selva e sulle Ande con la resistenza di Tupac Amaru. Gli spagnoli lo hanno squartato con i cavalli per smembrarne il corpo ma duecento anni dopo il suo nome ha fatto tremare i governanti corrotti di Lima e Montevideo chiamando alla lotta nella selva e nelle città.
Eravamo a cavalcare al fianco di Artigas nelle grandi pianure della Banda Oriental ed eravamo al fianco del creolo Simon Bolivàr tra selve e paludi per gridare a schiavi, creoli, indigeni e popoli che volevamo una sola nazione, "la Nuestra America. E potevate vederci insieme a José, Antonio e Felipe, senza scarpe e senza saper leggere quando a Morelos Emiliano Zapata lesse il programma che scosse le montagne e mise i brividi ai latifondisti. Tante volte abbiamo resistito, accerchiati dai rurales e dai federales, tante volte li abbiamo umiliati trasformando le sconfitte in vittorie. E ci avete visto anche sessanta anni dopo. Eravamo di nuovo là, nel Guerrero, a Oaxaca, nei Loxichas a fare scudo a Lucio Gutierrez, vendicando con la coerenza tra parole e fatti gli studenti massacrati a Città del Messico o il lento genocidio di indios e campesinos. E venti anni più tardi eravamo tra quelli che dopo il massacro di Aguas Blancas giurarono di fargliela pagare agli assassini.
Eravamo in Bolivia con l'acqua fino alla cintura al guado del Yeso quando l'imboscata dei militari uccise sette di noi tra cui Tamara Burke "Tania". Diciotto giorni dopo nel canalone di "El Yuro" veniva ferito e poi assassinato Ernesto Guevara detto "Il Che" insieme al Chino e a Willy. Quando due anni fa ci siamo rivoltati a Cochabamba contro la privatizzazione dell'acqua, avevano la sua immagine sulle nostre bandiere, la stessa immagine e le stesse bandiere che sventolano sulle terre occupate del Brasile dei Sem Terra, nelle zone liberate dalla FARC in Colombia tra i piqueteros in Argentina. I militari, gli jacuncos o quei perros degli "aucisti", sentono un brivido lungo la schiena quando invece di indios e campesinos impauriti si trovano di fronte i Resistenti.
Ci avrete visto anche più a Nord, ma non ci avete riconosciuto. Eravamo sulle sponde del Rosebud ed avevamo il viso pitturato con i colori di guerra quando insieme al capo Gall abbiamo difeso i teepee degli Hunkpapa e dei Santee dai soldati in giacca blu del colonnello Reno. Li abbiamo battuti e messi in fuga nel giugno del 1876 permettendo così alle altre tribù di sconfiggere il generale Custer a Little Big Horn. Nelle riserve o nella cella di Leonard Peltier ancora si racconta della nostra resistenza.
Ed eravamo ben presenti tra i siderugici dello sciopero di Homestead quando furono messi in fuga gli agenti assoldati dall'agenzia Pinkerton e i padroni dell'acciaio scoprirono che gli immigrati, diventati operai, sapevano unirsi e tenere duro.
E quasi settanta anni dopo i poliziotti bianchi impallidirono quando i nostri fratelli neri opposero resistenza nel ghetto di Wyatt o misero a soqquadro il tribunale di Soledad e le celle di Attica e S. Quintino. George, Dramgo e Jonathan Jackson sono stati un incubo per l'America dei Wasp, bianchi, anglosassoni e protestanti, di conseguenza....razzisti. Mumia Abu Jamal é ancora vivo perché i Resistenti non mollano tanto facilmente, hanno la pelle dura e sanno guardare ben oltre le sbarre della loro cella.
Ma le pagine più belle della nostra storia di Resistenti le abbiamo scritte nel cuore dell'Europa messa a ferro e fuoco dal nazifascismo. Le abbiamo scritte tra le macerie della Fabbrica di Trattori a Stalingrado. "I nazisti, non potendo prenderci vivi volevano ridurci in cenere" ha scritto Aleksej Ockin il più giovane di noi. Insieme a lui ed a noi c'erano Stepan Kukhta e il vecchio Pivoravov veterano cinquantenne. Li abbiamo tenuti in scacco per mesi e mesi e alla fine li abbiamo battuti. La nostra resistenza diede coraggio a tutti gli altri e accese il fuoco che portò le nostre bandiere a sventolare fin sopra il tetto del Reichstag di Berlino. Eravamo invincibili, eravamo gli eredi di Kamo, che fece impazzire la polizia zarista e fornì quanto serviva alla rivoluzione dell’Ottobre. “Il mio insostituibile Kamo” diceva Ulianov preparando il primo assalto al cielo.
Ma eravamo anche a Varsavia, nascosti dopo aver esaurito le munizioni nelle fogne e nelle cantine del ghetto. Eravamo anche lì, insieme a Emmanuel Ringelbaum e a Mordechai Anielewicz che si suicidò per non arrendersi ai nazisti che stavano rastrellando il ghetto in rivolta. Resistenti per sopravvivere alla deportazione e ai campi di concentramento ma anche per riscattare la vergogna dei collaborazionisti dello Judenrat.
Ma eravamo anche nel cuore della Jugoslavia quando sulla Neretva abbiamo umiliato le armate dei nazisti, dei fascisti e degli ustascia croati mandate ad annientarci. Ivo Lola Ribar hanno dovuto ucciderlo e così Joakim Rakovac, ma i Resistenti jugoslavi dimostrarono ai nemici e agli amici che sapevano farcela da soli.
Per anni serbi, croati, sloveni, bosniaci hanno saputo combattere fianco a fianco, per anni abbiamo sfidato la storia tenendo insieme un paese che volevano lacerato. Eravamo pronti anche alla fine del secolo scorso a resistere contro i contingenti inviati dalla NATO ma i dirigenti scelsero altre strade, scelsero la strada che porta in occidente, la stessa che ha mandato in frantumi il nostro paese.
"Banditi" così ci chiamavano in Italia i nazisti e i fascisti ma la gente era con noi Resistenti. Erano con noi i ferrovieri e gli operai di Milano, Genova e Torino, erano con noi i popolani della periferia romana e i contadini emiliani o dell'Oltrepò pavese. C'è una canzone che narra di come ancora oggi i fascisti temano il fantasma del partigiano Dante Di Nanni che gira fischiettando per Milano. "Cammina frut" scriveva Amerigo che fu Resistente sul fronte difficile della frontiera con l'Est. E piano piano eravamo ovunque: Maquis in Francia, partigiani nella pianura belga e olandese o sulle montagne greche.
Tanti di noi si erano "fatti le ossa" nella guerra di Spagna, affrontando le armate franchiste, i legionari fascisti e i bombardamenti tedeschi. Con l'immagine delle rovine di Guernica negli occhi, abbiamo resistito oltre ogni limite, lasciati soli dalle democrazie europee che temevano il nazifascismo ma temevano ancora di più la rivoluzione popolare e l'onda lunga dell'ottobre sovietico. Quando finì la guerra non eravamo tutti convinti che fosse finita veramente. In Emilia-Romagna – come dice Vitaliano che fu partigiano e vietcong - non consentimmo ai fascisti di cavaresela a buon mercato e in Grecia resistemmo con le armi in pugno contro gli inglesi e gli americani che ci volevano, noi che avevamo combattuto contro i tedeschi e gli italiani, servi di un nuovo padrone. I Resistenti di Euskadi non considerano ancora chiusa la partita con gli eredi del franchismo in Spagna. Vi meravigliate ancora perchè in Italia, in Spagna e in Grecia ci sono ancora i movimenti di lotta più forti e decisi d'Europa?
Ma noi Resistenti ci siamo diffusi in tutto il mondo. Eravamo Umkomto We Sizwe, la Lancia della Nazione che i negri sudafricani hanno impugnato per decenni contro il regime razzista, siamo stati i Mau Mau e i fratelli di Lumumba, abbiamo saputo essere poeti come Amilcare Cabral, colpendo, subendo e vincendo il dominio coloniale degli inglesi, dei portoghesi e dei belgi. Ce l'hanno fatta pagare lasciandoci un continente devastato dalle epidemie, dalla fame, dai saccheggi delle nostre risorse, ma nelle terre dell'Africa siamo arrivati dopo, ci prenderemo tutto il tempo che ci serve e poi ci riprenderemo tutto ciò che é nostro, a cominciare dalla dignità.
E poi avete cominciati a vederci ovunque, noi Resistenti. L'arrivo della televisione ci ha mostrato come "barbudos" a Cuba, con la kefija dei feddayn in Palestina e in Libano, piccoli e veloci contro i giganteschi marines, il loro napalm e i loro B 52 nelle giungle del Vietnam. L'immagine del piccolo Truong che scorta prigioniero un marines grande come una montagna ha tormentato i sonni degli uomini della Casa Bianca per decenni. I Resistenti non hanno mai molte cose a loro disposizione, ma per noi, come dice Truong Son "il poco diviene molto, la debolezza si trasforma in forza e un vantaggio si moltiplica per dieci".
Per cancellare questa immagine sono quindici anni che gli americani scatenano guerre contro avversari immensamente più deboli e vincono guerre facili.
Ad Al Karameh, nel 1965, eravamo molti di meno e peggio armati dei soldati israeliani ma li abbiamo sconfitti perchè noi Resistenti siamo fortemente motivati e loro non lo erano. Non lo erano neanche gli eserciti arabi messi in piedi da governi indecisi e spesso corrotti che riuscirono perdere due guerre in sette anni.
A Beirut, ad esempio, nonostante le cannonate della corazzata americana New Jersey abbiamo resistito e abbiamo cacciato via prima gli israeliani e poi gli americani, i francesi e gli italiani e poi lo hanno fatto quelli di noi che erano a Mogadiscio. In Nicaragua eravamo giovanissimi e stavamo mangiando carne di scimmia quando abbattemmo un elicottero e prendemmo prigioniero il consigliere della CIA Hasenfus rivelando al mondo l'aggressione statunitense contro un piccolo e coraggioso paese.
E poi sono arrivate le nuove generazioni di Resistenti, come quelli che hanno cacciato dal Libano del sud gli israeliani o che hanno animato la prima e la seconda Intifada. Le loro pietre pesano come macigni sull'occupazione israeliana e sulla cattiva coscienza dell'occidente. C'erano dei giovani e giovanissimi Resistenti nelle giornate di Napoli e di Genova, uno di essi, Carlo Giuliani, è caduto ma il suo volto da ragazzo si è moltiplicato su quelli di migliaia di ragazzi come lui, nuovi Resistenti che hanno bisogno di sapere, di conoscere, di mettere fine agli inganni e alle rimozioni che li circondano, che sfidano i potenti con la determinazione di Rachel Corrie.
Infine, ed è straordinario, sono sorti dei Resistenti anche in Iraq. Hanno sorpreso molti, soprattutto i loro nemici. Il vecchio Pietro ha riscattato in dieci righe la sua vita di tentennamenti scrivendo che la "Resistenza contro l'invasione è la prima condizione per la pace". I Resistenti sono ormai dovunque, sono diffusi in questo mondo reso più piccolo dalla globalizzazione e più insicuro dall'imperialismo e dalla guerra. E' arrivato il momento di unirli, di dargli una identità comune e condivisa, di riconoscerli e farli riconoscere a chi - da Bogotà a Manila, da Nablus a Salonicco, da Seattle a Durban - si è rimesso in marcia per rendere possibile un altro mondo. Fin quando ha agito la legalità formale delle democrazie è stato possibile disobbedire, ma alla guerra e all'imperialismo occorre resistere, improvvisare e disobbedire non basta più, oltre ai corpi serve la testa e una visione aggiornata della nostra storia. Alla democrazia fondata sulle bombe noi opponiamo il regno della libertà, all’idea di libertà fondata sull’homo economicus noi proponiamo all’umanità il passo avanti della liberazione. Per noi, il poco sta diventando molto, la debolezza si sta trasformando in forza, un vantaggio si sta moltiplicando per dieci. L'epoca delle Resistenze è cominciata.

