mercoledì 15 aprile 2009

Dibattito Comunisti: il punto della situazione in due articoli

Comunisti Uniti Lazio: "Uscire dalla fase testimoniale e rilanciare l’iniziativa politica di classe"
Partito Comunista dei Lavoratori: "Lettera aperta alle sinistre, per una svolta di unità e radicalità nel movimento reale delle lotte"

Costituente comunista e sindacato di classe.
Uscire dalla fase testimoniale e rilanciare l’iniziativa politica di classe.
dalla rivista Gramsci Oggi
di Andrea Fioretti, Comunisti Uniti Lazio
Nell’ultimo anno e mezzo, complici gli avvenimenti politici dalla crisi fino alla caduta del governo Prodi, si è tornati a parlare diffusamente di “costituente comunista” e di “sindacato di classe”. Dentro e fuori i due partiti comunisti ex-parlamentari (PRC e PdCI) questi nodi vengono posti nuovamente al centro per recuperare il consenso della classe operaia e di quegli ampi settori salariati che, in termini meramente elettorali, non sembrano più essere “base di riferimento” certa delle idee e dell’azione dei comunisti. Qualcuno lo fa in termini strumentali per riconquistare consenso meramente elettorale e posizioni di rendita, altri per motivi strategici e per riaprire una prospettiva anticapitalista e socialista nella lotta di classe. Ma le due questioni (politica e sindacale) sono indubbiamente nell’agenda del dibattito politico attuale. E queste sono anche le ragioni principali con cui si affaccia il progetto di “Comunisti Uniti” in questa fase. Da questa considerazione occorre ripartire.
Per farlo, come recitava un articolo di questa rivista (“Gramsci Oggi – agosto 2008”, nda) della scorsa estate, bisogna ormai rompere gli indugi e trasformare l’appello “comuniste e comunisti: cominciamo da noi” in un grande movimento nazionale verso la “costituente comunista”, in piena autonomia (...).
Seminare il terreno per una fase costituente significa proprio avere il coraggio e la voglia di sintonizzarsi sulla stessa lunghezza d’onda – se non su tutto – quantomeno su alcuni precisi punti fermi teorici e pratici condivisi. Ognuno dalla postazione del proprio ambito d’appartenenza, spingendo nella stessa direzione della riunificazione nelle lotte e in strutture unitarie territoriali che raccolgano e moltiplichino le forze di tutti i comunisti oggi dispersi. Nel PRC e nel PdCI in primis, ma anche in altre organizzazioni e coordinamenti comunisti da tempo extraparlamentari per scelta, nelle migliaia di individualità politiche che non si riconoscono più nelle componenti comuniste organizzate esistenti.
Anche oggi, quando tutto il dibattito sembra orientato solo alla ricomposizione elettorale dei comunisti (passaggio importante, ma non decisivo per gli obiettivi di cui sopra), un’opinione largamente condivisa è che non sono affatto esaurite le ragioni di fondo di quell’appello, perché queste non erano limitate né subordinabili a necessità contingenti come il congresso di un partito o la volontà di dare un semplice segnale di vita “identitario” di fronte al recente tracollo alle elezioni di aprile 2008. Le ragioni sono più profonde e strategiche.
Oggi più che mai appare necessario riprendere e rilanciare un percorso di riconnessione delle idealità e della progettualità dei comunisti nel nostro paese con il sentimento diffuso della classe lavoratrice e della massa degli sfruttati. Ancor più di fronte al dispiegarsi degli effetti devastanti di questa crisi strutturale del capitalismo e alla rinnovata arroganza di una Confindustria - sostenuta dall’azione del governo Berlusconi - tesa a schiacciare sempre di più il costo del lavoro nel tentivo di arrestare la progressiva caduta dei margini di profitto delle imprese. Senza considerare la necessità per il capitalismo nostrano di aumentare la propria competitività internazionale ed il suo ruolo militare. Per governare questa fase si sta affermando un’egemonia reazionaria politica e culturale all’interno di un sistema bipartitico/bipolare del governo del capitalismo di fronte al quale le masse salariate non hanno nessuna alternativa reale di sistema.
I fatti degli ultimi mesi lo stanno a dimostrare. I progetti di “unità delle sinistre” sono subalterni ed esterni ai movimenti di lotta, il PD (sempre più semplice “altra faccia della medaglia” della governabilità) è impantanato tra divisioni interne e coinvolgimento negli scandali del malaffare nella gestione del potere. Gli unici sussulti nel paese del consenso del blocco sociale di riferimento di Berlusconi sono stati provocati dagli scioperi, dalle lotte e dalle manifestazioni di questo periodo, da quelle importanti del sindacalismo di base, a quelle degli studenti fino a quella di metalmeccanici e lavoratori pubblici convocata da FIOM e FP nel febbraio scorso.
Di fronte a questo panorama c’è lo spazio, oggi, per riconquistare un’unità e un’autonomia del movimento comunista in maniera totalmente alternativa al PD e al di fuori di progetti liquidazionisti e “arcobalenisti” già dimostratisi fallimentari. Su questo non sembrano credibili (e rischiano di aumentare la frammentazione) le soluzioni dettate da escamotage politicisti, alleanze meramente elettorali o “fusioni a freddo” promosse da una parte di quei gruppi dirigenti dei due partiti comunisti ex-parlamentari che pochi mesi fa avevano sostenuto la scelta della Sinistra Arcobaleno.
Così come sono fallimentari o velleitari i tentativi di questa o quella aggregazione politica (o degli intergruppi) di presentarsi come “nuovo” e autosufficiente polo attrattivo per le forze della diaspora comunista.
Certo la convinzione diffusa in larga parte della stragrande maggioranza di questa diaspora (spesso individuale e non organizzaata) è che non ci sarà un fronte largo di opposizione alle politiche capitalistiche – e quindi non ci sarà un progetto di reale alternativa al capitalismo ed ai suoi governi – senza un Partito comunista credibile, radicato nel conflitto ed all’altezza dei tempi e dei compiti.
