A Istanbul si chiude oggi il V World Water Forum, organizzato, come le edizioni precedenti di Marrakech, L'Aja, Kyoto, Città del Messico, dal World Water Council, un think-tank internazionale di governi, esperti, ong e agenzie intergovernative sponsorizzato e di fatto guidato dalle più grandi multinazionali del settore idrico.
Nato su iniziativa della Banca Mondiale per affrontare la crisi idrica globale e per realizzare gli obiettivi del millennio, comprendenti la riduzione della sete nel mondo, propone come soluzione le stesse politiche che questa crisi hanno creato: la considerazione dell'acqua come merce, sottoposta alle regole di mercato e la costruzione di grandi infrastrutture che colpiscono ecosistemi e comunità. Del resto l'attuale presidente del World Water Council Loïc Fauchon è allo stesso tempo presidente della Société des Eaux de Marseille, di proprietà di Suez e Veolia, rispettivamente 70 e 110 milioni di clienti nel mondo, le più grandi multinazionali dell'acqua.
Dal 2003 il Consiglio si è aperto ad un numero sempre maggiore di attori ma ancora oggi rimane saldamente nella mani del settore privato che conta il 41% dei membri, una percentuale significativa comparata con le istituzioni accademiche (27%), i governi (17%), le organizzazioni non governative (10%) e quelle internazionali intergovernative (5%).
Il forum in tutte le passate edizioni, e questa non fa eccezione, propone e porta avanti la privatizzazione delle risorse idriche del pianeta. Ma oggi il contesto globale appare certamente mutato, con un numero sempre maggiore di Stati riconoscere attraverso interventi legislativi l'acqua come bene comune indisponibile al mercato. In Ecuador e Bolivia il diritto all’acqua viene addirittura sancito nelle nuove Costituzioni votate e adottate dai paesi Andini come simbolo della difesa non solo della sovranità nazionale ma come proposta capace di mettere al centro delle relazioni e del ruolo degli Stati la difesa della vita e dei diritti.Già in occasione dell'edizione del Forum tenutosi a Città del Messico nel 2006Uruguay, Bolivia, Venezuela e Cuba, firmarono congiuntamente una dichiarazione per chiedere che un reale processo democratico, trasparente e aperto si sostituisca al World Water Forum.
Ma la macchina del Forum, incurante del mutato scenario e della crisi globale che è innanzitutto crisi ambientale e quindi idrica, è andata avanti e per l'edizione del 2009 ha scelto la Turchia come paese ospite. E la Turchia rappresenta un terreno di sperimentazione privilegiato per le politiche degli oligopoli mondiali dell'acqua.
Da tempo infatti questo paese ha aperto ai privati la gestione dei servizi idrici e attualmente sta elaborando una legislazione per consegnare al mercato anche le fonti d'acqua. In altre parole, la proprietà delle stesse fonti idriche potrebbero essere trasferite nelle mani dei grandi interessi privati che già oggi gestiscono la distribuzione dell'acqua per il consumo umano.
Ma non solo. È evidente che parlare di politiche dell'acqua non significa solo concentrarsi sul diritto all'accesso all'acqua degli esseri umani. L'acqua rappresenta un paradigma trasversale collegato inesorabilmente con altri beni comuni universali come terra, cibo, energia, biodiversità, spazio bioriproduttivo e rappresenta un fattore geopolitico cruciale.
Riguarda anche la scelta di progetti infrastrutturali come le grandi dighe che erodono spazi vitali ed agricoli, responsabili di milioni di sfollati ambientali e di danni incalcolabili agli ecosistemi fluviali. Un passivo ambientale e sociale che rimane ancora fuori dai bilanci delle multinazionali e dagli interessi di molti Stati, più preoccupati a fare affari che a garantire diritti.
Una delle regioni del mondo più colpita da questi progetti è il Kurdistan turco, zona estremamente ricca d’acqua. Ed è proprio per la sua ricchezza che questa regione è stata scelta come il luogo “ideale” per la realizzazione del mega-progetto che prevede la costruzione di dighe GAP.
GAP è l’acronimo con cui il governo turco identifica il Guney Anadolu Projesi, colossale progetto di sviluppo idrico infrastrutturale nel sud-est della Turchia che prevede la costruzione di 22 dighe e 19 impianti idroelettrici sui fiumi Tigri, Eufrate ed i loro affluenti, oltre che la costruzione di diverse strutture per lo sviluppo economico della regione. Una delle principali opere del GAP è rappresentata dall’impianto Ilisu, che il governo turco intende costruire sul fiume Tigri, in Anatolia sud-orientale - la regione kurda della Turchia -, appena a valle della città di Hasankeyf ed a soli 65 chilometri a monte della frontiera con l’Iraq e la Siria.