I Resistenti

Cagliari: caricati gli antifascisti, l'estrema destra commemora i caduti della RSI

di Osservatorio sulla repressione
Sono le cinque del pomeriggio quando una cinquantina di compagni raggiunge piazza Gramsci, punto d'arrivo della manifestazione indetta da tutte le sigle della destra cagliaritana e autorizzata dal Prefetto. Ad attendere gli antifascisti circa cento poliziotti e carabinieri in assetto antisommossa. Già in prossimità della piazza scattano i controlli e le identificazioni. Vista l'impossibilità di concentrarsi nella piazza antistante la via Sonnino, i compagni decidono di spostarsi nella vicina Piazza Costituzione.
Da qui, in circa centocinquanta, si dirigono nuovamente verso la Piazza Gramsci, intenzionati a contrastare la lugubre marcia dei fascisti che sfilano per commemorare i caduti della R.s.i e chiedere l'abolizione del 25 Aprile. Sono circa le 18 e i fascisti stanno per muoversi dalla Piazza Garibaldi, distante circa mezzo chilometro dal luogo in cui si trovano gli antifascisti. In quel momento, dalla piazza Gramsci, una quarantina di poliziotti e diversi blindati avanzano lentamente verso i compagni. Quando questi ultimi sono "a vista" scatta la carica a freddo: negli ultimi trenta metri i poliziotti si scagliano contro i manifestanti che riescono, comunque, a resistere per svariati minuti alla pressione delle forze dell'ordine. Letta la situazione, alcuni cittadini scendono dai palazzi per frapporsi tra la polizia e i manifestanti aggrediti. Intanto i manganelli hanno causato lesioni a cinque persone, una di queste ha riportato la frattura del setto nasale.
A questo punto i compagni decidono di spostarsi in corteo, non autorizzato (come non era autorizzato il presidio delle cinque visto che la piazza era già stata 'promessa' ai fascisti), verso la Piazza del Carmine dove la sera si festeggerà la Liberazione. Un corteo, peraltro, molto ben riuscito sul piano della comunicazione. Quando i resistenti si trovano nella via Roma, i fascisti avanzano per la via Sonnino in direzione del monumento ai martiri delle Foibe, a loro tanto caro, dove di fatto hanno poi deposto un cippo per commemorare i repubblichini. In circa centocinquanta, arrivati da tutta la regione, hanno marciato con i loro tricolori e le loro aquile grazie alla connivenza delle istituzioni locali. Da notare come nessuna sigla specifica sia stata mostrata a favore di uno striscione unitario "Onore ai caduti della RSI". Una tetra e cupa aria di morte e tristezza è scesa su quella zona del centro di Cagliari.
Un primo bilancio della situazione porta a dire due cose: innanzitutto c'è stata una forte reazione da parte degli antifascisti cagliaritani che hanno provato in tutti i modi a contrastare quella che è da considerarsi una vera e propria marcia della vergogna, riuscendo infine a portare la propria voce per le strade della città. In secondo luogo è da sottolineare come, da due anni a questa parte, i fascisti del capoluogo sardo non si accontentino più di sventolare i simboli dell’infamia inscenando un presidio statico presso la Basilica di Bonaria come era loro abitudine. E questo è un dato su cui riflettere. Insomma, il 25 Aprile a Cagliari è stato due cose al contempo: una pagina nera e una giornata di resistenza.