Per non ripetere gli errori del passato bisogna approfittare della difficoltosa ma inevitabile ripresa dell’opposizione e della lotta contro le politiche reazionarie di Berlusconi e di Confindustria per costruire una piattaforma anticapitalista che sappia rappresentare stabilmente, in questa fase presumibilmente non breve, gli interessi delle classi sfruttate riconnettendo il ruolo di “utilità” dei comunisti alla difesa di quegli stessi interessi. Per questo non è sufficiente una semplice unità elettorale o solo un’unità dei partiti comunisti attualmente esistenti. Bisogna ridare protagonismo diretto ai lavoratori e ai movimenti di lotta e i comunisti devono essere in prima fila nel perseguimento di questo obiettivo.
Non basta candidare due o tre esponenti sindacali o di un movimento in una lista per rifarsi una credibilità e dare l’idea che vi sia un “cambiamento” col recente passato. Anche l’apertura elettorale ai movimenti anticapitalisti e alle espressioni delle lotte deve essere netta e i dirigenti di partito, attualmente senza lavoro, dovrebbero fare un passo indietro e lasciare parzialmente il campo alla rappresentanza diretta dei comunisti in questi movimenti e non dare l’idea di voler utilizzare questa fase solo per ricollocarsi nel cuore delle istituzioni. Ovviamente, i dirigenti favorevoli all’unità dei comunisti hanno e continueranno ad avere un ruolo se a questo obiettivo politico dedicheranno concretamente energie. Ma non sarà certo la loro elezione al Parlamento Europeo a garantirla o a cancellarla.
Ricandidando le espressioni dirette delle lotte forse si potrà dare un piccolo segnale di reale inversione di rotta, ma la fiducia delle masse non si riconquista oggi solo per via elettorale.
Molteplici saranno le occasioni per ricostruire sul campo la credibilità persa dai comunisti nel nostro paese nei confronti del sentimento popolare diffuso. Dalle mobilitazioni contro i licenziamenti, per la difesa ed il rilancio del contratto nazionale e dei salari. Fino a quelle contro la precarietà ed il carovita, in difesa dei diritti dei lavoratori immigrati e contro le politiche razziste e securitarie del governo Berlusconi, a fianco dei movimenti in lotta per la difesa dell’ambiente e per il diritto alla casa. Per arrivare alla difesa dei residui diritti democratici e di sciopero oggi attaccati e al sostegno del diritto allo studio. Fino alle manifestazioni contro le basi militari e al fianco dei popoli che resistono, contro le missioni italiane all’estero e le guerre imperialiste sia se sostenute dagli USA che dalla UE.
La riunificazione dei comunisti, e la riconquista della loro internità nella classe, o è collegata alla ripresa del conflitto sociale o non è. O si basa su un programma minimo di classe, su un’indipendenza ideologico-culturale e su una soggettività comunista che riconnetta, anche a livello di sentimento di massa, le idee e le prospettive del socialismo e del comunismo nel XXI Secolo, oppure verrà spazzata via dalla ripetizione autistica degli errori di un passato in cui è stato fin troppo palese il ruolo subalterno dei comunisti (appoggio ai governi filo-padronali e “neo-liberisti”; governismo a tutti i livelli ed a tutti i costi; liquidazione del patrimonio storico del movimento comunista; creazione della Sinistra Arcobaleno e di progetti subalterni al PD; appoggio alle guerre uanitarie e di polizia internazionale; ecc…).
Dentro questo panorama, è chiaro perché non si può intendere oggi la costituente dei comunisti come un semplice movimento “alternativo” alla presenza in questa o quella componente comunista organizzata – sia all’interno di PRC e PdCI che al di fuori – o che alluda a un processo “palingenetico” e allo scioglimento hic et nunc di queste. E allora come procedere nell’immediato?
Sul terreno dei “Comunisti Uniti” occorre riattivare tutti i promotori e firmatari dell’appello che condividono questa idea e costruire strutture territoriali “aperte” (le famose “case comuni”) che rafforzino, e non indeboliscano, il lavoro di ciascuno. Queste “case comuni”, in questa fase, vanno intese come veri laboratori di unità aperti ai compagni del PdCI e del PRC e a tutte i comunisti ovunque collocati in Italia.
Su quest’ultimo elemento è fondamentale la costituzione di un coordinamento nazionale dei gruppi di Comunisti Uniti di ogni Provincia e Regione. Perchè i territori ed i posti di lavoro sono i luoghi dove i “comunisti in carne ed ossa” sono costretti a praticare l’unità su piattaforme condivise al di fuori di richiami meramente demagogici.
Ma se l’obiettivo della riconquista dell’unità e dell’autonomia dei comunisti, come dicevamo, dipende dal loro protagonismo nel conflitto di classe più che nelle istituzioni, il suo percorso è collegato parallelamente anche alla necessità storica dell’unità e dell’autonomia di classe dei lavoratori salariati.
Va registrato, infatti, che il dibattito sul sindacalismo di classe, ancora disorganico e confuso, sta portando diverse componenti a riporre con forza la questione dell’unità, ma anche della necessità di un percorso più generale teso alla riconquista di un’autonomia di classe nel conflitto col capitalismo. Su questo altro terreno d’intervento, dopo anni di abbandono, le formulazioni che emergono risultano forse ancora piuttosto velleitarie o schematiche, ma sarà forse utile sfruttare l’occasione per tentare di rimettere al centro di questo dibattito alcune questioni di fondo che contribuiscano a una corretta impostazione del complesso problema della relazione tra l’azione dei comunisti e la questione sindacale oggi.
D’altronde, al di là degli innamoramenti “nuovisti” e post-moderni, che hanno pervaso in particolare il PRC degli ultimi anni, i sindacati sembrano continuare ad essere tra i principali (anche se non esclusivi) “organi specifici di raccoglimento delle masse lavoratrici”, per usare la terminologia del Gramsci delle Tesi di Lione.
Già a quei tempi, l’azione nei sindacati era considerata come essenziale per il raggiungimento dei fini del Partito.