La diga Ilisu sarà alta 138 metri, larga 1.820 metri e creerà un lago artificiale ampio 313 chilometri quadrati e comporterà l’inondazione di 6000 ettari di terre agricole, la distruzione dell’ecosistema del fiume Tigri, la scomparsa di numerosi centri d’inestimabile valore archeologico e storico tra cui la città di Hasankeyf, luogo con 5000 anni di storia, forse il centro più importante per la cultura curda.
Il progetto è di fatto l'ennesimo strumento di repressione che lo stato turco usa contro la popolazione Kurda, che si oppone da oltre dieci anni al progetto, maggioranza nella regione, già vittima di continue violazioni ai propri diritti umani individuali e collettivi. Uno strumento diretto di controllo del territorio (terra di confine con Siria e Iraq) attraverso la gestione diretta della sua anima: l'acqua.
Anche quest’anno un'articolazione variegata di comunità in resistenza, movimenti, reti, associazioni, organizzazioni non governative ha portato ad Istanbul la voce dei popoli che si oppongono alla mercificazione dell'acqua a favore di una gestione pubblica, partecipata e democratica della risorsa idrica: acqua come strumento di pace, simbolo e anima della difesa dei territori. Mentre nei giorni che hanno preceduto il Fourm diverse Carovane in solidarietà con il popolo Kurdo, contro le dighe ed in difesa dell'acqua hanno attraversato il paese con l’obiettivo di costruire una solidarietà attiva nei confronti di un popolo dimenticato in nome degli interessi strategici che legano l’Europa alla Turchia.
Nelle giornate di seminari e assemblee i rappresentanti della società civile internazionale hanno denunciato l'illegittimità del World Water Forum e le ingiustizie che le politiche globali sull'acqua producono. Come nel recente Forum Sociale Mondiale di Belém centrale è stata la critica alla insostenibilità del modello di sviluppo che ha trasformato l'acqua e i beni comuni in merce, l'intera Natura in una riserva di materie prime e il pianeta in una discarica a cielo aperto.
Diverse le manifestazioni di protesta, alle quali sono seguite le reazione durissime da parte della polizia turca: 17 gli arresti e due attiviste rimpatriate perché accusate di un reato d'opinione (l'apertura di uno striscione contro le dighe). A dimostrazione di quanto aperto e democratico fosse il Forum.
Molti italiani dei comitati e della società civile hanno partecipato alle proteste. Ma altrettanto folta è stata la delegazione italiana presente al forum ufficiale. La delegazione governativa, guidata dalla ministra Prestigiacomo aveva tra i suoi obiettivi primari quello di una maggiore co-partecipazione pubblico-privata nella gestione dei servizi idrici “resa obbligatoria dalla crescita dei costi dell'oro blu” si legge nella nota stampa ufficiale. In altre parole continuare a portare avanti le politiche già ampiamente sperimentate nel nostro paese di aziende miste per la gestione dei servizi idrici, in cui i costi economici, politici e sociali delle privatizzazioni ricadono sul pubblico con aumento di tariffe per i cittadini, diminuzione occupazionale, scarsa manutenzione e qualità, e con utili altissimi sempre nelle stesse mani: Suez, Veolia, e le altre sorelle.
Modello che ha portato un bene collettivo a trasformarsi in pacchetti azionari fluttuanti nel mercato borsistico sempre più distante dal controllo dei cittadini e delle comunità. In un paese dove negli ultimi anni i movimenti per l'acqua si sono diffusi e moltiplicati, raccogliendo più di 400.000 firme per una gestione pubblica e partecipata dell'acqua, moltissimi enti locali dalla Lombardia alla Sicilia si sono schierati a favore della ripubblicizzazione dell'acqua. Esempio in Italia e all'estero della co-partecipazione pubblico-privata nella gestione dell'acqua rimane Acea, ex municipalizzata del Comune di Roma da dieci anni trasformata in una holding con partecipazioni azionarie di Suez e Caltagirone, quotata in borsa, vorace nell'acquisire il controllo dei servizi idrici in Italia e nel mondo, capace di occuparsi di energia, rifiuti, inceneritori e forse domani gas. Ai cittadini di Roma toccano solo rialzi in bolletta, i malfunzionamenti e la scarsa qualità, nel silenzio del Consiglio Comunale e della giunta impegnati più a tutelare gli interesse dei grandi azionisti in borsa.
A Istanbul come a Roma le politiche dell'acqua sono sempre più una cartina tornasole del livello di democrazia e partecipazione dei cittadini e delle comunità locali. Riappropriarsi dell'acqua significa riacquisire spazio pubblico vitale, recuperare dal basso parola di fronte allo svilimento della politica istituzionale e dare corpo e senso alla democrazia.