Cagliari, un 25 aprile di resistenza!
La giornata di oggi segna un solco profondo con la tradizione cagliaritana di gestione del 25 aprile, fatta di commemorazioni e passeggiate che convivevano con la presenza fascista in città indisturbata e protetta da un ingente numero di forze dell'ordine. Da numerosi anni, infatti, due anime popolano le piazze del 25 aprile: da una parte il corteo istituzionale per celebrare la festa della liberazione dal nazi-fascismo, dall'altra, nelle scalinate della basilica di Bonaria, tutta la destra sarda composta da un centinaio di persone che commemora i caduti della R.S.I.. Negli ultimi due anni i fascisti hanno osata di più senza trovare particolari resistenze, il 25 aprile infatti da due anni organizzano un corteo da piazza Garibaldi a Piazza Gramsci dove risiede il monumento ai caduti.
Il solco sta tra la decisione dei vari partiti e del comitato antifascista che organizza la giornata del 25 aprile di non porre al centro dell'attenzione l'agibilità politica che da parte di questura, prefettura e comune viene concessa a Fiamma Tricolore, Forza Nuova e la anomala Azione Giovani, e la risolutezza che quest'anno hanno avuto studenti e lavoratori autorganizzatisi per tentare di bloccare i fascisti.
L'appuntamento era per un'ora e mezza prima del concentramento di continuità ideale, la sigla che creano i fascisti per il 25 aprile, ma già a quell'ora, le 17.00, un grosso dispiegamento di polizia mandava via la prima quarantina di compagni prendendo ad alcuni di essi le generalità. Gli antifascisti si spostano nella poco più lontana piazza costituzione incontrando nelle vicinanza alcuni fascisti che se la danno a gambe levate. A quel punto al ricompattamento gli antifascisti scendono nuovamente verso via Sonnino e si attestano a 200 metri dall'approdo del corteo pro repubblichini. Lo striscione rinforzato arriva giusto in tempo per l'arrivo della celere che senza pre-avvertimento carica brutalmente il presidio degli studenti che a quel punto sarà stato di un centoventi, centocinquanta di persone. La carica della polizia dura diversi minuti ma, forse per la prima volta a Cagliari, il presidio regge senza fuggire e senza arretrare, contando "solo" cinque feriti nonostante negli occhi dei poliziotti le intenzioni fossero ben peggiori.
Il presidio a quel punto si trasforma in un corteo non autorizzato (come non autorizzato era il concentramento in piazza Gramsci, già concessa ai fascisti) che attraversa le vie centrali dello shopping cagliaritano comunicando alla cittadinanza quanto appena venuto e indicandone nella questura e nella prefettura i responsabili.
Il corteo si scioglie, ancora rabbioso, in piazza del Carmine dove si svolge il concerto finale dei festeggiamenti per la Liberazione, alcuni compagni salgono sul palco per raccontare quanto appena successo riscontrando l'applauso dei partecipanti.
Dopo le contestazioni al corteo per ricordare le foibe a Febbraio ed anche lì scontri con la polizia, ci rimane un 25 aprile di resistenza anomalo ma carico di significato e di prospettiva per la citta' di Cagliari, abituata a subire in silenzio l'onta di veder sfilare i fascisti.

domenica 26 aprile 2009

sabato 25 aprile 2009

”Quel” 25 aprile

di Maria Rosa Calderoni
No. Per conto mio, mi metto fuoririga e fuoriluogo. Il 25 Aprile non è di tutti, e noi non siamo tutti uguali, non ancora; l’antifascismo non è uguale o simile al fascismo e nemmeno il fascismo è uguale o simile all’antifascismo. No, non ancora. Sono diversi. restano diversi.

E anche noi siamo “diversi”, restiamo diversi, ci piace di esserlo e di restarlo, in questi tempi di orizzonte piatto, dove valori ruoli partiti nomi e cognomi tendono a mescolarsi, a confondersi, a rimpicciolire le distanze, a farsi contigui. All’insegna volgare dell’uno che vale l’altro (o quasi). No. «L’unità morale del nostro popolo? Una comune e serena riflessione»? La verità di Fiuggi « che tutti i democratici erano antifascisti, ma non tutti gli antifascisti erano democratici»? No. Non vediamo dove due visioni e due concezioni (non solo della politica, ma della storia, del mondo, dello spirito,
della cultura) che non hanno niente in comune possano incontrarsi; né dove né perché. L’ecumenismo, a volte, può far rima con il nullismo; o peggio, con la resa. Può servire a far dimenticare chi siamo, da dove veniamo, quanto è costato. A introiettare le parole altrui, magari avversarie, e a non trovare più le nostre. Ci congratuliamo con il presidente della Camera, se alla fine l’ha capita pure lui, che l’idea “giusta” di nazione (e non solo di nazione...) era la nostra, meglio tardi che mai. Ma per favore, non facciamo finta che oggi tutto si equivale e che l’ambivalenza è il “nuovo” valore che conta. Nessuno può appropriarsi della storia che non ha avuto, e l’equiparazione, nonostante i tempi grigi che corrono, resta quella che è: un falso.
Con il nostro cuore “allegro e veloce” - è l’espressione di un poeta - ce ne infischiamo degli alti pensieri di tanti accidiosi revisionismi; per conto nostro - con tutte le nostre bandiere e tutti i nostri ideali - continuiamo a salutare quel 25 Aprile in cui abbiamo creduto e continuiamo a credere.
Quello in cui hanno creduto i nostri padri combattenti, i nostri fratelli e i nostri compagni che hanno dato la vita. Siamo generosi - lo siamo sempre stati - ma non immemori.
Tutto ciò che di grande e importante e duraturo c’è in questo Paese, lo si deve a “quello”, al nostro 25 Aprile, così come l’abbiamo conquistato e difeso: la Costituzione che oggi tutti lodano (anche Fini, meglio tardi che mai), la libertà, la democrazia, l’emancipazione sociale.
Conquistato con le armi, in una lotta che - non dimentichiamolo - è stata dura, sanguinosa e spietata. Conquistato e poi difeso tenacemente, giorno per giorno, in tutti questi lunghi anni, con l’impegno, l’intelligenza, la dedizione, il sacrificio di milioni di persone (i nostri compagni, nell’accezione larga del termine).
No, state tranquilli; quando diciamo noi, non intendiamo dire solo «noi comunisti», no; nella Resistenza hanno combattuto con noi socialisti, liberali, cattolici; ma di questa lotta noi comunisti - sissignori, è storia documentata - siamo stati una parte grande, e ci piace ricordarlo. Questo fa parte della nostra antropologia, ci piace ricordarlo. E questo, questo “nostro” 25 Aprile, col suo sogno di riscatto della politica, del popolo, della società, nessuno può oscurarlo né confonderlo.
Siamo imperfetti, non siamo riusciti a raggiungere tutto ciò che volevamo e che anche avevamo promesso, una società più giusta e civile.
Per questo resistiamo ancora, per questo siamo qui ancora. Siamo imperfetti, abbiamo anche commesso errori e abbiamo subito sconfitte. Ma siamo qui, e abbiamo le nostre buone ragioni.
Perché, è questo forse il tempo in cui l’Italia può guardare «con fiducia al futuro e con serenità al passato», come ci vengono a dire, con l’alibi antico della sempre invocata “unità dell’Italia”, l’alibi
buono per tutte le stagioni, e tutti i misfatti, disgraziate guerre incluse? L’unità su che cosa, di grazia. Sui mille morti del lavoro all’anno?; sui 200 milioni (di euro) di buonuscita per Romiti e i 1000 mensili scarsi dello stipendio operaio?; sulla “privatizzazione dei profitti e la socializzazione delle perdite” in vigore oggi ancor più che ai tempi del vecchio Marx (come la global crisi insegna)?
Macché. Non siamo uguali.
Siamo diversi.

venerdì 24 aprile 2009

Gli operai bloccano l'Aurelia a Pisa

Video-interviste agli operai della Saint-Gobain:
da PisaNotizie.it



La crisi inizia a mordere e a farsi sentire anche sul tessuto produttivo italiano. I territori ad alta concentrazione manifatturiera vedono chiudere fabbriche su fabbriche con l'attivazione (quando va bene) di cassa integrazioni o (nel peggiore dei casi) con il puro e semplice licenziamento.
Due giorni fa uno sciopero spontaneo e il conseguente blocco dell'Aurelia da parte di centinaia di operai è stata la ripsota a caldo che quei lavoratori hanno saputo improvvisare per opporsi ai 70 licenziamenti che la multinazionale francese Saint-Gobain ha comunicato in mattinata.
La situazione è molto tesa e, se il sindacato nell'assemblea di fabbrica non illude i lavoratori che hanno protestato autonomamente, sono previste grosse mobilitazioni.