Per sgomberare il campo da confusioni e strumentalizzazioni, il tentativo dei comunisti di conquistarsi un’egemonia e una direzione nel lavoro sindacale non era visto allora né come mero tentativo di conquistare le “segreterie” né tantomeno come un serbatoio dove fare unicamente “proselitismo”. Per la direzione gramsciana del PCdI “l’azione nei sindacati assume una particolare importanza perché consente di lavorare con intensità più grave e con risultati migliori a quella riorganizzazione del proletariato industriale e agricolo che deve ridargli una posizione di predominio nei confronti con le altre classi sociali. Il compito di unificare le forze del proletariato e di tutta la classe lavoratrice sopra un terreno di lotta”.
Per i comunisti l’unità della classe lavoratrice, anche attraverso l’azione dei sindacati, è sempre stato quindi un obiettivo concreto e prioritario per contrastare l’azione disgregante delle ristrutturazioni capitalistiche dovute a due fattori distinti e collegati: le necessità di “razionalizzazione” intime all’estensione del mercato capitalistico e il tentativo di indebolimento e atomizzazione della classe per colpire le sue potenzialità di resistenza e, in prospettiva, rivoluzionarie.
Quindi, dovrebbe essere patrimonio comune il fatto che i comunisti (per dirla sempre con Gramsci) “per raggiungere questo scopo soprattutto devono rendersi capaci di avvicinare gli operai di altri partiti e senza partito superando ostilità e incomprensioni fuori luogo, e presentandosi in ogni caso come i fautori dell’unità della classe nella lotta per la sua difesa e per la sua liberazione”.
In questa formulazione gramsciana (e in cui è evidente l’influenza leninista), i comunisti non avevano una “ricetta” valida per sempre, ma adattavano questi principi generali alle condizioni date ed ai rapporti di forza.
Ad esempio, è interessante osservare il metodo con cui i comunisti affrontavano la frammentazione sindacale, un problema che anche allora affliggeva il movimento operaio italiano seppure in maniera quantitativamente e qualitativamente differente dall’oggi (CGL, USI, Sindacato dei Ferrovieri, ecc...). L’indicazione di Partito era quella di essere presenti in ogni sindacato che permettesse di organizzare la lotta facendosi, all’interno, portatori principali dell’unità sindacale nell’azione e, qualora possibile, anche nell’organizzazione. Non veniva proposto quindi di uscire da un sindacato e sceglierne uno più “combattivo”, ma di organizzare i comunisti presenti in tutti i sindacati secondo principi condivisi (vedi le “Tesi Sindacali” collegate alle “Tesi di Lione”, 1926).
D’altronde, per loro stessa natura, le organizzazioni sindacali non erano mai state considerate lo strumento rivoluzionario del proletariato, in quanto sono sempre state espressione di mediazione e moderazione all’interno della classe operaia, sia rispetto ai contenuti che agli obiettivi e alle forme di lotta. Oggetto della lotta sindacale non è il potere politico, ma più “modestamente” la contrattazione della vendita della forza-lavoro sul mercato, ossia il miglioramento parziale delle condizioni dei lavoratori. Non è cosa da poco, d’altronde, perchè nelle fasi di duro attacco padronale e reazionario alla classe lavoratrice questo è un formidabile strumento di difesa e di accumulo delle forze nella classe.
Tranne che in alcune particolari contingenze pre-rivoluzionarie, in cui gli scioperi da un carattere meramente economico assumono quello direttamente politico, il quadro e l’orizzonte entro il quale il sindacato si muove è sempre quello dato e, all’interno di questo, opera per il miglioramento o per l’“umanizzazione” della società capitalista. Anzi, di questa ne è uno strumento, potremmo dire, tendenzialmente “istituzionale”.
La burocrazia che si forma attorno e nei sindacati tende a muoversi come un vero “partito” e a contrastare qualsiasi spinta porti al protagonismo diretto dei lavoratori e alla conquista da parte di questi di un’autonomia di classe conflittuale e confliggente col complesso del sistema economico-sociale vigente. Infatti, mentre il ruolo delle burocrazie sindacali è quasi sempre quello di garantire questo quadro di compatibilità delle lotte del movimento operaio, un altro degli obiettivi principali del movimento comunista è che questo controllo e contenimento delle spinte autonome della classe “sfugga di mano” fino a favorire, in alcune fasi, la costruzione di istituti proletari direttamente nelle mani dei lavoratori in lotta e embrioni di una futura “democrazia operaia” (ad es., i vecchi Consigli).
Non a caso è il sistema capitalistico stesso ad assicurare alle organizzazioni sindacali confederali un ruolo “preminente” garantito con una normativa di diritto comune che riconosce rilevanza generale agli accordi che essi stipulano ben al di là della loro reale rappresentatività nella classe. Non solo. In determinate condizioni, e quando la collaborazione con le istituzioni della borghesia è giunta ad un certo livello, paradossalmente, sempre più il “radicamento” del sindacato è visto come un ostacolo che rischia di far rientrare (in forme a volte imprevedibili) il protagonismo dei lavoratori dalla “finestra”, laddove era stato messo fuori dalla “porta”, con leggi ad hoc sulla rappresentanza, sul diritto di assemblea, sulla titolarità della contrattazione, trasformando sempre più le OOSS confederali in Sindacati di Stato e di Servizi e non di organizzazione del conflitto. Non a caso, nascono e si diffondono rappresentanze di base e conflittuali che incarnano parte delle spinte ineliminabili della classe lavoratrice alla conquista di una propria autonomia dalle compatibilità imposte dal mercato capitalistico nella lotta per la contrattazione di migliori condizioni di lavoro e nella difesa di quelle conquiste strappate nei decenni precedenti al padronato.
Ormai è evidente che l’intero pianeta è stato investito dagli effetti micidiali della crisi strutturale del capitalismo e la democrazia dell’imperialismo in crisi si sta palesando come un ritorno della reazione in tutti i campi della vita sociale, politica e culturale. Ma la risposta del capitalismo italiano alla crisi del ciclo di accumulazione è iniziata già negli anni ‘70. E nel decennio successivo, con l’arretramento di un imponente movimento operaio e proletario che si era espresso in maniera autonoma negli anni precedenti, i capitalisti dispiegano con forza la ristrutturazione di cui oggi conosciamo gli effetti più ecalatanti.
