venerdì 10 aprile 2009

Alle radici della "Questione Comunista"

di Alberto Burgio
Domenica scorsa Mario Tronti ha rilasciato a Tonino Bucci un'intervista che sarebbe sbagliato considerare di ordinaria amministrazione. Commentando la grande manifestazione del 4 aprile, Tronti sostiene con forza tre cose di grande rilievo, tra loro strettamente connesse.
Dice che le masse lavoratrici ci sono (il lavoro salariato è ancora una realtà molto significativa nella nostra società); che queste masse sono all'attacco, ma la sinistra non dà loro risposte adeguate in termini di rappresentanza, cultura, organizzazione e direzione politica; che il problema è anche culturale, riguardando il mancato riconoscimento della centralità del lavoro (del conflitto lavoro-capitale) e la deplorevole propensione a «mettere tutto sullo stesso piano»: il lavoro come il genere, il genere come l'ambiente, l'ambiente come la laicità e via assemblando, in un eclettismo che dà l'illusione di parlare a molti, mentre impedisce la costruzione di un discorso coerente, decifrabile ed efficace.Tronti insiste soprattutto su quest'ultimo tema. «Ci vuole un centro», «il lavoro è una discriminante», se non ne fai il fulcro dell'analisi e dell'iniziativa politica «finisci nel paramovimentismo».
I compagni di Rifondazione comunista e i lettori di Liberazione possono comprendere la portata di simili affermazioni. Ricordano le discussioni sorte in questi anni, e ancora alla vigilia del congresso di Chianciano, intorno al ruolo del conflitto capitale-lavoro. Esiste (ancora) una «contraddizione principale»? Affermarlo lascia spazio alla necessaria innovazione teorica o riflette una propensione conservatrice e «identitaria»? Il lavoro salariato è davvero ancora il perno del conflitto per la trasformazione? Possiamo dire - abbiamo detto, approssimandoci al Congresso - che buona parte della contesa tra le diverse anime del partito traeva ispirazione proprio dal diverso modo di rispondere a questi interrogativi, solo in apparenza lontani dalle battaglie politiche quotidiane. Ora le riflessioni di Tronti - e gliene siamo grati - ci riconducono a quei temi con una nettezza che non lascia margini di ambiguità. Anche per questo vale la pena di soffermarsi sulle sue parole, cercando di esplicitarne le principali implicazioni.
Qual è il punto? Diciamo che riguarda la storia. La nostra, di comunisti in questo Paese. E, più in generale, la storia del movimento di classe e le sue vicissitudini nel corso degli ultimi venti-venticinque anni. Oggi viene al pettine - per usare un'espressione classica - la questione comunista. Nel '90-'91 fu commesso un errore di portata storica, come dimostrano gli sviluppi ulteriori, dal trionfo della destra alla diaspora degli eredi del Pci e al loro malinconico ridursi a comprimari subalterni sulla scena politica italiana. Questo errore (che affonda le radici tra la fine degli anni Settanta e il successivo decennio) fu anche conseguenza di una mutazione trasformistica di gran parte del gruppo dirigente comunista, che invece di sottoporre a critica le esperienze del movimento operaio e la propria cultura politica mantenendo ferme le basi analitiche di una critica di classe del capitalismo, accolse i presupposti culturali e gli obiettivi strategici dell'avversario. Il fine non era più la trasformazione del modello di produzione e di sviluppo, ma il consolidamento e l'efficienza del modello esistente. Si sposò il convincimento che consegnare settori sociali al mercato e risorse pubbliche al privato fosse garanzia di progresso. L'idea del superamento del capitalismo fu archiviata e chi si ostinava a considerarla attuale fu considerato un nemico da togliere di mezzo.
Il lavoro dipendente ne sopportò le spese più pesanti in termini di diritti (tutto, senza colpo ferire, divenne aleatorio, a cominciare dal rapporto di lavoro), di salario (l'Italia si ritrovò ben presto in coda alla classifica europea delle retribuzioni) e di tutele (a cominciare dalla sicurezza sul lavoro). Del resto, da parte di chi si oppose a questa regressione non vennero sempre risposte adeguate. Costretta sulla difensiva, la sinistra anticapitalistica (compreso il nostro partito) reagì spesso in modo incerto, non riuscendo a coniugare la necessaria innovazione della critica di classe con l'altrettanto indispensabile coerenza sul terreno dei presupposti culturali. Arretrò, mise mano a una non sempre meditata revisione dei quadri di riferimento, approdò - per riprendere le parole di Dino Greco - alla «credenza secondo cui non va più cercato nel lavoro il baricentro della propria rappresentanza». Finché, da ultimo, derubricando lo statuto politico del comunismo (di questo si tratta, quando lo si riduce a una «tendenza culturale»), si tentò di chiudere la contraddizione tra chi in tutti questi anni ha tentato di cancellare la presenza comunista nel nostro Paese e chi si è battuto contro questo progetto normalizzatore. Per fortuna, il congresso di Chianciano ha fermato questa deriva, che avrebbe portato a compimento la svolta della Bolognina.
Oggi - mentre viene sviluppandosi una crisi di sistema che minaccia conseguenze sociali ancor più gravi di quelle della Grande crisi degli anni Trenta - tutta questa storia è squadernata sotto i nostri occhi e rende improcrastinabile quella chiarificazione culturale che, come sempre nelle fasi di crisi, rappresenta un passaggio determinante per la costituzione stessa dei soggetti coinvolti nella ricostruzione della sinistra italiana. Dopo questi vent'anni una cosa non si può più fare, e Tronti sembra dirlo con la dovuta nettezza: non si può più continuare a fingere che esista una terra di mezzo tra la cultura compatibilista, subalterna all'ideologia capitalista (la cultura, per intenderci, della ex sinistra moderata, trasformatasi in forza neocentrista e confluita, da ultimo, nel Pd), e la cultura critica di chi mantiene fermo l'obiettivo del superamento del modo di produzione capitalistico e per questa ragione, squisitamente politica (non soltanto per le sacrosante rivendicazioni di carattere sindacale), considera cruciale il conflitto di lavoro e di classe.
Gramsci - il dirigente politico più lontano da qualsiasi tentazione settaria - parlava in proposito di «spirito di scissione». A noi, in questo momento, occorre precisamente una forte dose di spirito di scissione, e ci occorre - per paradossale che possa apparire - sia per fare davvero l'unità delle forze che si battono per cambiare l'esistente, sia per costruire quel partito strutturato e radicato nei luoghi di lavoro che - come ci ha ricordato ancora in questi giorni Pietro Ingrao - resta strumento indispensabile di lotta politica e di crescita culturale. In questo lungo inverno i comunisti hanno dovuto combattere una dura lotta di resistenza, e hanno dovuto contrastare la tentazione di rinunciare alle proprie idee nel nome di una malintesa innovazione. I fatti si sono incaricati di rimettere le cose al loro posto e di fare chiarezza. Ora è il momento di riprendere il cammino, forti della consapevolezza delle nostre ragioni.

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