martedì 24 marzo 2009

Razzismo antidoto della crisi?

di Rosa Ana de Santis
L’annuncio arriva dall’Europa e dice chiaro che la crisi economica rischia di portarsi dentro, come acqua malsana, il virus della discriminazione e della xenofobia. L’invito rivolto ai politici e ai governi in carica è di arginare con ogni mezzo questi fisiologici reflussi di intolleranza e discriminazione e di governare le fasce sociali più deboli, le più esposte ai danni della crisi. Bruxelles ha lanciato l’allarme il 21 marzo, data in cui si celebra la Giornata mondiale per l"eliminazione della discriminazione razziale e lo ha fatto attraverso i numeri e le preoccupazioni espresse dalla Fra (Agenzia europea per i diritti fondamentali), l'Odihr (Ufficio per le istituzioni democratiche e i diritti umani, dell'Osce) e l’Ecri (Commissione europea contro il razzismo e l'intolleranza). Basta ripercorrere le cronache italiane degli ultimi mesi per prendere consapevolezza di quanto l’avvertimento non sia esagerato. Numerosi sono stati gli episodi di violenza e discriminazione, sempre abilmente celati nella categoria ora del bullismo, come quando venne appiccato il fuoco sul corpo del giovane indiano Sing Navte, o della presunta legittima difesa, come quando i due negozianti milanesi - padre e figlio - bastonarono a morte il giovane afro Abdul Salam Guibre.
La tentazione mediatica, ben avallata dai propositi didascalici della maggioranza, è di frammentare sotto apparenti cause diverse quello che ha una visibile radice comune. Visibile nei comportamenti e nelle reazioni dei cittadini: i raid puntivi dell’estrema destra, le periferie rissaiole e minacciose, le ronde improvvisate dei gendarmi inferociti con le dame del casato al seguito. Visibile nella politica sulla sicurezza intrapresa dal Viminale e spalleggiata - salvo un’ultima incrinatura finale - dal governo in carica.
Le misure sono state numerose ed hanno visto al centro delle restrizioni prima i rom, poi i loro figli, poi tutti gli stranieri a scuola con i nostri figli, poi la comunità romena e il dramma addebitatogli in toto del rischio violenza carnale, sfidando le statistiche ufficiali dello stesso Ministero degli Interni. Da ultimo i medici-spia, fino ad arrivare al tetto presenza stranieri del 30%, proposto dalla Gelmini, per evidenti, sincere preoccupazioni legate al loro corretto inserimento.
Che i momenti di crisi economica scatenino, soprattutto negli strati sociali più vulnerabili perchè più colpiti, una ricerca del capro espiatorio per bisogno e per difesa, è acclarato dalla storia e da pagine passate che hanno lasciato alla memoria collettiva moniti chiarissimi nel merito. Che questo possa accadere e accada ancora, rientra nell’analisi e nella spiegazione di archetipi di comportamento che si ripropongono nel tempo in modo molto simile e con regolare ritmo ciclico. Che questo non sia arginato o osteggiato da un governo, piuttosto assecondato al solo fine di distrarre le menti e di cercare la scorciatoia al consenso popolare, è il segnale preoccupante e senza scuse di una somma irresponsabilità.
Le tappe della crisi in atto raccontano di un declino che sarà forse ben più ripido di quello del ‘29. E’ stato prima di tutti Paul Krugman, premio nobel per l’economia del 2009, a riconoscere la portata della depressione economica. Usciti sconfitti dal furor della globalizzazione planetaria, la crisi sta diventando il ritorno al mito del confine. In economia con il recupero di un certo protezionismo (basta pensare allo spot dei dazi e gabelle per difenderci dalla concorrenza asiatica) e in politica con la riesumazione del nazionalismo.
Non sarà il caso di mutuare con troppa ingenuità la tesi dei corsi e dei ricorsi storici teorizzata da Gianbattista Vico, ma certamente se non vorremo dire per rigore di forme e di nomi di essere all’alba di un nuovo nazismo, possiamo fin da ora rintracciare nei fenomeni di violenza xenofoba una nuova geografia transnazionale del razzismo: questa sì davvero globale nelle vittime prescelte e tutta prodotta a casa nostra.
Non sono più i neri dell’apartheid, come i 69 dimostranti uccisi nel 1960 nella città sudafricana di Sharpeville ricordati dalla Giornata del 21 marzo; non sono gli ebrei, non c’è una identità etnica ben precisa. Non sono solo i rom nei loro campi di abbandono. Sono tutti questi, eppure non sono gli stessi di un tempo. Ha preso forma, cambiando storia e colore, una precisa categoria di discriminati. La quintessenza di quanti lo sono già stati in passato. Ora che il fenomeno dell’immigrazione ha assunto proporzioni tali da rivendicare l’emergenza di intervenire e ha mostrato la vulnerabilità delle frontiere, ora il razzismo ha scelto le nuove vittime. E sono loro: tutti quelli che varcano il confine.