Saint Gobain: cronaca di un disastro annunciato
di associazione Aut-aut
Dopo la comunicazione, terribile e improvvisa, di 77 licenziamenti all'interno della fabbrica Saint Gobain di Pisa, da stamattina i lavoratori della fabbrica sono in sciopero, e alternano a picchetti di fronte allo stabilimento blocchi dell'Aurelia. Ma come si è arrivati a questa situazione? Senza ripercorrere le complesse tappe di questa vicenda, basti ricordare che la Saint Gobain e il Comune di Pisa, durante il mandato del Sindaco Fontanelli, avavano firmato un accordo che prevedeva da parte del Comune la concessione di una variante urbanistica che permetteva alla fabbrica la dismissione di un’area dello stabilimento, e da parte dell’azienda l’impegno a investire 100 milioni di euro in cinque anni sul forno Float, operazione che avrebbe offerto garanzie occupazionali per gli operai della fabbrica.
Il risultato di questo “affare”, per la Saint-Gobain, è stato l’ incasso, nell’immediato, più di 20 milioni di euro, attraverso la dismissione di un’area ceduta alla società di costruzioni Ville urbane, che utilizzerà l’area, pare, per costruire palazzi di 7 piani. E per il Comune, ovvero per i lavoratori che dovevano essere i principali beneficiari dell’accordo, quali sono stati i benefici di questa operazione?
Ieri ai lavoratori è stata comunicata la notizia che non esiste alcun investimento sul forno Float che, al contrario, entro luglio sarà spento. Il risultato saranno 77 licenziamenti, dei quali 45 lavoratori a tempo indeterminato e 22 interinali. Il risultato è insomma che mentre un’azienda che fattura milioni di euro si è potuta arricchire ancora un po’, incassando 20 milioni di euro da una società che a sua volta probabilmente incasserà una cifra ancora più alta grazie alle speculazioni che potrà portare avanti sull’area acquistata (siamo sicuri, tra l’altro, che verranno costruiti palazzi di sette piani in un’area come quella della Saint Gobain?), 77 lavoratori hanno perso il proprio lavoro.
Domani il Consiglio Comunale di Pisa discuterà la proposta del consigliere comunale Maurizio Bini di dedicare un consiglio comunale aperto, il 30 aprile, alla questione Saint Gobain. Come risulta chiaro infatti, il Comune di Pisa non ha certo un ruolo secondario nella faccenda. E' realistico, infatti, immaginare che il Comune si sia accorto solo ieri, insieme ai lavoratori, che il famoso investimento da 100 milioni di euro promesso dall’azienda in cambio della variante urbanistica fosse solo un pretesto per una mastodontica operazione di speculazione immobiliare?
La risposta a questa domanda è da cercare probabilmente tra le pieghe dei rapporti che legano chi ha tratto benefici da un’operazione che, ancora una volta, fa ricadere gli effetti della crisi su chi questa crisi la subisce da sempre, permettendo invece di arricchirsi a cui l’ha creata.

Le voci della Saint-Gobain: la parola degli operai
da PisaNotizie.it
I lavoratori della Saint-Gobain rompono il silenzio, scioperano, bloccano l'Aurelia e soprattutto si raccontano e spiegano cosa è avvenuto in questi ultimi mesi nella fabbrica.

"Ci hanno preso clamorosamente in giro" - dice un lavoratore della CRM, una ditta dell'indotto della Saint-Gobain - "la scorsa settimana avevano appeso un foglio in bacheca in cui l'azienda diceva che era tutto tranquillo, e poi ci licenziano. Ci sentiamo traditi. Noi dell'indotto siamo i primi saltare". Queste sono le prime parole che raccogliamo, appena arrivati davanti ai cancelli della Saint-Gobain durante lo sciopero. E un altro operaio che qui lavora dall'1989 incalza: "l'azienda ha negato fino all'ultimo, venerdì ci raccontavano che non si sarebbe fatta più la settimana corta e che i contratti a termine sarebbero stati rinnovati", e un altro operaio lo interrompe: "per forza, avevano deciso già di mandarci tutti a casa da tempo, da molto tempo".
"Il male vero" - ci racconta un altro lavoratore anziano - "è che non si sa cosa vogliono fare. Il problema è se il nuovo Float verrà fatto oppure no: tutto il resto sono chiacchere, e di queste siamo stufi. La mia impressione è, però, che la situazione è brutta e che non ci attende nulla di positivo". Un operaio lo interrompe: "a noi dicono che si naviga a vista, ma come è possibile che una multinazionale va avanti così senza una strategia?". Aggiunge un altro lavoratore: "che sarebbe finita così si sapeva da mesi, non si sono voluto vedere le cose per quelle che erano, si sa che politica fanno le multinazionali."
Un altro operaio che lavora allo stratificato da più di dieci anni ci spiega: "in tutti questi anni abbiamo acquisito delle professionalità in questa fabbrica. L'azienda ha guadagnato su di noi. Da quando sono qui, la Saint-Gobain ci ha chiesto sempre una maggiore disponibilità: lavoro interinale, straordinari di sabato e di domenica e noi abbiamo accettato. Ora ci dicono che c'è la crisi e ci mandano tutti a casa". Un altro lavoratore aggiunge "nel mio reparto, ci hanno chiesto gli straordinari anche il sabato fino al 31 gennaio, alla faccia della crisi. L'azienda si è riempita i magazzini, in modo da avere riserve per anni, e ora che ci ha spremuto bene ci butta via. Occorre porre un freno a queste multinazionali che pongono al centro solo il profitto". "Io ho lavorato il 24 dicembre, il 31 dicembre di quest' anno e ora mi dicono che c'è la crisi - afferma un operaio - A noi dicevano: lavorate e le cose miglioreranno. Il risultato è che spengono il Float e ci licenziano". Interviene un terzo: "qui licenziano il 30% di noi, basta coi patti con l'azienda, è tanti anni che ci strozzano", e c'è chi urla: "hanno marciato sulla crisi per avere gli incentivi, hanno guadagnato loro e basta".
Insieme con gli operai della Saint-Gobain ci sono i lavoratori della CRM (una sessantina), ma anche quelli delle cooperativa delle pulizie, poco meno di una trentina. Uno di questi ci dice: "è da gennaio di quest'anno che lavoro a 6 ore, prendo 750-800 euro al mese, e non ho né cassa integrazione, né alcun ammortizzare sociale. Se ci licenziano abbiamo solo la disoccupazione davanti a noi. Questa è una schifezza. Cosa ci faccio con 800 euro al mese con tutta la famiglia a carico mio?"
A scioperare ci sono anche i contrattisti della Saint-Gobain. Uno di questi ci racconta, mentre blocca un camion davanti all'ingresso dei cancelli: tanto se il camion entra, poi non può scaricare perché io e gli altri che svolgiamo questa mansione siamo qui a scioperare: è da tre anni che mi rinnovano annualmente il contratto. Se un lavoratore si vuole licenziare deve dare un preavviso all'azienda, invece la Saint-Gobain ci manda tutti a casa da un giorno all'altro".
In tantissimi vogliono parlare degli accordi del 2007 che l'azienda non ha rispettato. "Da 30 anni lavoro in questa fabbrica" - dice un operaio, mentre fa avanti e indietro sulle strisce pedonali dell'Aurelia - "gli accordi fatti nel 2007 erano chiari, parlavano di un nuovo Float da 800-850 tonnellate, addirittura superiore a quello attuale che ormai ha più di 14 anni e sta funzionando oltre il dovuto. Non capisco i sindacati, e domando: "dov'è il nostro sindacato? Il sindacato doveva sapere queste cose e bisognava muoversi prima, invece ogni volta c'era una scusa e non si è fatto nulla". La discussione sul sindacato attraversa gli operai con sfumature molto diverse. C'è chi ne sostiene l'operato e chi lo critica, sostenendo "che in questi anni è venuto a mancare, non è stato con i lavoratori", ma tutti ora dicono che "l'importante è farsi sentire tutti insieme".
Un altro operaio, che da 35 anni lavora nello stabilimento, incalza però sulle responsabilità della politica: "noi abbiamo un credito con la politica. La Saint-Gobain ha ricevuto e fatto soldi grazie a una variante urbanistica del Comune, per cui è riuscita a vendere un campo di patate come se fosse oro. Hanno preso milioni di euro, e chi ha beneficiato di questi soldi? Ora ce li devono restituire."
In molti ripetono: "il sindaco ha permesso all'azienda di fare profitti, e di fargli fare soldi, ora il comune si deve impegnare per far ritornare quei soldi". Un operaio è ancora più esplicito sulla vendita di quello che tanti lavoratori della fabbrica chiamano "un campo di patate": "l'azienda ha preso milioni di euro e secondo molte voci che girano sostengono che su questa area c'è una speculazione edilizia. Provo a spiegarmi: se vendi delle case davanti ad una fabbrica attiva, le vendi ad un certo prezzo, ed anche chi le vende ci guadagna una certa cifra. Ma se la fabbrica è chiusa, le case le vendi molto meglio e a un prezzo molto più alto e anche chi ha comprato l'area alcuni anni fa potrebbe aver fatto i suoi conti." Un operaio osserva: "a Pisa si parla tanto di turismo, ma se la gente non lavora, non c'è il turismo. Non si va mica in giro se uno non ha un lavoro".
Un altro operaio più giovane aggiunge: "il sindacato da solo non ce la può fare, questa deve essere una battaglia di tutta la città. Saint-Gobain è la storia di Pisa, e Pisa finisce se non viene rifatto il Float. Da questo impianto dipende la vita e il futuro di migliaia di famiglie".
Un altro lavoratore, quando stiamo per andare via, ci chiede di parlare: "Noi vogliamo un programma scritto, chiarezza, non si può più vivere di voci. Il nuovo forno lo fanno o ci mandano tutti a casa?"

