lunedì 23 marzo 2009

Un fungo di fuoco illumina Belgrado comincia così la guerra “umanitaria”

di Riccardo Jacona
Il 24 marzo mi trovavo con la mia troupe sulla terrazza dell’albergoHyatt di Belgrado insieme ad altre decine di troupe televisive e di giornalisti della radio e della carta stampata del mondo intero. Tutti ad aspettare l’inizio della guerra: alle ore 19.30, preannunciata dall’urlo lancinante di una sirena, una fortissima esplosione alzava un fungo di fuoco alto una ventina di metri, a solo due chilometri in linea d’aria da dove ci trovavamo, illuminando improvvisamente l’orizzonte nero della capitale della Serbia. Iniziava così la campagna di bombardamenti aerei della Nato su Belgrado e sulla Serbia che sarebbe durata 78 giorni.
Oggi sappiamo che quei bombardamenti, presentati come chirurgici hanno letteralmente fatto a pezzi un paese intero: infatti, per vincere la guerra gli aerei della Nato hanno distrutto 82 ponti, tutte le raffinerie di petrolio e 14 centrali termoelettriche, 13 aereoporti e 20 stazioni ferroviarie, più 121 fabbriche, un danno che gli economisti hanno calcolato attorno alla cifra stratosferica di 100 miliardi di dollari.
La distruzione del sistema industriale di questo piccolo paese ha provocato inoltre due milioni di disoccupati e ha ipotecato per almeno dieci anni lo sviluppo economico di quella regione. Senza contare i cosiddetti effetti collaterali: sono stati almeno 500 i civili uccisi sotto i bombardamenti e migliaia i feriti.
Perché tutto questo? Per ragioni “umanitarie”, così c’è stata vendutala guerra della Nato: perché bisognava salvare i kossovari di etnia albanese dall’ennesima pulizia etnica per mano dei paramilitari serbi, perché bisognava ripristinare democrazia e diritti umani in quella regione, perché bisognava infine chiudere l’ultimo focolaio di una guerra, quella della ex Jugoslavia, che sia l’Europa che gli Stati Uniti non solo non erano riusciti a fermare, ma che in parte avevano alimentato, schierandosi, di volta in volta, a favore dell’ uno o degli altri contendenti.
Ecco così che nasceva la “guerra umanitaria”, talmente importante nelle ragioni che l’avevano scatenata da violare persino il diritto internazionale e da essere imposta al mondo intero senza l’avallo delle Nazioni Unite.
Per la prima volta la Nato abbandonava la missione difensiva per la quale era nata nel mondo dei due blocchi, nell’era della guerra fredda e si proponeva come protagonista attivo, capace di cambiare la faccia dei Balcani e di imporre, anche con le armi, democrazia e diritti umani.
Oggi attraversare il Kosovo “liberato” e “indipendente” è un’esperienza scioccante: quasi tutti i villaggi e i quartieri dove vivevano i kossovari di etnia serba sono stati distrutti da bande armate di kossovari di etnia albanese. A Prizren, il quartiere del centro storico dove vivevano seimila kosovari serbi, il più antico e il più bello, è stato dato interamente alle fiamme. Sono stati anche distrutti e fatti saltare in aria un centinaio tra monasteri, chiese ortodosse e centri religiosi, tra cui almeno una ventina di chiese del 1300 e 1400.
A Pristina, la capitale, prima della guerra vivevano 40mila kosovari di etnia serba. Ebbene, nei primi mesi successivi alla fine della guerra e sotto gli occhi delle truppe della Nato che avevano già preso il controllo della città, sono stati cacciati quasi tutti. Le loro case sono sate bruciate, quartieri interi sono stati assaltati, e chi non se ne andava veniva ucciso.
Risultato, oggi a Pristina vivono solo 40 kosovari serbi. Da 40mila a 40. Come è stato possibile che decine di migliaia di uomini della Nato, armati di tutto punto, schierati su un territorio grande come le Marche, non siano riusciti ad impedire questa feroce pulizia etnica? La risposta a questa domanda è molto importante, perché ci consente di capire in profondità quello che è successo in Kosovo, ma anche quello che può succedere, per esempio, in Afghanistan, dove è in corso un’altra complicata missione “umanitaria” della Nato.