Ogni conquista per il proletariato è stata il frutto sudato di anni di battaglie sul campo per contendere, millimetro dopo millimetro, il terreno al padronato. Non c’è mai stata una sola conquista ottenuta realmente “per legge”.
La regolamentazione del lavoro, norme e leggi “avanzate”, conquiste salariali e di diritti, persino lo Statuto dei lavoratori, sono stati ottenuti prima de facto e solo dopo de jure. A dimostrazione che anche le semplici Riforme a favore dei lavoratori sono ottenibili, in regime di “democrazia” borghese, solo con l’impulso di un forte movimento di classe e non per la “spontanea” azione parlamentare delle organizzazioni social-democratiche. Da quando la classe operaia è arretrata il capitalismo ha cancellato tutte le conquiste e si è ripreso quanto era stato costretto a dare con gli interessi con una sequenza impressionante: Pacchetto Treu, Legge 30, Protocollo sul Welfare, attacco al CCNL e al diritto di sciopero, ecc... Ha spezzato l’unità produttiva e flessibilizzato tutto il processo lavorativo secondo le sue necessità di competizione internazionale. Ha cancellato le “regole” del mercato del lavoro, ha svenduto e privatizzato ogni patrimonio pubblico, ha smantellato qualsiasi sistema di protezione sociale, ha piegato ogni risorsa umana ed economica alla concorrenza ed alla guerra necessarie al modo di produzione capitalistico per sopravvivere in regime di crisi e rilanciare il suo processo di accumulazione.
In questo non c’è nessuna “rottura” con la sua fase imperialista, poiché da sempre “la borghesia non può esistere senza rivoluzionare di continuo gli strumenti di produzione, quindi i rapporti di produzione, quindi tutto l’insieme dei rapporti sociali” (K. Marx-F.Engels, Manifesto del Partito Comunista). In risposta alle lotte operaie, per le necessità imposte dalla competizione globale tra interessi capitalistici in concorrenza tra loro o come conseguenza degli andamenti e dei cicli del mercato. Il sistema delle esternalizzazioni, della diffusione di una filiera produttiva sul territorio nazionale e internazionale, l’aumento della flessibilità, la deregolamentazione del mercato del lavoro (la “precarietà”) dimostrano, in realtà, proprio come il sistema attuale sia sempre più determinato dalle posizioni monopoliste di poche grandi corporations con carattere di capitale transnazionale che mantengono in casa solo il core business mentre appaltano il resto del processo lavorativo ad imprese “terze”. Queste ultime sono per lo più aziende di piccole dimensioni, dove il livello di ricatto dei lavoratori è molto elevato e quello di “garanzie” e di stipendi molto basso. Oltretutto queste aziende dell’indotto, o anche semplicemente di servizi per l’impresa, dipendono quasi totalmente dalle commesse affidategli da queste grosse aziende private e dai grossi colossi pubblici o ex-pubblici.
Questo significa che l’attuale modello produttivo dei distretti industriali è caratterizzato dal dominio di un pugno di aziende di grandi dimensioni che controllano il mercato ed i processi lavorativi di un vasto arcipelago di piccole aziende, senza oltretutto avere la “responsabilità sociale” dei lavoratori impiegati. Questo è il contorno della cosiddetta “terziarizzazione” del mercato del lavoro. Un sistema produttivo diffuso e atomizzato in molte piccole aziende, come quello italiano, non indebolisce la posizione di forza di questi grandi monopoli, ma la rafforza. Non rappresenta un abbandono della produzione, ma una sua diffusione e atomizzazione estrema. Non diminuisce il numero degli operai impiegati, ma li moltiplica dandogli “tute” di colore diverso…
Questo vale per tutte le aziende al vertice della classifica dei profitti annui o oggi in “crisi” (tipo la FIAT). Sono Telecom, ENI, ENEL, Italcementi, Ferrovie, Autostrade, Finmeccanica che incamerano i maggiori utili sulle spalle di centinaia di migliaia di lavoratori al nero o precari delle ditte in appalto e sub-appalto, dei cosiddetti atipici. Ne sanno qualcosa i lavoratori dei call centers che, spesso, lavorano in scantinati, appartamentini con contratti e trattamenti degni del diciannovesimo secolo su appalti di Telecom o Vodafone.
Quel che persegue la Confindustria è trovare ulteriori strumenti per aumentare la produttività del sistema e per stimolare la “competitività” tra le aziende. E, quindi, la lotta per la cancellazione del lavoro precario non è prevista da nessun governo, perché per stimolare la competitività delle aziende italiane bisogna aumentare quella tra i lavoratori ed abbassare il loro “costo”.
Di fronte a questa feroce ristrutturazione capitalistica la classe lavoratrice si è trovata con l’arma sindacale spuntata proprio quando ne aveva maggior bisogno. La deriva di molti anni ha portato, infatti, il sindacalismo italiano al punto probabilmente più basso della sua storia. La “concertazione” – assunta come valore assoluto e intangibile dalle tre centrali sindacali confederali – ha comportato l’abbandono di ogni autonomia nella rappresentanza e nella difesa degli interessi immediati della classe lavoratrice che sono stati subordinati completamente alle compatibilità e alla governabilità del sistema e, dunque, del tutto soverchiati dagli interessi del capitale. La situazione è giunta ad un tale stato di degrado e di distacco dalla massa dei lavoratori che da tutte le parti – con l’eccezione, naturalmente delle burocrazie sindacali e politiche interessate – si parla oggi della necessità del sindacato di classe. Anche in parti della CGIL quest’esigenza ormai si comincia ad affacciare, mentre dall’universo del sindacalismo di base ed extraconfederale, che da sempre in qualche modo lo vagheggiava, vengono oggi i primi segnali di superamento del settarismo e del minoritarismo radicale che lo ha in parte caratterizzato. In questo senso sicuramente il ruolo politico che stanno assumendo la Rete 28 Aprile ed il Patto tra i Sindacati di Base va visto positivamente come possibile “motorino” di un processo che deve fare ancora molta strada.