G8 Ambiente. Il controvertice sfila nelle strade di Siracusa

di Simone Di Stefano
SIRACUSA - La solita girandola di cifre sui presenti, tra chi minimizza riducendo il corteo ad una scampagnata e gli organizzatori che invece parlano di numeri consistenti. Se la verità è nel mezzo allora i presenti al contro-corteo del G8 di Siracusa di ieri erano alcune migliaia. E chi si aspettava vetrine in frantumi e cassonetti rigirati stavolta sarà rimasto deluso perché mai come oggi la scia di manifestanti ha regolarmente concluso il suo percorso nella più risoluta compostezza.
Eppure la giornata non era iniziata nel migliore dei modi. L'arresto di un cittadino polacco colto in possesso di un coltello non aveva fatto altro che alimentare le paure dei negozianti ignari degli appelli del sindaco Roberto Visentin a sedare gli «inutili allarmismi», tanto che stamattina per il centro di Siracusa diverse erano le serrande abbassate. Il corteo è però partito da Piazza Sgarlata senza arrecare danno a nessuno. Presenti come di consueto i soliti caschi blu, i manganelli e la Polizia a cavallo, ma stavolta nessun intervento e solo ordinaria amministrazione. A parte un allarme bomba in tarda serata ieri, che ha destato i visi tirati dal sonno dei poliziotti. Tutto rientrato dopo che gli artificieri hanno fatto brillare il contenitore, che altro non era se non una vecchia cassa acustica. «La scelta di Siracusa limita la partecipazione a livello nazionale. Quindi qui sono presenti soprattutto giovani siciliani. Siamo qui per manifestare il nostro forte dissenso rispetto alla dissennata politica ambientale che ci propinano i partecipanti del G8», ha spiegato l'ex parlamentare e leader dei no global, Francesco Caruso, alla testa del corteo. Molte le sigle: Prc, Sinistra e Libertà, No dal Molin, Cobas e anche migranti africani richiedenti il permesso di soggiorno. Una folta rappresentanza di Rifondazione ha accompagnato il corteo fino all'ingresso di Ortigia, dove si svolge il vertice internazionale sull'ambiente e dove era prevista la conclusione della manifestazione. Oltre a Ramon Mantovani (direzione nazionale Prc), anche il segretario regionale Luca Cangemi, che ha lanciato una frecciata a chi temeva incidenti. «A Siracusa - ha affermato Cangemi - è stato diffuso un terrore ingiustificato della nostra iniziativa che ha colpito e preoccupato la città. Ma ciò nonostante dalla Sicilia sono arrivate delegazioni da tutte le nove province. Siamo contenti comunque che il nostro contro-vertice, due giorni di incontri tra associazioni varie, abbia avuto un grande successo riuscendo a mettere insieme tutte le più grandi vertenze ambientali e sociali dell'isola». Nel frattempo 19 ministri discutevano, approvavano, rimandavano. Contento il ministro dell'ambiente danese, Connie Hadegaard, che ritiene «questo G8 un passo avanti rispetto ai precedenti incontri». Poi continua, «dovrebbe arrivare un messaggio molto chiaro ai capi di stato alla Maddalena a luglio». Contenta del vertice anche Lega Ambiente che ha apprezzato la Carta sulla biodiversità che ne è scaturita. Ma poi c'è anche chi crede che «da 40 anni questi signori girano per il mondo per dire che c'è un problema ambientale ma loro stessi non hanno alcun interesse a bloccarlo», ha spiegato Francesco Caruso. A giudicare dal dolce girar circense il leader no-global non è troppo lontano dal vero. A forum ancora in corso, infatti, già si guarda alla prossima conferenza sulla protezione della biodiversità che si terrà ad Atene il 27 aprile e ultima in ordine di tempo arriva anche la decisione che il G8 della Maddalena è stato spostato a L'Aquila. Così i Summit internazionali diventano nomadi …

I movimenti di lotta replicano alla decisione di Berlusconi di spostare a l’Aquila il vertice del G8

di Marco Santopadre
Sono previste per oggi le reazioni ufficiali dei governi di Berlino e Parigi al cambio di luogo del prossimo G8 di luglio. Il cancelliere tedesco Angela Merkel terrà infatti in giornata la sua conferenza settimanale nella quale si attende un commento alla proposta del governo italiano di tenere il vertice all’Aquila. Il presidente francese Nicolas Sarkozy dovrebbe aver concordato con la Merkel una posizione comune. Finora non ci sono state reazioni da parte dei governi di Giappone, Canada e Russia, gli altri paesi che fanno parte del G8, ma da Palazzo Chigi si lascia intendere che se Stati Uniti, Gran Bretagna, Germania e Francia daranno il loro appoggio alla proposta di Berlusconi non dovrebbero esserci ulteriori obiezioni. Il problema per Berlusconi era di ottenere l'assenso dei sette leader dei paesi del G8. Finora è arrivato solo il sì da parte del governo della Gran Bretagna, mentre la Casa Bianca ha fatto sapere di seguire ''con interesse'' gli sviluppi della proposta del premier italiano. Il Dipartimento di Stato USA, con una nota, ha precisato di essere impegnato in una serie di ''intense consultazioni con gli italiani per approfondire le conseguenze'' della proposta di Berlusconi di spostare il vertice del G8 a L'Aquila. Fonti diplomatiche italiane a Washington hanno precisato di avere trovato un atteggiamento sostanzialmente positivo negli interlocutori statunitensi.

Lo spostamento della località dove far svolgere il vertice del G8 di luglio implica comunque una non facile rimessa a punto di un complicato apparato organizzativo già in moto da mesi. Bisogna ristudiare tutti gli aspetti di sicurezza da garantire al summit insieme alla collocazione logistica delle centinaia di funzionari e diplomatici che accompagnano i capi di governo. Stesso problema logistico per i giornalisti provenienti da tutto il mondo - ne sono attesi in tutto almeno 3000 - che devono essere messi in grado di svolgere il loro lavoro.
Se Berlusconi pensa che i cosiddetti ‘no-global’ non andranno a L'Aquila per manifestare contro il G8. «si sbaglia di grosso» afferma Luca Casarini, sottolineando che la mobilitazione non sarà solo a L'Aquila, «ma in tutte quelle zone rosse di questa società in crisi, per riaffermare la lotta in difesa dei beni comuni». Berlusconi, dice Casarini, «ha dimostrato ancora una volta la capacità di rovesciare le situazioni a suo favore. È un nemico molto intelligente, è come Luigi Bonaparte e non un arrogante ducetto come Mussolini. Ancora una volta ha dimostrato di essere completamente disinteressato della sacralità delle istituzioni e sfruttare a suo favore ogni situazione». «Il G8 di oggi è diverso da quello del 2001, che era la celebrazione del sistema capitalistico - continua Casarini -. Oggi quel sistema è in crisi e dunque le zone rosse da violare non sono più tanto i luoghi dove i potenti scelgono di rappresentare la propria crisi, ma le tante zone rosse che l'hanno provocata: i manager e le banche». Dunque contestazione ci sarà, ma «per riaffermare la lotta per la difesa dei beni comuni e i temi su cui ogni giorno si confrontano i movimenti: l'acqua, la casa, i rifiuti». Se alla fine la decisione di fare il G8 a L'Aquila comporterà che le persone colpite dal terremoto avranno una casa, «io sarò il primo ad essere contento. Ma - conclude Casarini - mi auguro che non usino le tragedie, come hanno sempre fatto, solo per fare propaganda lasciando gli sfollati nelle tendopoli». Anche Francesco Caruso, altro leader del movimento negli anni scorsi e poi passato per il Parlamento nel gruppo di Rifondazione, critica Silvio Berlusconi: «Ancora una volta vuole strumentalizzare il dramma del popolo abruzzese e usarlo come scudo umano nei confronti del dissenso». "L'ultima cosa che possiamo fare è indietreggiare rispetto alla colossale provocazione e alla clamorosa manovra politica" dice invece Piero Bernocchi, della Confederazione Cobas: "Lo hanno già fatto in maniera vergognosa Franceschini ed Epifani, che hanno sottoscritto senza fiatare tutto (spreco del denaro pubblico già investito alla Maddalena, provocazione verso le legittime manifestazioni, uso strumentale ulteriore dei terremotati ecc..), guai se lo facessimo noi. La militarizzazione eventuale dell'Abruzzo non può certo essere peggiore di quella della Maddalena, anzi". "Ci vorrebbe un meraviglioso convegno internazionale sul terremoto, da noi organizzato con i migliori esperti italiani e stranieri in cui si lanci la proposta di destinare la spesa degli F35 e quella per il Ponte di Messina alla ricostruzione dell'Abruzzo ed alla messa in sicurezza di tutto il patrimonio edilizio nazionale. Un controvertice coi fiocchi" propone Nella Ginatempo del Patto permanente contro la guerra.