Il viaggio della speranza diventa il palcoscenico del nemico e gli stranieri sono tornati ad essere, nelle intenzioni di molti, quello che erano gli xenos della polis greca. Categoria di esclusi senza alcuna possibilità di mutare il loro status giuridico. I nuovi barbari, con un’accezione che va oltre il dato territoriale per diventare connotato etico.
E’ così che la crisi cerca via di fuga nell’elitarismo, quello che oggi - nella consapevolezza globale - per affermarsi ha necessario bisogno di strategica alleanza tra violenza e occultamento retorico della stessa. Banale questione di pubblicità. Quella che un tempo era propaganda. Quello che oggi abbiamo imparato a fare, forse, con maggiore abilità di quanto non sia stato fatto nel Novecento degli orrori. Il colonizzato che diventa migrante fa suonare l’allarme di un possibile, forse imminente, trasferimento di ruolo, di un eventuale ribaltamento delle logiche politiche e culturali finora consacrate, tanto da scatenare gli effetti collaterali di una grande paura.
E’ così che, speculare alla crisi della fiducia che salta di banca in banca, nelle case entra la crisi della sicurezza il cui antidoto veloce e comodo all’uso è la cacciata del nuovo nemico. Ed è più facile individuarlo nel nero e nell’islamico che vive nel seminterrato del padroncino italiano, nella fede di un altro dio e nel povero, che non nelle ragioni dei debiti che gettano le famiglie italiane nella gogna degli usurai.
Le figure della differenza non assimilata, queste sì, che ritornano sempre uguali. Accenti e riti diversi dai nostri sono l’identikit dell’indiziato eccellente. Il tutto esasperato, in una psicosi collettiva che contagia odio, dalla categoria del confine, quella che porta con sé il tema della disperazione in viaggio, dell’incontrollabilità, ormai comprovata, di un passaggio da mare a terra che non si fermerà né con le armi, né con le bibbie. Questa volta, no.
La dialettica della cronaca lo dimostra. Un contraltare d’inefficacia quasi ridicola, a poco tempo dai proclami rassicuranti. Si chiede ai medici di individuare i clandestini ma scoppia dopo poco tempo l’allarme TBC nella città di Bari e l’inefficacia teorica del provvedimento diventa proprio quello che doveva andare a guarire: una cappa irrespirabile di paura. Si muove addirittura la carica dei 100, forse dei 101, nella stessa maggioranza, a evidenziare la nullità della norma sotto i colpi della cronaca.
Viene in mente quello che accadeva nell’Europa della riforma alle chiese cristiane quando perseguitavano le donne. I tribunali dei chierici, per punire il desiderio sessuale represso, punivano le vittime facendole affogare con un sasso al collo. Le sopravvissute erano streghe e andavano bruciate al rogo. Quelle morte affogate, morendo, mostravano la loro purezza troppo tardi, purtroppo, per poter tornare a vivere. Bastò inventare una categoria, quella delle streghe, per pensare di risolvere il problema di un costume ecclesiastico che ancora oggi rimane irrisolto e taciuto solo per dogma.
Allo stesso modo, con identico impatto emotivo, funziona la categoria del nemico. Oggi straniero e migrante. Espulso, cacciato, indiziato. Dai sovrani e per mano dei più poveri. Tutto più facile quando c’è il mare intorno e una lingua di terra a dividere. Quando il confine diventa altissimo quasi a dimostrare la liceità della cacciata e dell’espulsione. Peccato che valessero altre regole quando il nostro viaggio era una rapina e la crescita economica era spesso un’invasione fuori da casa nostra. Allora si chiamava colonizzazione e poi globalizzazione. Ora invece che è il tempo della nostra crisi, il vocabolario è un altro.
Gli stranieri, i migranti sono ben riposti nella categoria del nemico. Chi varca il confine è per destino un clandestino. E quello che la politica non riesce a fare, o non vuole fare, è affidato all’oblio della paura popolare. Forse l’ultimo complesso di presunzione sopravvissuto. Ridicolo e pericoloso. Ciò che resta di una storia di vincitori.

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