Nato su iniziativa della Banca Mondiale per affrontare la crisi idrica globale e per realizzare gli obiettivi del millennio, comprendenti la riduzione della sete nel mondo, propone come soluzione le stesse politiche che questa crisi hanno creato: la considerazione dell'acqua come merce, sottoposta alle regole di mercato e la costruzione di grandi infrastrutture che colpiscono ecosistemi e comunità. Del resto l'attuale presidente del World Water Council Loïc Fauchon è allo stesso tempo presidente della Société des Eaux de Marseille, di proprietà di Suez e Veolia, rispettivamente 70 e 110 milioni di clienti nel mondo, le più grandi multinazionali dell'acqua.
Dal 2003 il Consiglio si è aperto ad un numero sempre maggiore di attori ma ancora oggi rimane saldamente nella mani del settore privato che conta il 41% dei membri, una percentuale significativa comparata con le istituzioni accademiche (27%), i governi (17%), le organizzazioni non governative (10%) e quelle internazionali intergovernative (5%).
Il forum in tutte le passate edizioni, e questa non fa eccezione, propone e porta avanti la privatizzazione delle risorse idriche del pianeta. Ma oggi il contesto globale appare certamente mutato, con un numero sempre maggiore di Stati riconoscere attraverso interventi legislativi l'acqua come bene comune indisponibile al mercato. In Ecuador e Bolivia il diritto all’acqua viene addirittura sancito nelle nuove Costituzioni votate e adottate dai paesi Andini come simbolo della difesa non solo della sovranità nazionale ma come proposta capace di mettere al centro delle relazioni e del ruolo degli Stati la difesa della vita e dei diritti.Già in occasione dell'edizione del Forum tenutosi a Città del Messico nel 2006Uruguay, Bolivia, Venezuela e Cuba, firmarono congiuntamente una dichiarazione per chiedere che un reale processo democratico, trasparente e aperto si sostituisca al World Water Forum.
Ma la macchina del Forum, incurante del mutato scenario e della crisi globale che è innanzitutto crisi ambientale e quindi idrica, è andata avanti e per l'edizione del 2009 ha scelto la Turchia come paese ospite. E la Turchia rappresenta un terreno di sperimentazione privilegiato per le politiche degli oligopoli mondiali dell'acqua.
Da tempo infatti questo paese ha aperto ai privati la gestione dei servizi idrici e attualmente sta elaborando una legislazione per consegnare al mercato anche le fonti d'acqua. In altre parole, la proprietà delle stesse fonti idriche potrebbero essere trasferite nelle mani dei grandi interessi privati che già oggi gestiscono la distribuzione dell'acqua per il consumo umano.
Ma non solo. È evidente che parlare di politiche dell'acqua non significa solo concentrarsi sul diritto all'accesso all'acqua degli esseri umani. L'acqua rappresenta un paradigma trasversale collegato inesorabilmente con altri beni comuni universali come terra, cibo, energia, biodiversità, spazio bioriproduttivo e rappresenta un fattore geopolitico cruciale.
Riguarda anche la scelta di progetti infrastrutturali come le grandi dighe che erodono spazi vitali ed agricoli, responsabili di milioni di sfollati ambientali e di danni incalcolabili agli ecosistemi fluviali. Un passivo ambientale e sociale che rimane ancora fuori dai bilanci delle multinazionali e dagli interessi di molti Stati, più preoccupati a fare affari che a garantire diritti.
Una delle regioni del mondo più colpita da questi progetti è il Kurdistan turco, zona estremamente ricca d’acqua. Ed è proprio per la sua ricchezza che questa regione è stata scelta come il luogo “ideale” per la realizzazione del mega-progetto che prevede la costruzione di dighe GAP.
GAP è l’acronimo con cui il governo turco identifica il Guney Anadolu Projesi, colossale progetto di sviluppo idrico infrastrutturale nel sud-est della Turchia che prevede la costruzione di 22 dighe e 19 impianti idroelettrici sui fiumi Tigri, Eufrate ed i loro affluenti, oltre che la costruzione di diverse strutture per lo sviluppo economico della regione. Una delle principali opere del GAP è rappresentata dall’impianto Ilisu, che il governo turco intende costruire sul fiume Tigri, in Anatolia sud-orientale - la regione kurda della Turchia -, appena a valle della città di Hasankeyf ed a soli 65 chilometri a monte della frontiera con l’Iraq e la Siria.