Ma i comunisti non si possono limitare a constatare questa esigenza e ad unire semplicemente la propria voce al coro degli auspici e dei desideri. Sarebbe sciocco pretendere di far cominciare la storia da se stessi, e non basta prendersela con la “concertazione”: essa è l’effetto, la conseguenza coerente di scelte politiche più antiche e di ben più vasta portata.
La natura compromissoria dell’organizzazione sindacale è stata certamente il terreno di coltura in cui ha trovato alimento la mala pianta della collaborazione di classe e del neocorporativismo. È importante per i comunisti comprendere questo perché non esiste un vaccino immunizzante in senso assoluto da questa tendenza nel sindacato.
Questa verità non assolve i gruppi dirigenti “comunisti” – di maggioranza come di “opposizione” – che sono succeduti al disciolto PCI. Essi si sono semplicemente disinteressati della questione. Ma questo bilancio è comunque un importante monito per quei compagni che si illudono ancora di poter dar vita ad una organizzazione sindacale “di classe” senza porsi – contemporaneamente – anche la questione di una sua direzione politica: il Partito Comunista.
Lo stesso monito va anche a quei comunisti che parlano di “ri-rifondazioni” o di unità dei comunisti trascurando di nuovo la questione sindacale. Questo errore fu già fatto da Garavini e Cossutta in poi e l’esito lo conosciamo.
In secondo luogo va chiarito che l’origine della deriva collaborazionista non ha inizio nel ‘93 con la nascita ufficiale della “concertazione”, ma è di molti anni antecedente. Di solito si tende a far risalire la politica di collaborazione di classe del sindacato alla cosiddetta “svolta dell’EUR”.
Datare in modo preciso un fenomeno della storia o della politica è sicuramente poco dialettico. Se si vuole indicare l’atto formale da cui discendono comportamenti e atti altrettanto formali, però, lo spartiacque è effettivamente quello.
Ma anche l’EUR fu l’atto conclusivo di una lunga sequenza di scelte e comportamenti volti a chiudere definitivamente il lungo ciclo di lotte operaie che avevano scosso il capitalismo, affermato una certa autonomia politica e organizzativa della classe e gettato una preoccupante (per il Capitale stesso) ipoteca sul futuro. Già all’indomani del cosiddetto “autunno caldo” ci furono il sabotaggio e la negazione dell’unità sindacale, il riassorbimento e lo smantellamento dei consigli di fabbrica – visti, giustamente, come pericolosi strumenti di rappresentanza diretta e di autonomia della classe – e la riconduzione della volontà e della rappresentanza operaia sotto il controllo delle burocrazie sindacali.
Non si trattò di semplice tradimento dei dirigenti sindacali, ma fu anche la scelta di arrendersi opportunisticamente a esigenze oggettive lette e accettate dal punto di vista dell’avversario, percepite e assunte come inevitabili poiché da tempo si era già rinunziato alla propria autonomia critica. La ristrutturazione era necessità indifferibile del capitalismo e richiedeva prezzi elevatissimi che la classe non avrebbe accettato di pagare. Occorreva minarne la combattività, strappandole parte del suo potenziale, dividendola, togliendole gli strumenti di decisione e di lotta, circuendola se possibile, reprimendola violentemente se necessario. Il “compromesso storico” e la collaborazione del PCI nell’area di governo fu fattore decisivo che ebbe pesanti e diretti riflessi sulle scelte delle direzioni confederali e fornì improbabili ma ben orchestrate suggestioni alla massa dei lavoratori.
La “svolta dell’EUR” è, allora, soltanto il punto di approdo e di ripartenza di questa strategia ottenuta dal padronato e che ha come posta il recupero integrale della “governabilità” e la totale subordinazione della classe operaia che lascia mano libera al capitale in cambio di un simulacro di compartecipazione e di un inarrestabile scivolamento verso l’immiserimento e la sudditanza. Da quella “svolta” diventa visibile una strategia a tutto campo che progressivamente e inesorabilmente disgrega, scompone e cambia la classe operaia e l’intero mondo del lavoro. Importantissimi sono i comportamenti e le connivenze dei gruppi dirigenti di sindacati e partiti, ma gli esiti devastanti sono conseguenza di fatti molto concreti come la ristrutturazione e la riorganizzazione capitalistica, lo smantellamento di gran parte del tessuto produttivo e la perdita di centinaia di migliaia di posti di lavoro, delocalizzazioni ed esportazione di capitali, spostamento di risorse verso piccole e marginali unità produttive, privatizzazioni e concentrazioni di enormi risorse nelle mani del capitale speculativo. Alla riappropriazione della rappresentanza esclusiva da parte delle burocrazie sindacali corrispondono attacchi sempre più intensi alle conquiste storiche dei lavoratori ed una crescente precarizzazione del rapporto di lavoro, mentre la “difesa dell’economia nazionale” viene assunta dal sindacato come valore primario in nome del quale vengono imposte la “moderazione salariale” e una interminabile sequenza di cedimenti e rinunce.
È contraddittorio e inutile porsi il problema del “sindacato di classe” senza porsi realisticamente da questo punto di osservazione e senza porsi molto concretamente e decisamente in contrapposizione ad esso.
Occorre uscire dalla gabbia del gioco di rimessa, di semplice contrasto alle singole scelte del capitalismo, lanciare la sfida sulle scelte politiche generali, misurarsi sulla strategia. Qui sta il ruolo dei comunisti, qui sta l’esigenza del Partito.
Quando una violenta crisi strutturale del capitalismo mette in discussione le condizioni basilari di vita e di lavoro della classe operaia, non basta la lotta in difesa della propria esistenza e neppure l’illusione di un lento e progressivo avvicinamento ad una forma di socialismo “democratico”. Nell’epoca della crisi del capitale all’ordine del giorno è un’alternativa e una trasformazione radicale del sistema economico-sociale o ci sarà “la comune rovina delle classi in lotta”.