Italia milionaria. Di poveri

Due milioni e mezzo di poveri «assoluti»
di Manuela Cartosio
«Dal 2005 al 2007, Italia più misera»
A febbraio le presenze nei superlussuosi alberghi di Dubai sono crollate del 35% rispetto a febbraio del 2008. A suo modo, è un indice globale di impoverimento relativo dei ricchi. Le persone di cui si occupa il rapporto dell'Istat presentato ieri, invece, le vacanze non se le possono permettere, neppure in un due stelle della riviera romagnola. Sono i poveri tra i poveri. In Italia nel 2007 erano 2 milioni e 427 mila, il 4,1% della popolazione. La foto della povertà assoluta scattata dall'Istat risale a prima della crisi economica. Ovvio pensare che le cifre, nel frattempo, siano peggiorate.
A differenza della povertà relativa, che misura lo svantaggio di alcuni soggetti rispetto ad altri, la povertà assoluta rileva l'incapacità di acquisire i beni e i servizi necessari a raggiungere uno standard di vita «minimo accettabile» nel contesto di appartenenza. Per stilare il rapporto l'Istat ha usato una nuova metodologia. La soglia di povertà assoluta varia in base alla dimensione della famiglia, alla sua composione per età, alla ripartizione geografica e alla dimensione del comune di residenza. Di conseguenza, le soglie di povertà assoluta non vengono definite solo rispetto all'ampiezza familiare (come viene fatto per la povertà realtiva), ma sono calcolate per ogni singolo tipo di famiglia, in relazione alla zona di residenza, al numero e all'età dei componenti. La famiglie con una spesa mensile pari o inferiore al valore della soglia sono classificate come «assolutamente povere». Ad esempio: per una famiglia formata da una sola persona, fra i 18 e i 59 anni, che vive in un'area metropolitana del Nord la soglia è di 729 euro al mese. Se vive in un piccolo comune, sempre al Nord, è di 650 euro. Che scendono a 520 in una grande città del Sud. Per una famiglia di tre componenti sotto i 59 anni che vive in un'area metropolitana del centro la soglia di povertà assoluta è di 1.158 euro.
Sono povere in assoluto 975 mila famiglie, il 4,1% dei nuclei familiari. La percentuale sale al 5,8% al Sud, si attesta al 3,5% al Nord e al 2,9% al Centro.
La povertà assoluta incide di più sulle famiglie numerose (si passa dal 3,1% per le famiglie con un solo figlio minore al 10,5% per le famiglie con più di due figli), dove vivono anziani (5,4%) e dove il capofamiglia è donna (4,9%). L'intensità della povertà, che indica in termini percentuali di quanto la spesa delle famiglie povere si colloca al di sotto della soglia di povertà assoluta, è mediamente del 16% con un picco del 18% tra le famiglie del Sud.
Usando la stessa metodologia a ritroso, l'Istat ha stimato la povertà assoluta nel 2005. Stando a questo confronto, la situazione a grandi linee risulta stabile, con miglioramenti o peggioramenti per determinate tipologie di famiglie. «Peggiorano le situazioni delle famiglie con a capo un adulto di età compresa tra i 45 e i 54 anni o un lavoratore con basso profilo professionale, mentre si rileva un miglioramento nelle famiglie giovani». Quest'ultimo dato deriva probabilmente dal fatto che ormai i giovani lasciano la famiglia d'origine solo se hanno raggiunto una completa indipendenza economica.
Sono riferiti al 2008 e non si riferiscono solo agli ultrapoveri i dati diffusi dalla Cia (Confederazione italiana agricoltori) sugli effetti della crisi a tavola. In termini monetari la spesa alimentare è cresciuta del 2,5%, ma gli italiani hanno mangiato di meno o peggio. Il 35% delle famiglie ha limitato gli acquisti (soprattutto di frutta, verdura e carne), il 34% ha optato per prodotti di qualità inferiore. Di nuovo, si è stretta la cinghia più al Sud che al Nord. La spesa alimentare ha inciso mediamente del 18% sulla spesa totale delle famiglie. Ma mentre un imprenditore destina al cibo solo il 14% della sua spesa totale, la percentuale sale al 19% per l'operaio e schizza al 21% per il pensionato.

La natura cannibale del capitalismo

di Daniele Luttazzi
Perché mai lo Stato dovrebbe aiutare con soldi pubblici le banche private che hanno speculato sulla pelle dei clienti?
Le banche vogliono essere salvate a prescindere. Che ne è della favola del “libero mercato”, che i capitalisti raccontano sempre per nascondere il proprio cannibalismo? I capitalisti, come si vede, sono i primi a non crederci.
Il crack mondiale delle Borse, causato da decenni di deregulation, non terminerà finchè sarà impossibile stabilire quanti titoli tossici le banche abbiano ancora in pancia. Col paradosso che, quando le banche al tracollo accedono al salvataggio di Stato, in pratica sono i cittadini truffati a tenere a galla i truffatori.
E se un Presidente (Obama) prospetta la conversione dei prestiti pubblici alle banche in azioni ordinarie (lo Stato diventerebbe così, giustamente, azionista delle banche che risana) i cannibali rintanati a Wall Street puniscono l’idea con un tonfo in Borsa (ieri).
Vi risulta che qualcuno dei responsabili della speculazione, in Italia o all’estero, abbia chiesto pubblicamente scusa, oppure abbia dichiarato di voler cambiare il suo comportamento in futuro? Vi risultano dimissioni o cambi ai vertici? Svezzati a superbonus che premiavano il comportamento più irresponsabile, i cannibali non conoscono altro modus operandi che questo.
I sistemi bancari nazionalizzati hanno il merito storico di aver promosso decenni di espansione economica virtuosa. Le banche private, invece? Lasciatemici pensare per un secondo. No.
Le banche salvate con soldi pubblici vanno nazionalizzate. Altra possibilità: farle adottare da Madonna.