La diga Ilisu sarà alta 138 metri, larga 1.820 metri e creerà un lago artificiale ampio 313 chilometri quadrati e comporterà l’inondazione di 6000 ettari di terre agricole, la distruzione dell’ecosistema del fiume Tigri, la scomparsa di numerosi centri d’inestimabile valore archeologico e storico tra cui la città di Hasankeyf, luogo con 5000 anni di storia, forse il centro più importante per la cultura curda.
Il progetto è di fatto l'ennesimo strumento di repressione che lo stato turco usa contro la popolazione Kurda, che si oppone da oltre dieci anni al progetto, maggioranza nella regione, già vittima di continue violazioni ai propri diritti umani individuali e collettivi. Uno strumento diretto di controllo del territorio (terra di confine con Siria e Iraq) attraverso la gestione diretta della sua anima: l'acqua.
Anche quest’anno un'articolazione variegata di comunità in resistenza, movimenti, reti, associazioni, organizzazioni non governative ha portato ad Istanbul la voce dei popoli che si oppongono alla mercificazione dell'acqua a favore di una gestione pubblica, partecipata e democratica della risorsa idrica: acqua come strumento di pace, simbolo e anima della difesa dei territori. Mentre nei giorni che hanno preceduto il Fourm diverse Carovane in solidarietà con il popolo Kurdo, contro le dighe ed in difesa dell'acqua hanno attraversato il paese con l’obiettivo di costruire una solidarietà attiva nei confronti di un popolo dimenticato in nome degli interessi strategici che legano l’Europa alla Turchia.
Nelle giornate di seminari e assemblee i rappresentanti della società civile internazionale hanno denunciato l'illegittimità del World Water Forum e le ingiustizie che le politiche globali sull'acqua producono. Come nel recente Forum Sociale Mondiale di Belém centrale è stata la critica alla insostenibilità del modello di sviluppo che ha trasformato l'acqua e i beni comuni in merce, l'intera Natura in una riserva di materie prime e il pianeta in una discarica a cielo aperto.
Diverse le manifestazioni di protesta, alle quali sono seguite le reazione durissime da parte della polizia turca: 17 gli arresti e due attiviste rimpatriate perché accusate di un reato d'opinione (l'apertura di uno striscione contro le dighe). A dimostrazione di quanto aperto e democratico fosse il Forum.
Molti italiani dei comitati e della società civile hanno partecipato alle proteste. Ma altrettanto folta è stata la delegazione italiana presente al forum ufficiale. La delegazione governativa, guidata dalla ministra Prestigiacomo aveva tra i suoi obiettivi primari quello di una maggiore co-partecipazione pubblico-privata nella gestione dei servizi idrici “resa obbligatoria dalla crescita dei costi dell'oro blu” si legge nella nota stampa ufficiale. In altre parole continuare a portare avanti le politiche già ampiamente sperimentate nel nostro paese di aziende miste per la gestione dei servizi idrici, in cui i costi economici, politici e sociali delle privatizzazioni ricadono sul pubblico con aumento di tariffe per i cittadini, diminuzione occupazionale, scarsa manutenzione e qualità, e con utili altissimi sempre nelle stesse mani: Suez, Veolia, e le altre sorelle.
Modello che ha portato un bene collettivo a trasformarsi in pacchetti azionari fluttuanti nel mercato borsistico sempre più distante dal controllo dei cittadini e delle comunità. In un paese dove negli ultimi anni i movimenti per l'acqua si sono diffusi e moltiplicati, raccogliendo più di 400.000 firme per una gestione pubblica e partecipata dell'acqua, moltissimi enti locali dalla Lombardia alla Sicilia si sono schierati a favore della ripubblicizzazione dell'acqua. Esempio in Italia e all'estero della co-partecipazione pubblico-privata nella gestione dell'acqua rimane Acea, ex municipalizzata del Comune di Roma da dieci anni trasformata in una holding con partecipazioni azionarie di Suez e Caltagirone, quotata in borsa, vorace nell'acquisire il controllo dei servizi idrici in Italia e nel mondo, capace di occuparsi di energia, rifiuti, inceneritori e forse domani gas. Ai cittadini di Roma toccano solo rialzi in bolletta, i malfunzionamenti e la scarsa qualità, nel silenzio del Consiglio Comunale e della giunta impegnati più a tutelare gli interesse dei grandi azionisti in borsa.
A Istanbul come a Roma le politiche dell'acqua sono sempre più una cartina tornasole del livello di democrazia e partecipazione dei cittadini e delle comunità locali. Riappropriarsi dell'acqua significa riacquisire spazio pubblico vitale, recuperare dal basso parola di fronte allo svilimento della politica istituzionale e dare corpo e senso alla democrazia.
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