Le banche si preparano a battere cassa presso lo Stato. L’ “Opportunità” (così come è stata definita dal grosso dei banchieri italiani) è rappresentata dai Tremonti bond, l’ancora di salvataggio con la quale il governo Berlusconi tenta di evitare ben più gravi conseguenze al sistema bancario italiano, pesantemente tramortito dalla crisi finanziaria internazionale (la quale, peraltro, non ha ancora toccato il culmine della sua criticità).
I vari Profumo, Bazoli, Passera guardano con la bava alla bocca al soccorso del Governo anche se, nelle uscite ufficiali, non dimostrano di considerare il piano di aiuti per quello che realmente è: una necessità per arginare l’emorragia finanziaria dei loro istituti.
I vari Profumo, Bazoli, Passera guardano con la bava alla bocca al soccorso del Governo anche se, nelle uscite ufficiali, non dimostrano di considerare il piano di aiuti per quello che realmente è: una necessità per arginare l’emorragia finanziaria dei loro istituti.
I banchieri parlano, al contrario e impudicamente, di un’occasione finalizzata a garantire, con più fluidità, il credito alle famiglie e alle imprese, quasi a voler dimostrare che i veri bisognosi non sono loro.
Eppure, le banche da essi dirette, non hanno perso bruscolini ma una cifra che si aggira, grosso modo, intorno ai 27 mld di euro (e tali perdite si ingrandiranno, quasi certamente, nel secondo semestre del 2009, periodo in cui la crisi dovrebbe segnare la sua massima intensità). Tanto pare sia stato infatti bruciato, nel falò finanziario che ha ridotto notevolmente i requisiti patrimoniali dagli istituti nostrani, dall'inizio dell'anno.
Con questi numeri da capogiro, i colossi bancari italiani e i loro esponenti di spicco farebbero bene ad abbassare la cresta invece di continuare ad ostentare sicurezza, magari spargendo anche dichiarazioni appassionate sulla prossima ripresa (costantemente rimandata) che hanno il sapore della presa per il culo. I più temerari tra loro tentano pure di rilanciare l’immagine delle loro banche la cui funzione sociale, quella di far progredire il tessuto produttivo dell’intera nazione, non verrà meno nonostante il disagio generale. In linguaggio tecnico si chiama "mission", in quello popolare preferiamo chiamarlo ladrocinio reiterato.
A tal proposito, si fanno quasi quotidiane le rassicurazioni degli organi istituzionali che basano le loro certezze sul fatto che le banche italiane non verserebbero poi in così cattive acque, essendo state più oculate, rispetto alle omologhe straniere, nella gestione dei propri fondi.
Le banche di casa nostra, si dice, sono meno esposte all’estero ed hanno una propensione più bassa alla speculazione, inoltre, avendo da sempre nutrito una vocazione più “casalinga” (cioè si divertono a tosare, in primis, gli italiani) hanno evitato di acquistare all’estero prodotti di alta ingegneria finanziaria (= titoli spazzatura) oggi nell’occhio del ciclone.
Vedremo se le cose stanno effettivamente in questi termini, anche se è lecito dubitarne visti gli sbugiardamenti a cui sono andati spesso incontro questi personaggi, non da ultimo l’ad di Unicredit, Profumo, il quale, qualche tempo fa, dopo aver negato fino all’ultimo le difficoltà della sua banca autorizzò, causa la precipitazione del titolo Unicredit in borsa, un piano di ricapitalizzazione da 6,6 mld di euro.
Coi Tremonti bond si sta ripetendo la stessa sceneggiata. Dapprima lorsignori, pur esprimendo apprezzamento per gli sforzi e la buona volontà del governo, hanno rimarcato, con tronfiezza, di non aver bisogno di aiuti di alcuna natura, e poi si sono precipitati tra le cosce dello Stato per timore di rimanere a secco o di arrivare in ritardo alla grande abbuffata.
E tutto ciò, naturalmente, per spirito di sistema e per tendere una mano alle imprese che rischiano di veder crollare i loro progetti, e non di certo per un loro smodato bisogno di evitare il fallimento (ci mancherebbe!).
L’istituto di Bazoli (IntesaSanpaolo) ha già richiesto 4 miliardi di euro mentre Unicredit temporeggia per non dare ai mercati l’impressione di essere di nuovo in panne. L’unica certezza che viene fuori dall’attuale situazione è che questo primo intervento del governo (aspettatevene altri molto più robusti e invasivi) sia solo un tampone. Presto verrà fuori che senza un vero e proprio piano di salvataggio di tutto il sistema bancario il collasso diventerà inevitabile.
Per capire l’andamento reale della congiuntura, qualche numero ci è davvero utile. Riporto quanto scritto su Libero da Francesco De Dominicis: “Per far aumentare le vertigini basta fare un salto di dodici mesi e scoprire che la capitalizzazione totale delle banche della Penisola era di ben 183 miliardi di euro. A marzo del 2008, IntesaSanpaolo, adesso balzata prima in classifica, valeva da sola quanto oggi pesano insieme tutti i 26 istituti quotati a piazza Affari, circa 63 miliardi. Oggi l'istituto presieduto da Giovanni Bazoli è a 20 miliardi contro i 12 di Unicredit (era a 62 miliardi) e i 4,6 del Monte dei Paschi di Siena (7 miliardi)”.Altro che osservatori presso le prefetture!
E’ inammissibile che lo Stato debba elargire fondi senza avere un quadro chiaro dei bilanci delle banche, almeno per misurare con certezza la loro effettiva esposizione.
E così, nel momento in cui il Presidente degli Usa Obama ammette apertamente che il sistema finanziario americano è sotto rischio fallimento e il commissario agli Affari economici Almunia, lancia l’allarme su nuove e più gravi emergenze che starebbero per colpire l’Europa, soprattutto in paesi come Italia e Grecia, noi siamo ancora qui a discutere se è lecita o meno questa crescente invasività del pubblico nel sistema bancario privato.
Sapete bene che non consideriamo l’intervento pubblico l’anticamera del socialismo, né la panacea per risolvere i disequilibri del capitalismo, non siamo così stupidi come certa sinistra extraparlamentare. Tuttavia, crediamo fermamente che, in questa fase, debba essere lo Stato e gli organi di livello politico a prendere le decisioni adeguate per impedire al nostro paese di sprofondare. E non si tratta solo di ridisegnare la cornice economica entro la quale far ripartire tutto il Sistema-Paese quanto, piuttosto, di collocare l’Italia in una diversa posizione strategica dal punto di vista geopolitico.
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