Le grandi trasformazioni tecnologiche e organizzative degli ultimi decenni hanno modificato in maniera sostanziale il processo di valorizzazione del capitale o il conflitto capitale-lavoro muta di forma per mantenere intatta la propria essenza e centralità?
La crisi mette in discussione il modo di produzione o ne sollecita una modernizzazione in senso cognitivo, “etico” e persino “mutualistico”?
Che atteggiamento assumere di fronte alle idee di storia e di progresso dopo la decostruzione postmodernista, egemone soprattutto a sinistra, delle "grandi narrazioni" della modernità?
In the senso ci diciamo ancora eredi del pensiero dialettico?
Che ne è dell'universalismo illuminista in un panorama globale policentrico a multiculturale?
Cosa intendono alcuni intellettuali quando parlano di una "trasformazione antropologica" che renderebbe obsolete le classi sociali?
Si puo ancora parlare di sviluppo delle forze produttive o bisogna ragionare sul concetto di "decrescita"?
Che dire delle possibilità inusitate che la scienza a la tecnologia contemporanee, applicate alla produzione della vita, mettono a disposizione del genere umano?
Esiste ancora la democrazia moderna? E che rapporto c’è tra questa, il liberalismo, la tradizione rivoluzionaria?
Di fronte a problemi che sfidano l'intelligenza di ciascuno di noi, emerge l'inconsapevole miseria che spesso assume il dibattito delle idee a sinistra.
La crisi in atto mette a nudo non solo le contraddizioni strutturali immanenti al capitalismo ma soprattutto lo iato tra la presenza delle condizioni oggettive di un conflitto di massa a della costruzione di un nuovo "blocco storico" e la drammatica arretratezza delle condizioni soggettive, di quelle politico-organizzative e persino delle forme di coscienza. Da un lato precarietà, disoccupazione, bisogni primari insoddisfatti tra le classi subalterne, impauperimento degli stessi ceti medi e intellettuali, crescita del proletariato nero a islamico nelle metropoli, primi cedimenti del primato economico statunitense, crescita e sganciamento di alcune ex-colonie ... ; dall'altro la nostra esasperante debolezza, la retorica populista, la reiterazione immaginaria di battaglie già combattute e già perdute, l'incapacità di legare tutte queste cose con il filo del ragionamento e della linea politica. Se dalla crisi si uscirà a destra, e cioe con una guerra tra poveri - tra bianchi e neri - dalle conseguenze inimmaginabili, sarà anche per le nostre insufficienze.
Una terribile fase politico-sociale impone oggi l'unità dei comunisti come condizione minima per accumulare forze e resistere e non si capisce con quali argomenti razionali si possa respingere una prospettiva così elementare. E' superfluo contestare le tesi di chi a questo percorso si oppone (spinto più the altro dal timore di perdere rendite di posizione consolidate). Molto meglio percio spostare il confronto su un terreno piu importante e cioè su quello del profilo politico-culturale della forza comunista che è necessario sin d'ora costruire.
Ovviamente, la semplice unità dei comunisti non basta. E' necessario anche comprendere che la fase è fortemente mutata rispetto al ciclo fordista-keynesiano e alla Guerra Fredda. Ogni ipotesi redistributiva è irrealistica, ad esempio, se prima non si conquista una forza relativa dalla quale siamo molto lontani. Ma se tale forza si recupera oggi presidiando in maniera organizzata e coerente i conflitti, importa molto il profilo politico autonomo dell'unità comunista a la sua alterità rispetto a improbabili a minimizzanti ipotesi di gestione moderata della crisi (il "patto dei produttori"). Cosi come importa, d'altro canto, l’alterità dei comunisti rispetto a fantasiose nuove sinistre, che pretendono di aver capito tutto delle trasformazioni in corso e di aver superato misticamente il Novecento, il conflitto capitale-lavoro, la geopolitica e, in sostanza, la politica stessa ma che si rivelano subalterne e solidali rispetto all’offensiva delle classi dominanti.
Lo stesso discorso è possibile fare rispetto ad altre grandi questioni del nostro tempo, come il rapporto tra socialismo e mercato, socialismo e religione, socialismo e questione nazionale, socialismo e diritti umani: da qualunque parte prendiamo il problema, esso ci dice una cosa sola e cioe la necessità di ricostruire l'autonomia intellettuale e politica dei comunisti, di sfuggire alla condizione di subalternità ideologica che abbiamo ereditato dalla nostra sconfitta a che ci porta a ragionare con le idee e le parole dell'avversario. Questo profilo autonomo, però, si acquisisce soltanto a partire da un’elaborazione culturale a teorica di lungo periodo che sappia innervare la linea politica dandole un respiro strategico, sottraendola al piccolo cabotaggio delle scadenze elettorali o delle lotte interne. Una cosa che sinora non c’è mai stata.