Come capita spesso sono le piccole storie che ti fanno capire i grandi scenari. La piccola storia in questione ha come protagonista Ramush Haradinay, ex generale dell’Uck che ha combattutto i serbi nella zona di Pec, una città kosovara al confine con l’Albania e il Montenegro. Ramush Haradinay è stato per un breve periodo primo ministro del nuovo Kosovo ed è presidente di un partito, l’Aak. L’episodio che vi voglio raccontare avviene a Decani, a pochi chilometri da Pec, davanti alla casa della famiglia Musaj. Tra i Musaj e gli Haradinaj è in corso una faida, iniziata pochi giorni dopo la fine della guerra, quando gli Haradinaj uccidono e gettano in un pozzo quattro soldati dell’esercito di liberazione del Kosovo, la milizia armata fondata da Ibrahim Rugova, acerrimo nemico dell’Uck. I soldati dell’esercito di liberazione vengono uccisi perché si rifiutano di passare sotto il comando dell’Uck. Tra di loro anche un figlio di Musaj. Pochi mesi dopo l’efferato omicidio dei quattro uomini, Ramush Haradinay, ilf uturo primo ministro del Kosovo e il fratello Daut si presentano armati davanti alla villa dei Musaj. Ne nasce una sparatoria. Raffiche di kalashnikov da una parte e dall’altra e lancio di bombe a mano. Ramush viene ferito seriamente alla gamba.
Antonio Evangelista, oggi capo della squadra mobile di Asti, a quel tempo guidava l’unità investigativa che, per conto delle Nazioni Unite, doveva indagare su terrorismo e criminalità organizzata. Incuriosito dalla storia mette le mani sulle carte e parla con i poliziotti internazionali che hanno fatto le prime indagini. E scopre un fatto incredibile: Ramush Haradinaj, ferito, viene ricoverato per parecchi mesi nella base americana di Ramstein in Germania. Gli americani rifutano di consegnare le prove agli investigatori delle Nazioni Unite e il fattaccio viene di fatto insabbiato. «Negli ambienti della polizia internazionale tutti sapevano della storia – mir acconta Evangelista quando lo incontro ad Asti –. La verità è che l’inchiesta non si è fatta perché si aveva paura delle reazioni dei sostenitori di Haradinay nella provincia di Pec, si temeva che ci fossero disordini».
Ecco la chiave che ci consente di capire tante cose: al netto delle fanfare, dei proclami e dei muscoli esibiti, le forze di occupazione della Nato preferiscono mettersi d’accordo con i capi militari e politici locali, quale che sia la loro reputazione.
E’ la stessa cosa che è successa in Afghanistan, quando gli americani e la Nato hanno “subappaltato” il mantenimento della sicurezza ai signori della guerra locali, dando loro soldi, armi e impunità. Sono gli stessi signori della guerra responsabili di trent’anni di guerra civile e di milioni di morti. Molti di loro prima appoggiavano i talebani e oggi continuano ad esercitare un potere illegale su larga parte dell’Afghanistan.
Altro che esportazione di democrazia e diritti. Oggi tutte le analisi dei centri di studi strategici più importanti, tutti i rapporti delle Nazioni Unite e dei servizi di sicurezza occidentale, tutti i giornalisti più esperti di Balcani disegnano un Kosovo che fa paura: crocevia del traffico internazionle di droga, dal Kosovo passa infatti l’80 per cento dell’eroina afgana che poi viene commercializzata nel resto del mondo, il Kosovo è per questi analisti una specie di “Colombia”, un vero e proprio narcostato nel cuore dell’Europa. E il mare di soldi prodotti dalla droga rischia di corrompere e inquinare tutto: dalle amministrazioni dello Stato alle nuove forze di polizia, alla classe politica.

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