di Luciana Castellina
«Buona sera signore e signori. Ho appena dato ordine al comandante supremo delle Forze alleate, il generale Clark, di dare inizio alle operazioni nella Repubblica federale di Jugoslavia».
Sono le 23 del 23 marzo 1999 e questa é la dichiarazione del segretario generale della Nato, lo spagnolo Javier Solana, ahimé socialista e attivo protagonista delle nostre manifestazioni pacifiste negli anni '80. (Ma si sa che la pace è cosa da ragazzi, gli adulti si occupano di politica internazionale.)
Il 24 marzo, alle 20.25, il primo bombardamento su Belgrado; il 26 le «operazioni», chiamate interventi umanitari, sono già 500. Dureranno 78 giorni e scaricheranno 2.700 tonnellate di esplosivo. (Molte settimane, perché, alla domanda posta dall'allora primo ministro D'Alema il 5 di marzo - «che faremo se Milosevic resiste?» -, il consigliere dell'allora presidente americano Clinton, Sandy Berger, aveva risposto: «Continueremo a bombardare».)
Da quel 23 marzo sono passati dieci anni. È una data che è utile celebrare, perché è stata l'occasione di una serie di significative «prime» su cui si è ancora troppo poco riflettuto. Vale la pena di elencarle.
1) È la prima guerra che si combatte sul suolo europeo dalla fine del conflitto mondiale, è un'aggressione di europei a un altro stato sovrano europeo. Smentisce così la mitologia secondo cui la creazione dell'Unione europea avrebbe per sempre allontanato lo spettro degli scontri fratricidi fra le nazioni del vecchio continente.
2) È la prima volta che si straccia brutalmente un accordo internazionale considerato uno dei pilastri dell'ordine postbellico: quello di Helsinki, siglato nel quadro dell'Osce, secondo cui i confini degli stati continentali devono essere considerati intangibili. La violazione della Carta dell'Onu - intervenire militarmente senza mandato del Consiglio di sicurezza - è invece reato già consumato in precedenti occasioni, ma in questo caso appare certamente più grave perché non c'è nemmeno una sembianza di chiamata dall'interno: la popolazione serba, compresi tutti dissidenti, sono orripilati dall'aggressione.
Difficile anche invocare ancora una volta il fantasma di Monaco, dove, non avendo, nel 1939, le imbelli nazioni democratiche fermato Hitler, si sarebbe aperta la strada all'invasione nazista dell'Europa: chi può realmente credere che la piccola e malandata Serbia possa ipotizzare altrettanto?
3) È la prima volta che torna la guerra in Europa come strumento di regolazione dei rapporti internazionali, così rovesciando i principi sui quali si era faticosamente costruita la pace mondiale dopo il '45. Sessant'anni non sono bastati a mettere definitivamente in mora l'idea e la pratica della guerra come valore e iniziativa legittima. E praticabile, quando non c'è deterrenza. Migliore invito a tutti i paesi del
4) È la prima volta che tutti gli stati dell'Alleanza atlantica non si limitano a subire l'iniziativa americana ma si attivano direttamente mettendo a disposizione uomini, mezzi, basi, spazi aerei. È già accaduto in anticipo, il 13 ottobre precedente, quando è stato varato l'Act Order dal Comando Nato. Lo scenario, da quel momento, si popola di americani: generali, ministri, ambasciatori, mediatori. Sotto il diretto comando di Madeleine Albright. Stati vicini - la Macedonia - vengono tranquillamente occupati. Gli europei si contentano della virtuale presenza di Javier Solana. La loro preoccupazione non è come giocare un ruolo autonomo in una regione confinante con quasi tutti, ma come essere riconosciuti partner, ancorché subalterni, degli Stati uniti.
5) È la prima volta che con tanta spudoratezza si procede ad una applicazione selettiva dei diritti. In questo caso quello dell'auto-determinazione dei popoli, riconosciuto, in Europa, ai soli kosovari, che diventano quindi automaticamente «patrioti», sebbene la risoluzione 1160 del 3 marzo 1998 del Consiglio di sicurezza definisca «terroristi» gli attacchi dell'Uck. Contemporaneamente, e come conseguenza, contro ogni principio sancito dai trattati dell'Unione europea, secondo cui deve esser rifiutato il pericoloso nesso etnia-cittadinanza, si appoggia l'ipotesi di stati etnicamente fondati.
