giovedì 12 marzo 2009

Si stringe il cappio del debito attorno agli USA

di Domenico Moro
Il primo atto importante di Hillary Clinton, come nuovo ministro degli esteri Usa, è stato quello di andare in Cina. L’obiettivo dell’incontro, tenutosi una decina di giorni fa, tra la Clinton e il ministro degli esteri cinese era preciso: assicurarsi che la Cina continuasse ad acquistare i Treasury bond americani. La Cina, infatti, investe in titoli del debito pubblico Usa un terzo del totale delle sue riserve in valuta pregiata, per circa 700 miliardi di dollari. E’ nella sua qualità di principale finanziatore mondiale del debito Usa, che la Cina ha potuto replicare piccata alle consuete critiche del Rapporto sui diritti umani del Dipartimento di Stato Usa, osservando che “gli Usa hanno i loro problemi, si concentrino su quelli”.

Un rapporto intempestivo, che ha messo in imbarazzo una Clinton in questa occasione molto meno interessata ai guai del Dalai Lama. Del resto, il finanziamento del debito pubblico è vitale per gli Usa nel momento attuale. Infatti, a fronte di una recessione sempre più dura, l’amministrazione Obama punta tutto su di un intervento statale massiccio che, aumentando l’entità della spesa pubblica, accresce la necessità di ricorrere ai prestiti internazionali mediante l’emissione di titoli di Stato.

Di recente, il Tesoro Usa ha aumentato le aste dei T-bill, che, solo nella settimana centrale di febbraio, hanno raggiunto la cifra di 187 miliardi di dollari. Il ricorso all’emissione di titoli del debito pubblico è così alto che lo stesso Wall Street Journal se è preoccupato, avvertendo che in questo modo ci si espone al rialzo dei rendimenti per i possibili aumenti dei tassi d’interesse, che oggi sono tenuti a livelli eccezionalmente bassi allo scopo di stimolare la ripresa economica. Ma si tratta di preoccupazioni per il futuro che svaniscono dinanzi alla pressante drammaticità del presente, che è peggiore persino delle più fosche previsioni.

Nell’ultimo trimestre del 2008 l’economia Usa si è contratta del 6,8%, molto più del 3,8% stimato inizialmente e del 5,4 previsto dal mercato. Una revisione di tale entità non si era mai vista dal 1976. Del resto, il sistema finanziario non ha tratto giovamento dai molti miliardi già profusi nella fornace provocata dallo scoppio della bolla dei derivati.

La più grande banca del mondo, Citigroup, nonostante gli aiuti già erogati, è crollata di nuovo ed il governo è dovuto intervenire nuovamente entrando nel controllo del 40% del capitale. La quota pubblica è ora otto volte superiore a quella del principale azionista privato e la banca è da considerarsi nazionalizzata.

Sorte simile attende la seconda banca Usa, Bank of America, appesantita dal salvataggio, imposto e finanziato dallo Stato, di un’altra banca, la Merrill Lynch. Anche Aig, la più grande società assicurativa Usa, che aveva già beneficiato di 125 miliardi con Bush, è ora di nuovo al collasso e bisognosa di aiuto, e Fannie Mae, società assicuratrice dei mutui che era stata statalizzata dopo lo scoppio della crisi dei subprime, perde altri 25,2 miliardi e chiede al Tesoro nuovi stanziamenti per 15,2 miliardi. Per ogni pezza che si mette su una crepa dell’edificio economico-finanziario degli Usa se ne riaprono altre due. Sarebbe difficile pretendere il contrario, vista la situazione in cui il mercato finanziario si è infilato: la massa dei “derivati” il cui valore è ridotto a quello della carta straccia, i cosiddetti “titoli tossici”, sembra aumentare sempre di più, superando quella iniziale dei subprime.

Il governo Usa, nel tentativo di risolvere l’incertezza che domina sul mercato, si offre come garante degli acquisti di titoli da parte degli investitori privati. In questo modo gli investitori possono pagare un prezzo per i titoli vicino al valore di bilancio, evitando alle banche grosse perdite. La realtà, come ha fatto notare il Sole24ore, è che, se il governo Usa fosse tenuto alle stesse regole contabili delle imprese private, il costo che dovrebbe riportare per operazioni di questo tipo sarebbe molto più alto. Ad esempio, il costo dell’aiuto a Citigroup, prima della statalizzazione, sarebbe stato di 71 miliardi e non dei 5 contabilizzati dal piano Tarp.

Il livello delle perdite che il governo Usa rischia di accumulare, assumendo la veste di assicuratore di ultima istanza, è enorme, e può minare la fiducia nella sua solvibilità, ponendo così le basi per una crisi valutaria. Intanto, la conseguenza dei maxi-interventi statali è che il debito ed il deficit pubblico Usa, già portati ai massimi livelli con la presidenza Bush, tendono ora ad esplodere.

Obama si rende conto della gravità della questione e ha promesso di ridurre il deficit dal 12,3% stimato per l’anno in corso al 3% in quattro anni, dimezzandolo. Non si capisce però come possa pretendere di raggiungere questo obiettivo. Fra l’altro, le previsioni del bilancio 2009 appaiono viziate da “trucchi di bilancio”. Se l’amministrazione non avesse escluso certe spese dal computo, il disavanzo reale supererebbe i 2mila miliardi di dollari, toccando il 14% del Pil. Ma c’è soprattutto da notare la “miracolosa” assenza contabile dal bilancio di altri 8mila miliardi già stanziati o erogati tra garanzie, prestiti del Tesoro, della Federal Reserve e della Fdic (l’organismo federale che assicura i conti delle banche).

Certi dati, inoltre, lasciano interdetti: il debito pubblico Usa, secondo la bozza del budget dell’amministrazione Obama, nel 2009 sarebbe pari al 58,7% del Pil, ma il debito pubblico è ufficialmente di 10,85 trilioni di dollari, che in effetti equivale al 78% del Pil (14 trilioni). Senza contare che le ottimistiche previsioni di Obama per il bilancio dei prossimi anni presuppongono un calo dell’economia inferiore a quello stimato dal Parlamento ed addirittura una crescita nel 2010 del 3,2%. Stime quantomeno dubbie.

Inoltre, la riduzione del deficit dovrebbe avvenire anche a seguito del tanto atteso taglio alle spese militari, enormemente lievitate sotto Bush II, che in effetti non ci sarà. Nel 2010 il budget del Pentagono aumenterà del 4% (+20,4 miliardi) e per le guerre in Iraq ed Afghanistan sono previsti altri 75,5 miliardi quest’anno e 130 l’anno prossimo, malgrado sia previsto il ritiro di una parte del contingente statunitense dall’Iraq.

Ad ogni modo, la Borsa statunitense non ha posto molta fiducia nelle previsioni di bilancio di Obama ed è andata giù ancora una volta. Appare così evidente che il meccanismo di indebitamento con l’estero su cui gli Usa da tempo si fondano non accenna a risolversi con Obama, ma anzi tende ad accentuarsi a causa della crisi. L’assicurazione della Cina a mantenere inalterata la composizione del suo paniere delle valute di riserva può tranquillizzare momentaneamente gli Usa. Di certo, però, non risolve la questione di una economia mondiale fortemente squilibrata e condizionata dalla presenza di una economia gigantesca, quella Usa, che vive a credito e che ha già fortemente contribuito a portarci alla crisi attuale.

Nessun commento:

Posta un commento