Il rischio del fascismo ci faccia rialzare la testa

di Alberto Burgio
Pare che Silvio Berlusconi abbia deciso di presenziare alle celebrazioni ufficiali del 25 aprile quest’anno per la prima volta da quando «scese in campo» nel ’94. È suo preciso dovere, un dovere disatteso in tutto questo tempo per ragioni che crediamo vadano ben oltre l’opportunismo di cui parla il senatore Macaluso. Lo fischieranno?
È possibile, e in questo caso dovrà farsene una ragione, il presidente del Consiglio. Ne trarrebbe spunti di riflessione, se la prepotenza gliene lasciasse il tempo. Giustificazioni, quegli eventuali fischi, ne avrebbero sin troppe, come ricorda ancora oggi il «Guardian» ripercorrendo la gloriosa carriera politica di Berlusconi tra editti bulgari, leggi razziste e ad personam. Chissà se il corrispondente del giornale londinese le ha viste quelle recenti immagini del Cavaliere con il berretto da ferroviere e il casco da vigile del fuoco. Sembrava Topo Gigio, ma avrebbe voluto rinverdire gli statuari fasti del Duce trebbiatore, sciatore e manovale. A volte ritornano, o perlomeno ci provano.
Chi proprio non cambia musica è il ministro La Russa. L’8 settembre approfittò della festa in ricordo della difesa di Roma per celebrare i suoi eroi, i «militi» repubblichini del battaglione “Nembo”. Oggi straparla di partigiani indegni di memoria perché «sognavano di imporre in Italia un regime stalinista». Anche questo turpiloquio dobbiamo a Berlusconi. Del resto, non è un fascista di Franco e di Salò anche il Venerabile Gelli, che tesserò lui e il fedele Cicchitto per la P2 e che non perde occasione per sottolineare le analogie tra l’azione del governo e il progetto piduista di «rinascita democratica»? Altro che passato immacolato, caro Macaluso! Piuttosto c’è da domandarsi perché, invece di mimetizzarsi, i La Russa, i Gasparri, gli Alemanno sfruttino ogni opportunità per ribadire il proprio credo. E perché lo facciano proprio oggi, mentre si rinnovano le violenze fasciste nelle strade, gli agguati squadristi, i cori razzisti negli stadi.
La partita è politica e non riguarda soltanto – come qualcuno pensa – la competizione con la Lega per l’egemonia sulla destra radicale e razzista. C’è un progetto che tira in ballo la Costituzione, come si evince agevolmente dagli elzeviri di Ernesto Galli Della Loggia sul «Corriere della sera». L’idea è che la Costituzione del ’48 abbia fatto il suo tempo e vada spedita in archivio. L’Italia dev’essere, per dir così, de-antifascistizzata. Bisogna voltare pagina, cominciare una storia post-costituzionale. Fare tabula rasa del Novecento e dei suoi conflitti. In apparenza si tratta di cancellare il passato. In realtà, l’intento è di legittimarlo. Quel che non merita di essere rimosso cessa d’incanto di essere una colpa.
Così la destra mette a frutto la vera anomalia italiana, l’assenza di cesure tra il fascismo e l’età repubblicana, la mancanza di una Norimberga, il sistematico rifiuto di una riflessione seria sul massacro degli oppositori, gli orrori del colonialismo, il razzismo di Stato contro ebrei, africani e slavi, le nefandezze dei repubblichini, l’incomparabile vergogna dell’alleanza con Hitler. Ma a chi dobbiamo questo revanscismo?
Di certo, contro il revisionismo storico non si è combattuto con la necessaria determinazione. In taluni casi lo si è persino favorito. Hanno pesato molte ragioni, e tra queste anche il difficile rapporto della sinistra con la propria storia. Sta di fatto che non si è stati all’altezza di uno scontro che, nell’investire il passato, coinvolgeva il presente; nel trattare di storia, produceva politica. Dice giustamente il «Guardian» che Berlusconi deve gran parte del proprio successo «alla profonda debolezza dei suoi avversari». Il punto è che questo successo lo paghiamo noi, lo paga il Paese, lo pagano le istituzioni della democrazia italiana costate la vita a migliaia di quei giovani partigiani sulla cui memoria oggi un ministro della Repubblica si permette di sputare. Bisogna saperlo. Bisogna guardare in faccia i rischi che corriamo. Bisogna, finalmente, rialzare la testa.

Operaio muore a Savona. Tutti i porti in sciopero

di Alessandra Fava
Aveva un contratto del trasporto come autoferrotranviere ma di fatto lavorava nel porto di Savona alle manovre di carico e scarico del carbone legate alla Funivia savonese ed è morto impegnato nelle riparazioni di un tetto del deposito di Miramare. Giovanni Genta, 54 anni, è precipitato bucando una tramezza di vetroresina del tetto, ha fatto un volo di cinque o sei metri all'interno del capannone e ha battuto la testa. E' successo tutto quando il lavoro di ripristino del tetto che faceva infiltrazioni era appena iniziato, gli altri della squadra non si sono accorti di nulla. Genta è morto nel pomeriggio di ieri all'ospedale di San Martino di Genova dove era stato portato d'urgenza. Per lui e in nome della sicurezza, contro la modifica minacciata dal governo del Testo unico sulla sicurezza varato da Prodi, oggi scioperano tutti i porti italiani, per due ore alla fine di ogni turno. Filt Cgil, Fit Cisl e Uiltrasporti chiedono all'esecutivo un incontro sulla sicurezza.
Intanto i dipendenti delle funivie si sono astenuti dal lavoro già ieri appena saputo dell'incidente del collega e oggi protestano dalle 7 alle 15,30. I portuali di Savona hanno deciso di aderire alle manifestazioni che prevedono oggi anche un presidio sotto l'Autorità portuale (azionista di minoranza della società della Funivia), scioperando dalle 7 di oggi alle 7 di venerdì.
«Sulla sicurezza col sindacato lavoriamo in modo forte - ha dichiarato il presidente della Funiviaria Alto-Tirreno, Cristoforo Canavese, che è anche presidente dell'Autorità portuale savonese - La settimana scorsa abbiamo chiuso l'intesa sull'ultimo decreto legislativo per individuare il responsabile sicurezza, anticipando gli oneri per i terminalisti». Ma del fatto in questione, Canavese dice: «Ci sono attività che per abitudine e per confidenza vengono fatte con leggerezza», quasi come dire che la colpa è dei lavoratori.
Le dichiarazioni del presidente, fatte quando l'operaio non era ancora spirato, hanno creato rabbia tra i portuali. «Purtroppo a lasciarci la pelle sono i lavoratori - dice il segretario Cgil savonese, Francesco Rossello - E' sempre facile dire che sia una loro svista, è un modo per giustificarsi». Di Genta era nella Funivia da trent'anni, conosceva l'azienda a menadito e non era la prima volta che saliva sul tetto. Ma perché è stato mandato ad aggiustare un capannone che entro il 2010 sarebbe stato abbandonato, dato che è previsto il trasloco in un altro terminal? «Genta ha messo il piede su un pannello di vetroresina che era un tapullo (riparazione di fortuna, in dialetto)», spiega un collega. Potrebbe essere così che il tetto si è aperto come un guscio. Un delegato Filt-Cgil, Cristiano Ghiglia, punta il dito anche sulla carenza di manodopera. «Fino a 20 anni fa, quando invece di 165 persone lavoravano qui più di 300 operai, c'erano reparti con forti specializzazioni: chi spezzava il carbone e lo caricava sui vagonetti per mandarli a San Giuseppe di Cairo Montenotte, a 27 km da qui, andava in aiuto a una squadra specializzata in riparazioni. Oggi non è più così».

Roma: non c'è più il 25 aprile di una volta...

25 aprile, festa della liberazione dal nazifascismo. Era il 1945 e certo i partigiani che ci hanno restituito la democrazia non immaginavano che, anni dopo, le redini della commemorazione di questa giornata le avrebbe prese il presidente Berlusconi celebrandola ad Onna centro del terremoto in Abruzzo, dove peraltro verrà celebrata anche da Roberto Fiore e dai suoi accoliti di Forza Nuova.
A Roma, città medaglia d’oro alla resistenza, il sindaco Alemanno sarà all’Altare della Patria per portare una corona di alloro e poi, ha dichiarato, seguirà gli eventi istituzionali presenti in città.
La storia di Alemanno la conosciamo tutti e certo un suo rifiuto di festeggiare il 25aprile sarebbe stato apprezzato dai suoi per la coerenza, dai compagni e dai sinceri democratici perché questa data non è “la festa di tutti” ma la festa di coloro che al fascismo si sono opposti e continuano ad opporsi.
Persino il sindaco di Parigi Bertrand Delanoë, che certo non si può definire un estremista, ha dichiarato: "Difficilmente riuscirò ad avere buoni rapporti anche con Gianni Alemanno che è stato accolto al Campidoglio con i saluti fascisti". Gianni Alemanno ha risposto dicendo: "Quello che ha detto il sindaco di Parigi su di me è falso, offensivo e intollerabile". Invitiamo il sindaco a guardare i tanti filmati girati a piazza del Campidoglio la sera della vittoria elettorale, forse affacciato alla balaustra di Palazzo Senatorio, come un nuovo balcone di antica memoria, non ha visto i saluti dei suoi sostenitori. Le dichiarazioni del sindaco di Parigi hanno incrinato la patina di equidistanza del Campidoglio, ma sarebbe bastato dare un’occhiata alle ultime uscite del sindaco per capire come stanno le cose.
Il patrocinio del Comune ad un’iniziativa di Casapound, ''Aver messo il logo del Comune su un'iniziativa di Casapound può essere stato un errore ma non è stato questo grande scandalo'' ha dichiarato il sindaco. Patrocinio negato invece al Gay Pride perché si tratta di una manifestazione «di tendenza», secondo quanto dichiarato da Alemanno, gli risponde Fabrizio Marrazzo presidente dell’Arcigay: “Invitiamo il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, a prendere parte alla manifestazione del Gay Pride. Così facendo, si renderebbe conto che non si tratta di una manifestazione di parte, ma sui diritti e le libertà di tutti.”
C’è poi la questione del Teatro dell’Opera di Roma. Nicola Colabianchi, chiamato da Gianni Alemanno a supervisionare il settore artistico della commissariata Opera di Roma, è musicista dalla modesta carriera ma che può vantare l’aver diretto qualche concerto in memoria di Giorgio Almirante. Dopo aver promesso un commissariamento di pochi giorni, con la nomina di un consulente artistico Alemanno si prepara a tenere il Teatro in gestione straordinaria per lungo tempo, come era facile prevedere. Se la figura di Colabianchi desta perplessità, non sorprende che le maestranze del teatro abbiano salutato l’ex sovrintendente Ernani con un regalo.