6) Per l'Italia è la prima volta che viene ufficialmente cancellata la costituzione, perché, nonostante l'art.11 lo vieti esplicitamente, il nostro paese partecipa in prima persona alla guerra contro Belgrado; e perché tale guerra non è stata autorizzata dal parlamento, che ha solo ratificato a posteriori le scelte del governo. Il presidente Scalfaro prova a obiettare che la cosa è illegittima, ma viene convinto a tacere.
7) Mai nella storia, è vero, i negoziati internazionali sono stati esempio di trasparenza e di equità. Ma mai si era arrivati a uno scandalo come in quello di Rambouillet, spacciato come accordo, sebbene si sia trattato di una dichiarazione unilaterale, mentre la proposta serba (90% dei poteri statali devoluti a una autonoma autorità kosovara e presenza dei militari dell'Osce a tutela) non viene nemmeno discussa. La pretesa non accettazione di Belgrado è la causa che scatena la guerra. Ma Belgrado non può accettare per via di un annesso B che resta un mistero: non viene tradotto né reso pubblico. Si capisce perché: prevede l'occupazione a tempo indeterminato da parte delle truppe Nato di tutto il territorio jugoslavo (nemmeno il solo Kosovo), destinato a diventare una sorta di gigantesca base atlantica dotata di extra-territorialità. Si è trattato di una «clausola killer», inserita non nella speranza che potesse esser accolta, ma affinché il rifiuto consentisse di procedere senz'altro ai bombardamenti.
8) Anche per l'uso spregiudicato dei media non si tratta di una prima volta. Ma mai prima di questa volta la verità dei fatti è stata a tal punto stravolta dai bombardamenti di schegge di emozione lanciati dal video sui telespettatori. Non è bello conteggiare le vittime per stabilire chi ne abbia avute di più, anche perché brutalità insensate sono state operate da ambo le parti. Resta il fatto che, a cominciare dall'eccidio di Racak, il 16 marzo, nonostante i dubbi espressi da autorevoli giornalisti di tutto il mondo, ogni conflitto a fuoco fra bande dell'Uck e bande o reparti serbi sono diventati pulizia etnica. Non solo: il grosso degli incidenti si verifica dopo l'inizio dei bombardamenti Nato, non prima, e non può dunque esser invocato a giustificazione dell'intervento. I profughi serbi che persino il ministro degli esteri Dini ammette esser la stragrande maggioranza non saranno mai conteggiati, nonostante non possa non averli visti la commissaria europea Emma Bonino, presente in battle dress sul posto. (Un altro record, quello del nostro Bruno Vespa, che ha annunciato che il moderato primo ministro kosovaro albanese Rugova giace in una fossa comune. Ricompare due giorni dopo a Belgrado.)
9) Il Kosovo è stato anche il primo rilevante test della validità della cosidetta giustizia internazionale. Che ha cancellato la differenza fra il ruolo della politica e quello giudiziario, una confusione perniciosa. Al punto che a svolgere la funzione di polizia giudiziaria è stata direttamente la Nato e i servizi segreti dei suoi paesi membri. Alla giurisdizione definita dai confini entro cui si esercita la sovranità si è sostituita una delega extra-territoriale in bianco che consente a chiunque di arrogarsi il diritto di operare fuori da ogni quadro legale. In un mondo caratterizzato da una assoluta asimmetria dei poteri - ha osservato Danilo Zolo - una giustizia internazionale si rivela impossibile. L'ingerenza umanitaria fondata sulla superiorità tecnologica (militare e mediatica), produce solo una pena di morte collettiva.
10) E, infine, la vera primizia: la guerra del Kosovo è stata la prima guerra della sinistra. Non solo nel senso, evidente, del coinvolgimento attivo di un governo dove le massime responsabilità erano in mano di chi pure proveniva dalla tradizione di chi si era ribellato alla prima guerra mondiale, ma anche per l'atteggiamento imbarazzato quando non connivente assunto da intellettuali progressisti e pezzi di movimento, affascinati dall'idea che la Nato potesse essere il braccio armato di Amnesty international. (Come, in Afganistan, del femminismo.)
A dieci anni di distanza il problema Kosovo è ancora tutto lì: aperto e drammatico, sebbene, dopo le bombe, i paesi Nato abbiano proceduto a un riconoscimento uffficiale dell'indipendenza del paese, calpestando definitivamente tutte le regole internazionali e senza aprire la strada a una soluzione reale.
Ma questa volta la sinistra governativa europea si è almeno divisa: il ministro degli esteri del governo Zapatero, Moratinos, si è rifiuttato di condividere la decisione. E ora Madrid ha anche annunciato il ritiro del proprio contiegente militare. A riprova che non casca il mondo se uno dice no alle imposizioni americane.
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