Questo è oggi il problema più rilevante, un problema che anche le attuali forze comuniste presenti sulla scena politica hanno sempre aggirato e dal quale sono state alla lunga travolte: il partito comunista costruisce la propria organizzazione e le proprie proposte politiche a partire da una riflessione profonda sulla realtà e da un progetto teorico-culturale nel quale deve investire in maniera strategica (e che deve dotare dei necessari strumenti). Un progetto che sia aperto alla necessaria ricerca e sperimentazione. Ma che sia anche solido e rigoroso, non si disperda in eclettismi e inutili sincretismi e mantenga l'aspirazione a quella "scientificità" che è il lascito più importante del materialismo storico. Muovendo da questa esigenza che più volte Marx, Gramsci e Lenin hanno richiamato, è possibile far incontrare sin d'ora quelle forze che nel Prc e nel Pdci, ma anche fuori, si riconoscono in un patrimonio comune di idee e fame un elemento catalizzatore di questa nuova sfida politica, il partito comunista del XXI secolo. Ed è possibile riportare il marxismo nel vivo di quel dibattito culturale dal quale è stato bandito anche per responsabilità nostra, rendendolo nuovamente capace di egemonia.
* Universita di Urbino
La crisi mette in discussione il modo di produzione o ne sollecita una modernizzazione in senso cognitivo, “etico” e persino “mutualistico”?
Che atteggiamento assumere di fronte alle idee di storia e di progresso dopo la decostruzione postmodernista, egemone soprattutto a sinistra, delle "grandi narrazioni" della modernità?
In the senso ci diciamo ancora eredi del pensiero dialettico?
Che ne è dell'universalismo illuminista in un panorama globale policentrico a multiculturale?
Cosa intendono alcuni intellettuali quando parlano di una "trasformazione antropologica" che renderebbe obsolete le classi sociali?
Si puo ancora parlare di sviluppo delle forze produttive o bisogna ragionare sul concetto di "decrescita"?
Che dire delle possibilità inusitate che la scienza a la tecnologia contemporanee, applicate alla produzione della vita, mettono a disposizione del genere umano?
Esiste ancora la democrazia moderna? E che rapporto c’è tra questa, il liberalismo, la tradizione rivoluzionaria?
Di fronte a problemi che sfidano l'intelligenza di ciascuno di noi, emerge l'inconsapevole miseria che spesso assume il dibattito delle idee a sinistra.
La crisi in atto mette a nudo non solo le contraddizioni strutturali immanenti al capitalismo ma soprattutto lo iato tra la presenza delle condizioni oggettive di un conflitto di massa a della costruzione di un nuovo "blocco storico" e la drammatica arretratezza delle condizioni soggettive, di quelle politico-organizzative e persino delle forme di coscienza. Da un lato precarietà, disoccupazione, bisogni primari insoddisfatti tra le classi subalterne, impauperimento degli stessi ceti medi e intellettuali, crescita del proletariato nero a islamico nelle metropoli, primi cedimenti del primato economico statunitense, crescita e sganciamento di alcune ex-colonie ... ; dall'altro la nostra esasperante debolezza, la retorica populista, la reiterazione immaginaria di battaglie già combattute e già perdute, l'incapacità di legare tutte queste cose con il filo del ragionamento e della linea politica. Se dalla crisi si uscirà a destra, e cioe con una guerra tra poveri - tra bianchi e neri - dalle conseguenze inimmaginabili, sarà anche per le nostre insufficienze.
Una terribile fase politico-sociale impone oggi l'unità dei comunisti come condizione minima per accumulare forze e resistere e non si capisce con quali argomenti razionali si possa respingere una prospettiva così elementare. E' superfluo contestare le tesi di chi a questo percorso si oppone (spinto più the altro dal timore di perdere rendite di posizione consolidate). Molto meglio percio spostare il confronto su un terreno piu importante e cioè su quello del profilo politico-culturale della forza comunista che è necessario sin d'ora costruire.
Ovviamente, la semplice unità dei comunisti non basta. E' necessario anche comprendere che la fase è fortemente mutata rispetto al ciclo fordista-keynesiano e alla Guerra Fredda. Ogni ipotesi redistributiva è irrealistica, ad esempio, se prima non si conquista una forza relativa dalla quale siamo molto lontani. Ma se tale forza si recupera oggi presidiando in maniera organizzata e coerente i conflitti, importa molto il profilo politico autonomo dell'unità comunista a la sua alterità rispetto a improbabili a minimizzanti ipotesi di gestione moderata della crisi (il "patto dei produttori"). Cosi come importa, d'altro canto, l’alterità dei comunisti rispetto a fantasiose nuove sinistre, che pretendono di aver capito tutto delle trasformazioni in corso e di aver superato misticamente il Novecento, il conflitto capitale-lavoro, la geopolitica e, in sostanza, la politica stessa ma che si rivelano subalterne e solidali rispetto all’offensiva delle classi dominanti.