Scontri a Kfar Qassem, ancora ordini di demolizioni per abitazioni di palestinesi. Oggi nuova manifestazione a Bil'in

È di cinque agenti israeliani contusi e diversi dimostranti arrestati il bilancio degli scontri verificatisi nel cuore della notte di ieri nel villaggio arabo-israeliano di Kfar Qassem, dove le forze di polizia erano arrivate per eseguire un ordine di demolizione della magistratura di un edificio in costruzione ritenuto abusivo. Secondo Ynet, l'agenzia online del giornale israeliano Yediot Ahronot, 400 abitanti del villaggio, armati di sassi e bottiglie molotov hanno atteso l'arrivo delle forze dell'ordine. Quattro dimostranti sono stati arrestati sul posto, mentre altri fermi sono in corso in queste ore in base alle identificazioni effettuate dopo gli scontri.
"Sono venuti di notte come ladri, ma eravamo pronti ad accoglierli", ha detto un abitante a Ynet, contestando come un pretesto il richiamo alle norme edilizie dietro l'ordine di demolizione. Le autorità israeliane sono impegnate in una serie di procedure di demolizione in aree contese - in particolare nella zona di Gerusalemme est, a maggioranza araba - denunciate dai palestinesi come altrettanti tentativi di modifica degli equilibri etnici e che hanno suscitato preoccupazioni anche da parte di Usa e Ue.
“Oggi come ogni venerdì la gente di Bil’in protesterà pacificamente davanti il muro costruito dagli israeliani, ma questa volta ricorderà Bassem che la scorsa settimana è stato ucciso dai soldati per la sola colpa di rivendicare in maniera pacifica la terra espropriata del suo villaggio”: la vice-presidente del parlamento europeo, Luisa Morgantini, raggiunta dalla MISNA a Bil’in, racconta la storia di questo villaggio che ha perso il 65% delle sue terre coltivabili a causa della costruzione di un muro di separazione da parte di Israele. “C’è anche una sentenza della Corte israeliana che ha dato ragione agli abitanti ma che è stata finora disattesa da esercito e governo” continua la Morgantini sottolineando come ciononostante la reazione della gente sia sempre stata affidata a manifestazioni di protesta pacifiche.
“Purtroppo non è così dall’altra parte del muro - dice - tanto che la scorsa settimana Bassem, un palestinese molto noto a Bil’in e da sempre animatore di parecchie iniziative, è stato colpito a morte da un candelotto lacrimogeno sparato da brevissima distanza”. A Bil’in sarà una giornata speciale in suo ricordo, ma anche per la presenza di numerose delegazioni straniere venute qui in occasione della IV Conferenza annuale della resistenza non violenta all’occupazione israeliana. “Delegati pervenuti da ogni continente – ha detto ancora la vice-presidente del parlamento europeo – stanno discutendo di forme di lotta non violenta e popolare. Noi stessi, nell’ambito del parlamento, stiamo cercando di evitare che l’Unione Europea potenzi gli accordi attualmente in vigore con lo stato israeliano”. Boicottaggi e proteste pacifiche, oggi anche a nome di Bassem, le cui immagini stampate in grandi poster campeggiano per le strade di Bil’in accanto alla bandiera palestinese.

Palestina: Israele uccide un manifestante a Bil'in
Quando ancora non si sono sopite le polemiche internazionali sorte intorno alla conferenza di Durban2, giunge, già vecchia di qualche giorno, questa nuova, orribile testimonianza dei metodi "democratici" dello stato d'Israele: l'uccisone di un palestinese (pacifista!).
Dal solo filmato ora visibile si vede chiaramente e senza ombra di dubbio che: tutti i manifestanti dimostravano in modo assolutamente non violento urlando slogan. Bassem Abu Rahme (questo il suo nome)è in prima fila visibilissimo e senza intenzioni di lanciare pietre o qualsiasi altro oggetto i soldati sparano i candelotti sembra di nuova fattura ad altezza d'uomo al punto da colpire in pieno petto Bassem.
La protesta di Bil'in - che vede palestinesi insieme a pacifisti israeliani ed internazionali - si batte da anni contro il Muro della vergogna voluto da Sharon. Muro che, in data 9 luglio 2004, è stato dichiarato illegale dalla corte internazionale dell'aja. ( è comunque legittima indipendentemente dal giudizio del tribunale in quanto opposizione ad un'occupazione straniera). Muro nche serve solo a permettere l'annessione di nuovi territori alla popolazione palestinese per darla ai coloni che si insediano violando così la quarta convenzione di ginevra.
Tutto questo le potenze occidentali non solo non lo condannano ma continuano ad appoggiare permettendo ad israele di fare il bello e il cattivo tempo. Boicottare i prodotti israeliani disdire gli accordi con quelle università israeliane che hanno programmi di ricerca nel campo militare o artisti che appoggiano la politica del loro governo è una necessità inderogabile.

Video dell'ennesimo omicidio di stato:


Grecia: nuovi gravi abusi della Polizia contro migranti e studenti

di Margherita Dean - Peacereporter
Qui, in tutta la Grecia, oramai la polizia ha avuto, finalmente, la decenza di abbandonare le teorie 'pubbliche', quelle per cui il poliziotto è il migliore amico del cittadino, se 'regolare', per mostrare il suo vero volto quello della coscienza deformata da divisa e manganello, se non arma da fuoco. Quale che sia il fuoco. Quale che sia il poliziotto. Poco interessa il motivo personale che spinge un essere umano a indossare le vesti della violenza gratuita.
Vittime preferite: i cosiddetti ‘'anarchici'' e i migranti. Stamane, all'alba, agenti anti - sommossa hanno mandato in ospedale due studenti (uno con la testa rotta e l'altro con le mani rotte, perché usate per proteggersi la testa). Ovviamente non si può stare nel parco della via Navarinou, angolo Zoodochou Pighis, in diabolica prossimità col punto in cui fu ucciso, sempre da un poliziotto, Alexandros Grigoropoulos, il 6 dicembre del 2008. Non ci si può stare a quell'ora in cui le persone per bene dormono. Non si può stare a Exarchia, da sempre quartiere di anarchici e tossici. Un quartiere pericoloso, a dire di varie star dei telegiornali delle otto. Un ghetto, a dire del governo. Non si può stare a Exarchia neanche per una passeggiata, non se si è uomini con i capelli lunghi, vestiti di nero. Altrimenti capita che ti chiedano i documenti. Come minimo. Oppure una camera con vista nell'ospedale di turno è prenotata a tuo nome.

Ora, in quel punto, da poco parco, per molti anni c'era il parcheggio a pagamento da me preferito: la notte era gratuito per tacita sonnolenza del gestore. La mitica Punto ci passò molte ore in attesa mia e degli amici che io, vittima della mia sindrome da autista di autobus, amo caricare e portare in giro. Lo Stand, l'Underground e altri locali storici resistono, non il parcheggio. Scaduto il contratto d'affitto, gli abitanti dei paraggi occuparono la colata d'asfalto, aprirono buchi e ci piantarono alberi e fiori. Il parcheggio della via Navarinou divenne parco autogestito fino a che l'accordo non fu raggiunto e il parco sarà parco. Non grazie al sindaco di Atene, noto taglialegna.
Nel parco, però, non ci si può sedere per fumare l'ultima sigaretta prima di una dolce buonanotte. Non si può neanche essere malati di epilessia, come l'immigrato illegale dal Kurdistan iracheno, altrimenti quelli della Guardia Costiera di Igoumenitsa raccontano che se sei ridotto ad un vegetale è colpa della tua malattia, non del fatto che la tua testa l'hanno usata per stimare la resistenza della banchina (incriminata?) del porto di andata verso l'Italia. Arivan Osman Abdullah è l' ‘'irregolare'' in questione, ha ventinove anni ed è in coma irreversibile dal 3 aprile, giorno del pestaggio subito dalla Guardia Costiera di questo Paese.