La mancanza del partito dei comunisti complica maledettamente la questione. Ma è anche il dato reale da cui lucidamente partire. Sarebbe opportunista e perdente rinunciare per questo motivo, e sarebbe sciocco e colpevole baloccarsi con le priorità. Non si tratta di risolvere lo stupido indovinello se sia meglio l’uovo o la gallina: in gioco c’è la riorganizzazione del movimento operaio e i suoi destini storici, la capacità di contrastare e rovesciare il capitalismo, c’è la prospettiva del potere e del socialismo. Senza avvilirsi per rinunciare, senza semplificare per scegliere soluzioni a portata di mano, bisogna farsi carico di entrambi i problemi che, del resto sono dialetticamente legati e che, dunque, possono essere affrontati e avviati a soluzioni solo in modo dialettico.
Per i comunisti, allora, “costituente comunista” e “sindacato di classe” sono due parti dello stesso processo che ha per oggetto e posta la riorganizzazione della classe e, quindi, sotto la sua direzione, la creazione di un vasto blocco sociale anticapitalista. I comunisti debbono essere punto di riferimento, rappresentanti dei lavoratori e degli operai in tutti i luoghi di lavoro, lavorando alla radicalizzazione delle lotte, delle rivendicazioni e del conflitto di classe proprio a partire dall’elaborazione di una comune strategia di intervento e mobilitazione permanente articolata intorno a piattaforme unificanti e condivise, al di là della attuale collocazione sindacale di ciascuno, da far vivere in e da quel conflitto.
Non si tratta affatto di costruire un sindacato dei comunisti o di comunisti. Il tema dell’organizzazione sindacale dei lavoratori, dell’organizzazione delle loro espressioni più avanzate si pone su basi diverse da quello della costruzione della loro avanguardia politica. Il terreno sindacale è il primo su cui un lavoratore sente il bisogno di organizzarsi e, dunque, non può funzionare su base ideologica e i comunisti possono e debbono dirigerlo soltanto sulla base delle scelte e delle proposte che essi elaborano e che propongono agli iscritti del sindacato e alla massa dei lavoratori tutta e su quelle – soltanto su quelle – ne conquistano e ne conservano la fiducia.
La questione sindacale è forse il primo punto di programma per una vera costituente comunista, al di là delle forme concrete che questa costituente va assumendo. Non ci sono altre scorciatoie per affrontare il tema dell’insediamento sociale dei comunisti. La proposta di una “conferenza nazionale dei lavoratori comunisti” (ovunque collocati) è il primo passo necessario per riannodare questi fili e darsi una prospettiva comune strettamente legata alle necessità oggettive e soggettive della classe.
Non c’è partito rivoluzionario senza teoria rivoluzionaria, ma una teoria rivoluzionaria è nulla se non serve a meglio organizzare l’avanguardia della classe che è il soggetto reale e di cui il partito e il sindacato devono rappresentare i pilastri fondamentali nella lotta contro il capitalismo e per il socialismo.


Pcl: "Lettera aperta alle sinistre, per una svolta di unità e radicalità nel movimento reale delle lotte.
Cari compagni e compagne,
la diversità politica e programmatica tra i nostri partiti, che è alla base di presentazioni elettorali distinte e alternative, non può e non deve contraddire la ricerca dell'unità d'azione sul terreno decisivo dell'iniziativa di massa e della lotta di classe. Tanto più nel cuore di una crisi capitalistica devastante. Questo è il senso della lettera aperta che vi rivolgiamo.

AUTONOMIA COMUNISTA E UNITA' D'AZIONE
Come sapete, la scelta di fondo della costruzione autonoma del PCL si basa sulla natura del nostro programma e della politica che ne consegue : un programma comunista, di rovesciamento rivoluzionario del capitalismo e di governo dei lavoratori, su scala nazionale e internazionale; e dunque una politica quotidiana tesa a sviluppare in ogni lotta particolare il senso di quella prospettiva generale, a partire da una difesa rigorosa dell'autonomia di classe del movimento operaio. E' in virtù di questa impostazione che abbiamo rifiutato,a differenza vostra, ogni corresponsabilità nel sostegno al governo confindustriale di Prodi; che ci collochiamo all'opposizione di quelle giunte di centrosinistra che voi sostenete ( spesso le più impresentabili); che abbiamo avanzato e avanziamo la parola d'ordine della cacciata del governo Berlusconi per via della mobilitazione di massa e nella prospettiva di un governo operaio: contro ogni riproposizione, per l'oggi e per il domani, di una nuova coalizione col PD e coi partiti borghesi. Presentare questo nostro programma ai lavoratori e agli elettori lo consideriamo un diritto- dovere di onestà: contro ogni logica camaleontica di autocensura, di camuffamento, di mercanteggiamenti elettoralistici, a scapito della chiarezza e dell'autonomia di una proposta. Convinti, come siamo, che solo un partito basato su principi saldi, non negoziabili, possa ricostruire una prospettiva di liberazione del mondo del lavoro; e che oltretutto solo la lotta per quella prospettiva possa dare un futuro ai comunisti.
Ma la nostra reciproca autonomia e diversità non può e non deve impedire la ricerca della massima unità d'azione, nell'interesse generale del movimento operaio, e nella sua migliore tradizione. Siamo di fronte alla più grande crisi capitalistica degli ultimi 80 anni, e al governo più reazionario che l'Italia abbia conosciuto dal 1960. Siamo di fronte a un'offensiva sociale e politica devastante, sconosciuta alle ultime generazioni. Possiamo unire le nostre forze in un'azione comune che sia all'altezza del livello attuale dello scontro? Più volte abbiamo posto nei mesi scorsi questa esigenza, su terreni diversi e complementari, politici, sindacali, di movimento. Sia su Il Manifesto, sia su Liberazione, abbiamo ripetutamente avanzato, in forma pubblica, specifiche proposte unitarie. La nostra stessa proposta di un parlamento dei lavoratori e delle sinistre voleva coronare e tradurre un'istanza generale di fronte unico d'azione e al tempo stesso di aperto e pubblico confronto. Ma ogni volta abbiamo registrato o il silenzio o il rifiuto. Al punto che la più altisonante retorica sull'unità elettorale ha spesso coinciso con la più bassa disponibilità all'unità d'azione nella lotta . Proponiamo l'esatto capovolgimento di questo schema.