Lo stesso discorso è possibile fare rispetto ad altre grandi questioni del nostro tempo, come il rapporto tra socialismo e mercato, socialismo e religione, socialismo e questione nazionale, socialismo e diritti umani: da qualunque parte prendiamo il problema, esso ci dice una cosa sola e cioe la necessità di ricostruire l'autonomia intellettuale e politica dei comunisti, di sfuggire alla condizione di subalternità ideologica che abbiamo ereditato dalla nostra sconfitta a che ci porta a ragionare con le idee e le parole dell'avversario. Questo profilo autonomo, però, si acquisisce soltanto a partire da un’elaborazione culturale a teorica di lungo periodo che sappia innervare la linea politica dandole un respiro strategico, sottraendola al piccolo cabotaggio delle scadenze elettorali o delle lotte interne. Una cosa che sinora non c’è mai stata.
Questo è oggi il problema più rilevante, un problema che anche le attuali forze comuniste presenti sulla scena politica hanno sempre aggirato e dal quale sono state alla lunga travolte: il partito comunista costruisce la propria organizzazione e le proprie proposte politiche a partire da una riflessione profonda sulla realtà e da un progetto teorico-culturale nel quale deve investire in maniera strategica (e che deve dotare dei necessari strumenti). Un progetto che sia aperto alla necessaria ricerca e sperimentazione. Ma che sia anche solido e rigoroso, non si disperda in eclettismi e inutili sincretismi e mantenga l'aspirazione a quella "scientificità" che è il lascito più importante del materialismo storico. Muovendo da questa esigenza che più volte Marx, Gramsci e Lenin hanno richiamato, è possibile far incontrare sin d'ora quelle forze che nel Prc e nel Pdci, ma anche fuori, si riconoscono in un patrimonio comune di idee e fame un elemento catalizzatore di questa nuova sfida politica, il partito comunista del XXI secolo. Ed è possibile riportare il marxismo nel vivo di quel dibattito culturale dal quale è stato bandito anche per responsabilità nostra, rendendolo nuovamente capace di egemonia.
* Universita di Urbino
1 commento:
LISTA COMUNISTA ALLE ELEZIONI EUROPEE.
intervento di Marco RIZZO alle direzione nazionale del Pdci di giovedì 12
Marzo 2009
Di fronte alla crisi strutturale del sistema capitalistico la condizione
della stragrande maggioranza della popolazione tende a peggiorare
ulteriormente.
I governi europei, come in altri paesi del mondo, tendono a riconoscere le
responsabilità dell'accaduto nell'eccesso di politiche finanziarie e
liberiste, ma non intendono correggere sostanzialmente le loro politiche.
Invece servirebbe una svolta, una nuova politica economica che rendesse
partecipi e protagonisti i soggetti di un conflitto sociale tanto più vasto
quanto quasi privo della percezione delle proprie potenzialità di
cambiamento .
I padroni vedono fallire la loro politica di riferimento: il capitalismo.
L'unico reale cambiamento può solo venire dalla lotta e dal protagonismo del
nuovo mondo del lavoro.
La politica deve però fare la propria parte ed i comunisti ed una vera
sinistra non possono tirarsi indietro.
Serve innovazione anche nelle scelte: giusta quella di presentare una lista
comunista ed anticapitalista tra PRC, Pdci, organizzazioni comuniste,
movimenti e soggettività di lotta.
Ancora più rilevante sarà la capacità (peraltro fondamentale per superare il
truffaldino sbarramento al 4%) di far percepire a tutte e tutti che si
vogliono davvero far contare i lavoratori.
Una semplice quanto efficace proposta è quella di scegliere ALMENO una tra
le cosiddette circoscrizioni "sicure" nel caso di superamento del 4% (e cioè
il Nord-Ovest e Centro) e destinarla solo ed esclusivamente a candidate e
candidati operai, precari, disoccupati nonché a figure significative di
movimento (escludendo ex parlamentari e componenti delle segreterie e
direzioni dei partiti).
In questo modo, in caso di superamento della soglia prevista, si avrà la
matematica certezza di eleggere almeno un lavoratore dando così efficacia ai
tanti richiami al far "contare" le classi subalterne.
In tal senso, il sottoscritto sarà non solo disponibile a rinunciare alla
propria candidatura ma si adoprerà affinché questa soluzione diventi una
proposta sentita e propugnata da tutte e tutti i comunisti.
ELEGGERE I LAVORATORI, NON SOLO CANDIDARI.
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