PER UNA SVOLTA RADICALE NELL'AZIONE DI MASSA
Proponiamo innanzitutto un'azione comune di svolta sul terreno dello scontro sociale. Di fronte all'onda d'urto di licenziamenti di massa, chiusure aziendali, misure antisciopero, la logica delle manifestazioni trimestrali della Cgil e del sindacalismo di base appare francamente una routine impotente. Tanto più in una dinamica di reciproca divisione e separazione. Di più: Epifani vanta pubblicamente agli occhi della borghesia di "aver evitato sinora l'esplosione della rabbia sociale, come in Grecia e in Francia". Ma questa è esattamente la confessione di una logica burocratica, mirata alla riconquista della concertazione. Rifiutare questa logica significa lavorare all'innesco di quell'esplosione di lotta che Epifani vuole scongiurare: l'unico scenario temuto realmente dalla borghesia; l'unico scenario che può erigere una diga e strappare risultati per le masse. Ma puntare all'esplosione sociale non significa inseguire, a distanza, lo scadenzario rituale dell'apparato Cgil, come fanno i gruppi dirigenti del sindacalismo di base, in uno schema di concorrenza tra sigle e di pura autoconservazione. Ecco allora la nostra proposta: lavorare insieme, in ogni luogo di lavoro e in ogni sindacato, alla massima unità della lotta e alla massima radicalità dell'azione. C'è bisogno dell'unità di lotta tra tutte le forze sindacali estranee all'accordo governo-CISL-UIL-UGL, a partire dalla Fiom, fuori dal rito demenziale della competizione di date ed etichette. E occorre che questa unità si realizzi attorno ad una risposta di lotta tanto radicale quanto radicale è l'offensiva dei padroni e del governo. Occorre unire le forze nella prospettiva di una mobilitazione prolungata ( sino allo sciopero generale ad oltranza), combinata con azioni di massa dirompenti ( occupazione di aziende in crisi), sostenuta da una comune cassa di resistenza, attorno ad una piattaforma unificante che raccolga tutte le emergenze imposte dalla crisi: a partire dalla rivendicazione del blocco generale dei licenziamenti, della ripartizione generale del lavoro, dell'assunzione a tempo pieno e indeterminato di tutti gli attuali precari, di una vera indennità di disoccupazione per tutti coloro che cercano lavoro e per i giovani in cerca di prima occupazione. Chiediamo : è mai possibile che di riduzione dell'orario di lavoro i gruppi dirigenti del PRC parlassero 12 anni fa ( come compensazione d'immagine del proprio sostegno al primo governo Prodi) ed oggi, proprio di fronte alla crisi drammatica del lavoro, quel tema centrale sia del tutto rimosso? Se c'è la crisi e c'è poco lavoro, quel lavoro va ripartito fra tutti, in modo che nessuno ne sia privato: la riduzione progressiva dell'orario, a parità di paga, è la traduzione di questa istanza. Proponiamo una campagna unitaria a sinistra attorno a questo obiettivo strategico. Così sul precariato. Tutte le sinistre hanno votato in 10 anni le peggiori misure di precarizzazione del lavoro, dal pacchetto Treu alla riconferma della legge 30, (mentre hanno svolto centinaia di convegni contro il precariato). E' possibile oggi, di fronte ad una crisi che si rovescia in primo luogo sui precari, battersi insieme per la cancellazione di quelle leggi vergognose, a partire dalla richiesta di assunzione piena ed immediata di tutti i lavoratori precari? Un programma di mobilitazione reale, unitaria e radicale, attorno a questi obiettivi, potrebbe unificare grandi masse, contrastare la xenofobia, incidere sui rapporti di forza, ribaltare lo scenario sociale, riaprire dal basso un varco prezioso. C'è la volontà di marciare in questa direzione? O si preferisce continuare a "denunciare" le politiche dominanti e a "solidarizzare" acriticamente con i sindacati e con la loro politica dell'impotenza, senza uno straccio di proposta reale e unitaria di lotta di massa (..e pensando solo alle urne) ?

PER LA NAZIONALIZZAZIONE DELLE BANCHE E DELLE AZIENDE IN CRISI, SENZA INDENNIZZO E SOTTO CONTROLLO OPERAIO
Di fronte ad una borghesia che per 20 anni ha privatizzato l'impossibile e oggi parla di "nazionalizzazioni", ci pare impressionante il balbettio della sinistra ( impregnata da 20 anni di cultura antiliberista, ma non anticapitalista). Le nazionalizzazioni di cui parla la borghesia sono solo la nazionalizzazione dei debiti delle grandi banche e delle grandi imprese a carico della collettività, cioè dei lavoratori. E' possibile una grande battaglia unitaria, politica e sindacale, che rivolga contro la borghesia il suo stesso linguaggio? Che contrapponga la nazionalizzazione delle aziende in crisi e delle banche alla nazionalizzazione dei loro debiti? Sarebbe davvero curioso se le stesse sinistre che hanno votato al governo il fiore delle privatizzazioni degli ultimi 20 anni ( il record delle privatizzazioni in Europa lo realizzò il primo governo Prodi, con il voto del PRC), ora finissero con l'avallare il nuovo statalismo della borghesia. Chiedere "quote di proprietà pubblica delle banche", come fa il PRC, non è particolarmente originale: è quello che formalmente propone la Lega, che non esclude di fare Tremonti, che fanno già oggi- in termini a volte più estesi- Merkel e Sarkosy. E' una forma indiretta di sostegno ai banchieri, a carico dei contribuenti, in cambio di qualche posto "pubblico" nel consiglio di amministrazione. Così chiedere, come fa il PRC, che le regalie pubbliche alle aziende private siano "vincolate a impegni occupazionali" significa replicare a sinistra il populismo di Sarkosy: che ha motivato con lo stesso argomento rassicurante i miliardi dati alla Peugeot, usati in realtà dall'azienda per finanziare ristrutturazione e licenziamenti. No, riteniamo necessario farla finita con il rispetto delle compatibilità borghesi e con un malinteso "senso di responsabilità". Proponiamo una campagna comune che dica: "Se ne vadano i bancarottieri. Si licenzino i licenziatori. Si nazionalizzino le banche e le aziende in crisi. Senza alcun indennizzo per i grandi azionisti, che si sono già finanziati con decenni di rapine, e sotto il controllo dei lavoratori : che è la condizione decisiva per abolire il segreto bancario, industriale, commerciale; per ripartire il lavoro fra tutti; per riconvertire eventualmente la produzione con garanzie reali per l'occupazione; per garantire una direzione aziendale elettiva e revocabile, senza uno straccio di privilegio per i dirigenti". Questa vera nazionalizzazione sarebbe una misura capace di garantire un risparmio immenso di danaro pubblico, oggi destinato a banchieri e capitalisti, per dirottarlo verso protezioni sociali, servizi pubblici, risanamento ambientale. Ed è una misura indispensabile per prospettare la riorganizzazione radicale dell'intera società, in base al primato dei bisogni. Il PCL ha avviato, su questa proposta una campagna nazionale, che sta raccogliendo l'adesione di diverse strutture sindacali, aziendali o territoriali, CGIL o di base. E' possibile sviluppare insieme questa campagna? E' possibile gestire insieme questa proposta nelle organizzazioni sindacali e nei luoghi di lavoro, dando una proiezione unificante alle mille lotte di resistenza, a difesa del lavoro, che oggi si snodano in ordine sparso in tutta Italia, senza altro sbocco, nel migliore dei casi, della "riduzione del danno"? E' possibile lavorare insieme nelle lotte di resistenza per la parola d'ordine dell'occupazione delle aziende che licenziano, che è il primo passo reale nella lotta per la loro nazionalizzazione? In altri paesi questi obiettivi e queste pratiche sono fatti propri da importanti settori d'avanguardia del movimento operaio. Perche non assumerli in Italia?

CONTRO LE RONDE REAZIONARIE, PER STRUTTURE DI CONTROLLO OPERAIO E POPOLARE SUL TERRITORIO
La xenofobia è il veleno delle classi dirigenti all'interno delle classi subalterne. Un veleno tanto più pericoloso in tempi di crisi sociale e in assenza di una risposta anticapitalistica della sinistra. Ma anche un terreno su cui prima la Lega e poi il governo hanno innestato una pratica nuova: quella delle ronde. Quella della mobilitazione e organizzazione parallela di strutture ( di fatto) paramilitari, oggi dedite alla caccia all'immigrato, domani chissà. Di fronte a questa enormità, ci pare irresponsabile la totale passività delle sinistre, politiche e sindacali. E ancor peggio che si risponda con l'invocazione dello Stato e del suo monopolio della forza, come se il G8 di Genova non avesse insegnato nulla. No, crediamo necessaria una risposta vera, autonoma, tempestiva, dell'insieme delle organizzazioni popolari, dei sindacati, dei partiti della sinistra. Non basta la denuncia del carattere reazionario delle ronde leghiste, o la denuncia del carattere mistificatorio dell'intera campagna sulla sicurezza, che vuol deviare l'attenzione delle masse dall'emergenza sociale e fomentare la guerra tra i poveri. E' necessario combinare questa denuncia- assolutamente necessaria e prioritaria- con un'iniziativa pratica che contrasti il rondismo reazionario e prospetti un controllo alternativo del territorio e della sua sicurezza. Perché non proporre e promuovere insieme unitariamente strutture di controllo operaio e popolare del territorio? Perché non predisporre strutture operative, totalmente autonome da sindaci e prefetti, capaci di difendere la sicurezza di immigrati, donne, anziani, da ogni minaccia, e al tempo stesso di vigilare sullo sfruttamento del lavoro nero, sull'evasione fiscale, sul saccheggio dell'ambiente, sull'inosservanza della sicurezza del lavoro? Sarebbe l'esatto opposto di un'iniziativa "minoritaria". Significherebbe contrastare l'egemonia reazionaria sulla domanda di sicurezza, capovolgendola di segno: condidando il movimento operaio e le sue organizzazioni a garanzia della sicurezza vera, contro tutte le forme di delinquenza, legale o illegale, della borghesia, dei suoi clan, delle sue ronde. Proponiamo a tutti i soggetti politici e sindacali della sinistra di intraprendere unitariamente la preparazione di questa iniziativa. Evitando oltretutto di lasciare spazi impropri a iniziative improvvisate "fai da te", tanto inefficaci quanto rischiose.

IN CONCLUSIONE
Come si vede l'insieme di queste proposte muove dal totale rispetto dell'autonomia organizzativa, politica, programmatica delle diverse forze della sinistra. Né invade il campo, di conseguenza , delle distinte scelte elettorali. Vuole invece verificare se è possibile, nel rispetto dell'autonomia di ogni soggetto, realizzare un'unità d'azione sul terreno dell'iniziativa di massa: attorno a obiettivi non ritagliati sulla ricerca letteraria del minimo comun denominatore, ma imposti dal salto obiettivo del livello di scontro sociale e politico, sullo sfondo della grande crisi capitalistica. Per quanto ci riguarda partiamo da una precisa consapevolezza: una unità d'azione delle sinistre sulla risposta anticapitalistica alla crisi, attorno alle rivendicazioni proposte, avrebbe una ricaduta preziosa sull'intero scenario sociale e politico italiano. Per questo abbiamo più volte avanzato in passato, senza successo, una proposta di fronte unico d'azione. Per questo, di fronte alla straordinarietà della crisi, rinnoviamo oggi tale proposta, in forma pubblica: dentro quella prospettiva generale di un governo dei lavoratori che è al centro, oggi più che mai, di tutta la nostra politica di massa, e, di conseguenza, della nostra stessa campagna elettorale indipendente.
Comitato Esecutivo PCL

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